L'etica
in bilico (dalla padella della biologia alla brace della cultura)
1.
Felice Accame è un abile provocatore e, sebbene da giovane
mi sia stato insegnato che non si deve rispondere alle provocazioni,
in questo caso ho deciso di accettare la sfida. La mia non è
una replica o una confutazione degli argomenti
di Accame (con cui sono sostanzialmente in sintonia): la
mia è una nota a margine, un breve cenno a proposito
di argomenti su cui vale la pena di ragionare un minuto e che
in Diventare Umani – che è una sorta di
tuttologia – non hanno trovato lo spazio che forse meritavano.
2.
La selezione e la sopravvivenza delle specie dipendono, in buona
sostanza, dal comportamento individuale e collettivo. Il comportamento
altro non è che se non la risposta agli stimoli che provengono
dall'ambiente, ambiente dal quale dipendiamo e dal quale ci
si deve anche difendere. Il comportamento è guidato da
riflessi spontanei e da risposte condizionate dall'esperienza.
L'esperienza è composta da almeno tre componenti: uno
stimolo; un comportamento in risposta allo stimolo; l'effetto
conseguente al comportamento. È questa triade –
che chiamiamo esperienza – che si radica nella memoria.
Ripetute esperienze simili tra loro inducono comportamenti stereotipati:
ciò avviene verosimilmente attraverso facilitazione di
circuiti neurali indotta dalla reiterazione di triadi ripetitive.
Fino a qui la cultura non entra in gioco. Fino a qui sono sufficienti
dotazioni di base di tipo associativo messe a disposizione dei
sistemi neurocognitivi di tutte le specie animali, nessuna esclusa.
La cultura entra in gioco quando sono richiesti comportamenti
complessi in risposta a stimoli complessi.
Gli animali che vivono in branco (ad esempio lupi, scimmie,
elefanti), ma anche quelli che convivono in uno spazio limitato
(ad esempio, le galline che razzolano in un'aia), seguono regole
precise, acquisite e memorizzate in virtù dell'apprendimento:
l'esempio più classico è quello dell'esercizio
delle relazioni gerarchiche. Gli individui di questi gruppi
imparano a codificare comportamenti differenziati a seconda
delle gerarchie. Senza volere “umanizzare” questi
animali, possiamo semplificare dicendo che essi adottano schemi
per i comportamenti che, in certe contingenze, possono essere
adottati (buoni) e che, in altre contingenze, non possono essere
adottati (cattivi). I gruppi che seguono queste tradizioni comportamentali
(che sono l'anticamera della cultura) probabilmente sono premiati
dai processi di selezione naturale e i loro sistemi cognitivi
si sono conformemente evoluti. Un fatto analogo è accaduto
anche per l'uomo i cui sistemi cognitivi, di norma, impediscono
che si infrangano i tabù che sono stati individuati e
trasmessi attraverso i meccanismi dell'apprendimento sociale.
Per l'uomo la questione è però un po' più
complicata che per le galline o i lupi.
3.
Felice Accame afferma che è “destrorso” cercare
di legittimare comportamenti autoritari e repressivi attraverso
l'idea che “il male proviene dall'uomo”. Negli animali
che vivono in branco, i comportamenti aggressivi nei confronti
degli individui che violano le gerarchie sono la regola. Ma
gli animali non conoscono le categorie del bene e del male e
nemmeno quelle di destra o di sinistra. Quel che io trovo più
che discutibile è legittimare comportamenti aggressivi
e repressivi in virtù di presupposti filo-naturalistici
in cui si assume che uomo e animali, avendo una natura simile
e condividendo alcune facoltà cognitive, debbano anche
condividere i modi di relazionarsi tra loro. Il fatto che uomini
e animali condividano una filogenesi e una serie di facoltà
cognitive non deve far dimenticare che l'uomo ha acquisito alcune
facoltà, non presenti negli animali, che gli consentono
di avvalersi di una cultura molto più articolata rispetto
a quella degli animali e che questa cultura è un filtro
necessario per la “scelta” dei comportamenti da
adottare. Anch'io affermo che “il male proviene dall'uomo”:
non per giustificare il male, ma perché è in virtù
delle sue particolari facoltà cognitive che l'uomo è
riuscito a concepire il male, ovvero ad attribuire un “valore”
ai comportamenti, assegnandoli di volta in volte alle categorie
contrapposte del “bene” o del “male”.
Ecco qui introdotte le categorie del “bene” e del
“male” e il tormentone della “libera scelta”.
4.
I genitori e i nonni passano gran parte del loro tempo a insegnare
a figli e nipoti, fin dai primi mesi di vita, che cosa si può
fare, ma soprattutto che cosa non si può fare. “Non
fare questo, non fare quello”; “questo non si fa”;
“guai a te se lo rifai”; “non farlo mai più”.
La categoria del male sembra del tutto prevalente su quella
del bene. Solo quando si frequenta il catechismo, o durante
insegnamento della religione nelle prime di classi della scuola
elementare, si viene a sapere che esiste un bene contrapposto
al male e che la conoscenza dell'uno e dell'altro non si addice
a chiunque, o che il frutto di quella conoscenza (mela o fico
che sia) è piuttosto indigesto. A partire dall'infanzia
– con i “no” dei genitori e con il regime
sanzionatorio delle religioni – impariamo, finalmente,
che il bene e il male sono categorie rigide: di qua il bene,
di là il male; un comportamento è buono, oppure
è cattivo; una persona (bambino o adulto che sia) è
buono oppure è cattivo. Sono categorie tagliate con l'accetta
– tanto care a Platone come a Papa Ratzinger – quelle
del bene e del male. Le neuroscienze, per nostra fortuna, non
sono ancora riuscite a identificare circuiti specifici per i
comportamenti buoni e per quelli cattivi.
5.
Le neuroscienze però si occupano, eccome, del bene e
del male. Ci sono molte prove, sia di tipo psico-comportamentale
che di tipo neuro-fisiologico, che dimostrano che facoltà
prettamente umane (come la capacità di mettersi nei panni
dell'altro e l'empatia) sono prerequisiti necessari per poter
categorizzare un fatto o un comportamento nella categoria del
bene o del male. Naturalmente ci sono alcune aree del cervello
(per esempio il sistema limbico e le amigdale) dalla cui attività
dipende l'elaborazione di queste facoltà. Da qui, la
facile deduzione riduzionistica che “i cattivi”
sono tali perché la loro biologia o la loro genetica
è stata avara nel fornire loro queste facoltà.
Citando me stesso, ricordo che per Francisco Ayala “il
senso morale è determinato dalla biologia nella misura
in cui biologia e genetica determinano lo sviluppo cognitivo
e intellettivo della specie umana. Il senso morale è
quindi determinato da una struttura cognitiva ma, per esprimersi
in modo concreto, il senso morale necessita di codici morali
strettamente correlati all'esperienza e al contesto”.
Parole non molto diverse sono quelle di Paolo Legrenzi
il quale afferma che: “l'analisi delle precondizioni biologiche
dell'empatia non esaurisce il problema della bontà e
della cattiveria. La questione riguarda lo scenario e la relazione
di collaborazione o di competizione che si ha con l'altro”.
L'idea di Platone che “'uomo buono è colui che
ha la conoscenza del bene” mi sembra altrettanto riduttiva
di quella di una “cattiva” neuroscienza quando afferma
che l'uomo cattivo è quello con un sistema limbico difettoso.
6.
I sistemi cognitivi datici in dotazione dalla natura ci consentono
di elaborare codici di comportamento che, quando vengono messi
in relazione a scopi o a risultati di utilità per il
gruppo (più raramente per l'individuo), assumono il connotato
di codice morale. L'applicazione di questi codici (che possono
essere rigidi) va però adattata ai vincoli culturali,
all'esperienza, alle contingenze del contesto (che possono essere
piuttosto variabili). Si può convenire sulla necessità
che i codici etici siano entità rigide, ma si deve anche
convenire che la giustizia e l'ingiustizia, il bene e il male
vanno valutati nello specifico contesto, un contesto che esperienza
e cultura possono dilatare di molto: io credo che nel giudizio
etico (checché ne pensino Platone e Ratzinger) il relativismo
è d'obbligo. Il relativismo è d'obbligo perché,
altrimenti, nessuna “scelta” potrebbe essere “responsabile”.
Ci sono molti studi di neurofisiologia e di neuroimmagine che
dimostrano che l'individuo diviene cosciente di una scelta dopo
che il suo cervello ha effettuato quella scelta. La sincronizzazione
di vaste aree cerebrali da cui dipenderebbe la coscienza impiega
più tempo a realizzarsi che non l'effettuazione della
scelta stessa. Ciò sembrerebbe ridurre i margini della
“libera” scelta. Non è necessario mettere
in dubbio i risultati di questi studi scientifici. È
sufficiente pensare che, almeno per ogni scelta ragionata, sia
necessario un doppio comando per mettere in atto un comportamento.
Se il cervello elabora una scelta e poi ce la notifica, a noi
tocca poi la responsabilità di convalidare o di invalidare
quella scelta. La libertà, in fondo, dipende ancora da
noi.
Piero Borzini
Milano
Note
Il mio Diventare Umani è edito da Aracne, Roma
2013. La citazione di Francisco Ayala sul senso morale
è a pag. 387 ed è ripresa dal suo articolo The
difference of being human: Morality, in PNAS 2010; 107:
9015-9022. La citazione di Paolo Legrenzi è tratta
dal suo articolo L'empatia: il bene e il male, in MicroMega
2014; 1: 122-135.
Black block, G8, violenza, ecc./ Danni irreparabili
Caro Andrea Staid,
leggendo il tuo intervento uscito nel numero di maggio sugli
articoli di Toni Senta apparsi negli scorsi numeri di A-Rivista,
mi sono sentito coinvolto nelle tue critiche ai “commenti”
redazionali e soprattutto nella critica al comunicato “genovese”
che anche io sottoscrissi e di cui contenuti ritengo di non
dovermi pentire. Sono sempre più convinto, infatti, che
le imprese dei Black block a Genova, tanto di quelli che pensavano
di star facendo qualcosa di simile a una rivoluzione, quanto,
e soprattutto, di quelli che erano lì per dare sfogo
alle proprie frustrazioni, se non, così non fosse, per
obbedire agli ordini di questure e ministeri, abbiano prodotto,
oltre ai danni materiali, danni irreparabili (e irreparabili,
col tempo si sono purtroppo dimostrati) ai movimenti di opposizione
sociale e alla loro attività.
Per non parlare della sorte dei compagni che si trovano a scontare
anni di galera motivati, secondo la logica della “giustizia”,
dalla radicalità dello scontro. Compagni che reputo incolpevoli
delle accuse mosse loro ma che stanno pagando per altri che
già sapevano che non avrebbero pagato nulla. E anche
il movimento no global, non ha certo tratto grandi benefici
dalle imprese di chi ha inteso ridurre i suoi contenuti e la
sua potenziale ricchezza nel più banale e scontato “scontro
diretto” con le vetrine della controparte.
In una delle pagine più belle della sua Breve estate
dell'anarchia Hans Magnus Enzesberger, nel descrivere il
carattere e la natura dei vecchi, meravigliosi, combattenti
anarchici spagnoli esiliati in Francia, scrive: «La violenza
è loro familiare, il piacere della violenza è
invece profondamente sospetto».
Guardavo, giorni fa, un servizio sui recenti scontri madrileni,
nei quali, a margine di una imponente manifestazione, alcune
decine (ma il numero non conta) di manifestanti hanno deciso,
tanto per cambiare, di dare l'assalto a qualche bancomat e vetrina.
Quello che mi ha impressionato non è stata tanto l'accanimento
con il quale un giovane cercava di rompere un vetro infrangibile,
quanto, piuttosto, il codazzo di fotografi e cineoperatori che
“circondavano” il giovanotto in questione, attenti
a non perdere nemmeno un fotogramma dell'impresa: una performance
teatrale con la sceneggiatura di prammatica se non un vero e
proprio “rito” che un bravo antropologo come te
non faticherebbe a descrivere.
Tutto questo per dire cosa? Per dire che non si possono accostare
l'impresa del Matese, l'arditismo e la Resistenza con certe
manifestazioni piazzaiole di questi ultimi tempi. Opporre alle
violenze del potere, quando indispensabile, una necessaria contro
violenza, è un conto, che può piacere o dispiacere,
ma che comunque potrebbe essere inevitabile, mettere al centro
della propria azione la violenza come primo strumento
dell'attacco al potere, è un altro. Come anarchici dobbiamo
sempre porci il problema di far sì che il nostro agire
non solo sia coerente con i fini che ci proponiamo, ma che sia
anche in grado di far crescere nel corpo sociale una coscienza
collettiva disposta alla libertà.
Quando però certi fatti diventano, come dicevo, puro
spettacolo, abitudini scontate e stancamente ripetitive, riconducibili
a una dialettica che non può appartenerci, mi sembra
indispensabile che come portatori di un progetto sociale veramente
“altro”, si diventi quanto mai criticamente circospetti.
Critica e circospezione che possono essere offuscate dal sottile
fascino che una bella immagine di “attacco al sistema”
può trasmetterci, ma che non devono mai mancare in chi
è convinto, come sono sicuro che siamo entrambi, che
il nostro mondo nuovo potrà nascere solo da un moto spontaneo,
collettivo e condiviso, di rifiuto del potere. E, a mio parere,
anche di uno dei suoi assunti più solidi: quello secondo
il quale la categoria della violenza sia imprescindibile nella
dinamica dei rapporti sociali.
Un fraterno saluto
Massimo Ortalli
Imola
Prosegue
il dibattito su
movimenti e potere
Pubblichiamo
qui di seguito il quarto e il quinto intervento nel dibattito
sulle tematiche toccate nei quattro articoli di Antonio
Senta (“potere e movimenti”) pubblicati sulla
nostra rivista tra l'ottobre 2013 (“A” 383)
e il febbraio 2014 (“A” 386). In precedenza
erano intervenuti Andrea Papi e Andrea Aureli (“A”
388) e Francesca
Palazzi Arduini (“A” 389). Ricordiamo
che gli interventi in questo dibattito, come sempre aperto
a tutti, non possono superare le 6.000 battute (spazi
compresi).
|
Dibattito
Movimenti e potere/4
e 5
Andrea Staid/Posizioni antipatiche e poco efficaci
In questi mesi grazie a Toni Senta nelle pagine di “A”
rivista abbiamo letto e capito meglio quelle che sono state
le rivolte, le manifestazioni e i nuovi movimenti che in giro
per il globo hanno chi più chi meno scosso le sfere alte
della società del dominio.
L'analisi lucida e accurata di Toni Senta non si è soffermata
solo su un paese ma ha cercato di analizzare e trovare i punti
di contatto tra le varie rivolte che si sono susseguite negli
ultimi anni. Tutto il mondo si è sollevato, dall'Europa
al Magreb passando per l'Asia e il centro America quello però
che ci allarma è che sembra che le cose rimangano sempre
uguali o peggio, difatti in certi casi dopo le rivolte sembra
che la situazione peggiori.
Ma dobbiamo stare attenti a dare una lettura superficiale di
questi moti perché molto spesso non prestiamo attenzione
a quelle che sono le mutazioni culturali in atto in seno a queste
ribellioni, ovvero quelle mutazioni silenziose ma profonde che
si portano dietro i moti di rivolta.
Detto questo devo ammettere che non ho molto da dire su gli
articoli di Toni Senta perché condivido la sua analisi,
invece quello su cui vorrei soffermarmi sono le note che compaiono
ogni tanto sulla “nostra” rivista.
Le trovo alquanto antipatiche e poco efficaci, nel senso che
penso (e invito a farlo) che la redazione di A si debba esprimere
più profondamente su tematiche come queste in modo da
approfondire le critiche, non può e non basta scrivere
brevemente “noi” non concordiamo con l'autore dell'articolo,
le nostre posizioni sono da sempre contro la violenza... cosa
significa? Devo dedurre che la rivista quindi è contro
i moti del Matese, contro l'arditismo popolare, contro le azioni
partigiane, contro le rivolte degli anni 70, contro la resistenza
in Val Susa?
Non penso, in più in questo caso, nota per me collaboratore
della rivista dolente è che in uno degli articoli di
Toni dove è apparsa questa posizione antiviolenza la
redazione ha tirato in ballo nelle poche righe scritte in fondo
all'articolo delle giornate centrali come quelle del luglio
2001 e le ha liquidate dicendo eravamo contro 10 anni fa e lo
siamo ancora oggi. Ma contro a cosa? Il fatto grave di questa
posizione per me non è non condividere certe pratiche
ma parlare sbrigativamente di questioni importanti e soprattutto
di usare termini sbagliati. Credo che etichettare certe pratiche
con il nome violenza, ovvero usare lo stesso vocabolario di
chi ci governa quando in realtà, soprattutto per le giornate
del 2001, si tratta di danneggiamenti a feticci.
Altra nota dolente e soprattutto fastidiosa è che la
redazione tira in ballo Genova dopo lungo silenzio non per parlare
degli anarchici incarcerati con condanne dagli otto ai 12 anni
per degli scontri di piazza, ma per puntare il dito contro dei
fantomatici atti violenti. Per questo mi auguro una chiarificazione
seria e profonda in queste pagine sulla posizione della redazione.
Sono convinto che non c'è solo un modo di sviluppare
la lotta libertaria e non credo che l'anarchismo sia universale
ma, credo e sono convinto che la violenza sia quella contro
le persone, contro gli animali uccisi tutti i giorni nei nostri
piatti, quella dello stato che incarcera e reprime le lotte
sociali, quella del lavoro salariato e non dei danneggiamenti
a proprietà; condivisibili o meno, controproducenti o
meno, ma non certo riconducibili a atti violenti.
Andrea Staid
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Carlo Boffa, 2013, “Sulle spine” –
elaborazione digitale |
Federico Battistutta/Mille piani in movimento
Nel corso di una conversazione Gilles Deleuze si pose la domanda
sul perché le persone si ribellano e fanno rivoluzioni,
se poi queste rivolte alla fine falliscono. Tutte le rivoluzioni
falliscono (anche quando apparentemente vincono, come in Russia
o da altre parti) – diceva Deleuze – ma ciò
non impedisce il divenire-rivoluzionario da parte delle persone,
sempre e in ogni epoca. Anche oggi.
Vi ricordate Fukuyama e le sue tesi sulla filosofia della storia?
Oggi è finalmente possibile delineare una vera e propria
fine della storia, e questa è collocabile in un ben preciso
contesto sociale, politico ed economico, ossia il sistema capitalistico,
liberale e democratico e, in particolare, nella versione di
essa concretizzatasi negli Stati Uniti. Vi ricordate Huntington
e la sua teoria sullo scontro delle civiltà? Viviamo
nel migliore dei mondi possibili – il mondo occidentale,
lo stesso decantato da Fukuyama – ma bisogna coalizzarsi
e proteggersi dalle minacce esterne che mirano a de-occidentalizzare
il mondo. Sono trascorsi una manciata di lustri e la storia
ha provveduto a sollevare il velo di maya che avvolgeva questi
discorsi, per rivelare ciò che in effetti erano: mere
ideologie, rivestimento della concreta realtà materiale
con idee e principi astratti, mascherando e fornendo così
surrettizie giustificazioni.
Nonostante ne abbiano provate di ogni per convincerci, sappiamo
bene, sulla nostra pelle, che non viviamo nel migliore dei mondi
possibili e, in questi ultimi anni, la rinnovata lotta dei ricchi
contro i poveri ha reso evidente, anche ai più ingenui,
in quale mondo abitiamo. Altro che fine della storia! Altro
che “stringersi a coorte” contro la de-occidentalizzazione
del mondo! A ogni latitudine è tutto un fiorire di movimenti,
di mobilitazioni, di iniziative, di lotte, come mostrano le
pagine di Antonio Senta. Non c'è stata solo l'acampada
spagnola o Occupy Wall Street. Non ci sono state solo le primavere
arabe o Gezy Park a Istanbul. È un pullulare, uno sciamare
di uomini e donne, di giovani e meno giovani, per le strade,
nelle piazze, nelle città come nelle campagne, dal nord
a sud, da est a ovest. È un nascere, spegnersi e riaccendersi
di iniziative. Dai Sem Terra brasiliani agli operai cinesi delle
zone economiche speciali, dagli esodati in Italia agli zapatisti
del Chiapas, dai migranti che sbarcano sulle coste del primo
mondo agli studenti europei privati di futuro, dai lavoratori
precari della produzione immateriale ai nativi dell'Amazzonia
o del Kalahari espropriati dalle loro terre.
Dire tutto ciò è dire tutta la ricchezza, ma anche
la frammentazione che attraversa le proteste e le proposte di
questi tempi. Da qui dobbiamo partire. Seppure in forme e modalità
differenti, siamo tutti poveri o impoveriti da questa aggressione
scatenata dai ricchi. Ricchi e poveri: categorie sociologiche
obsolete, si dirà; forse, ma dicono meglio di tante analisi
sofisticate (per intenderci: in Italia il 46% della ricchezza
è in mano al 10% delle persone). Ha perciò ragione
Antonio a parlare dell'esistenza non di un piano unico, ma di
mille piani (mille plateaux!) dei movimenti odierni.
È vero, la realtà sociale è moltitudine,
è irriducibile pluralità. Ma questi mille piani
chiedono a voce alta, per essere efficaci e incisivi, processi
di comunicazione e di articolazione solidali che funzionino
da acceleratori e moltiplicatori. I tratti libertari e orizzontali
che manifestano buona parte dei movimenti in corso costituiscono
una promessa e una scommessa da leggere e raccogliere, proseguendo
il cammino in tale direzione.
Queste, in breve, mi paiono, al momento, le questioni cruciali
all'ordine del giorno. Mentre non mi sembra così centrale
la preoccupazione, avvertita da qualcuno sulle pagine di “A”,
circa l'esercizio di pratiche violente, accadute sporadicamente
durante alcuni scioperi o manifestazioni, in Italia o fuori.
Francamente non mi sembra che stiano emergendo derive lottarmatiste
o minacce del genere nei movimenti in corso. Certo l'uso della
forza e della violenza è un tema che le rivolte di ogni
tempo hanno dovuto affrontare (o meglio: come reagire a una
società costitutivamente violenta nelle sue procedure
di marginalizzazione e di esclusione), quindi neppure noi dovremo
eludere il problema, imparando anche dagli errori di un passato
prossimo. Ma, come si suol dire, ogni cosa a suo tempo: cerchiamo
di non essere più realisti del re, lasciamo certe litanie
ai politici di palazzo o agli editorialisti del “Corriere”
e di “Repubblica”, usciamo all'aperto e collochiamoci
insieme – uomini e donne, giovani e vecchi – nel
cuore della vita che, a gran voce, chiede un più di vita.
Federico Battistutta
Bella ciao/ A proposito di un progetto
A
proposito dell'articolo
di Alessio Lega su Bella Ciao (“A” 388). Alessio
mi cita tra coloro le cui esperienze confluirono nello spettacolo;
la mia ricerca è cominciata invece poco dopo e devo dire
che fu esattamente il contrario, perché proprio Bella
Ciao fu una tra le motivazioni che mi spinsero a fare ricerca
e ad avvicinarmi alle allora Edizioni del Gallo e ai Dischi
del Sole.
Di Bella Ciao avevo letto sui giornali recensioni e anche la
storia delle contestazioni di Spoleto per cui quando lo spettacolo
arrivò a Milano, andai da solo al teatro Odeon per vederlo.
Ne rimasi affascinato e coinvolto tanto che alcuni giorni dopo
riuscii a convincere la sezione del PCI di Bergamo a organizzare
un pullman per i compagni che volevano vedere Bella Ciao a Milano.
Così lo rividi per una seconda volta.
Questo per quanto riguarda la mia storia personale. Ma le considerazioni
che si possono fare su Bella Ciao sono tante, dalla bravura
degli interpreti alla spettacolarizzazione delle canzoni popolari
su una semplice scena disadorna in cui le canzoni stesse venivano
valorizzate da una regia essenziale nella sua linearità.
Bella Ciao è anche un miracolo di realizzazione su dei
materiali piuttosto esigui perché fino ad allora le ricerche
sul campo in Italia erano state abbastanza scarse: i dischi
con Teresa Viarengo che Franco Coggiola scoprì nel 1964
e quello delle Sorelle Bettinelli arrivarono alcuni anni dopo,
e allora solo Roberto Leydi aveva un grosso fondo di materiale
di ricerca. Gianni Bosio e Cesare Bermani avevano da poco tempo
avviate delle campagne di ricerca e per il Sud dell'Italia non
c'era molto a disposizione, anche se Ernesto de Martino, Diego
Carpitella e altri avevano registrato sul campo e indagato sul
mondo popolare delle regioni più povere dell'Italia.
Alessio Lega rileva giustamente che il disco e il CD uscito
successivamente, sono frutto di una registrazione in studio.
Purtroppo anche il CD è identico al LP degli anni '60
e ne ha la stessa durata, ma l'Istituto Ernesto de Martino non
possiede la registrazione dello spettacolo, dal vivo, che però
esiste. È una vecchia storia per cui mi batto da anni:
che venga pubblicato un CD con una versione più completa
dello spettacolo, visto che oggi un supporto di questo tipo
può contenere anche più di un'ora di registrazione
Ho perorato la stessa causa in favore del disco tratto dallo
spettacolo “Ci ragiono e canto” al quale ho davvero
dato un modesto contributo con le mie ricerche. Roberto Leydi,
purtroppo scomparso nel 2003, aveva i nastri con la sua registrazione
dell'intero Bella Ciao e mi aveva detto che non avrebbe avuto
problemi a prestarli per una loro eventuale pubblicazione su
CD. Aveva detto la stessa cosa a Ivan Della Mea, ma anche lui
ci ha lasciato quattro anni fa, per cui rimangono solo il mio
ricordo e la mia parola per testimoniare questa sua promessa.
Ora i nastri di Bella Ciao sono a Bellinzona nel Fondo Roberto
Leydi del Centro di Dialettologia e di Etnografia, e non ho
idea se ci sia una disponibilità a concederli per un'operazione
di questo tipo. Per “Ci ragiono e canto” invece
manca solo la volontà, o meglio la disponibilità
anche finanziaria, per fare questo lavoro di ricupero. Alessio
Lega conclude il suo articolo augurandosi un riallestimento
di Bella Ciao in una nuova versione. Io ricordo che uno dei
momenti in cui si arrivò quasi alla realizzazione di
quest'idea fu il centenario della CGIL; ci furono riunioni e
convocazioni di cantanti vecchi e nuovi, ma il progetto non
andò in porto. Non so se sia ancora possibile che questo
accada in futuro, come Alessio auspica. Credo che invece almeno
l'idea della riproposizione discografica dell'intero spettacolo
sia più realizzabile. Mi rendo conto che in un periodo
di crisi come questo fare un CD nuovo comporti dei rischi non
indifferenti, ma sono sicuro che anche chi sia già in
possesso del vecchio LP o del CD di questo spettacolo, sarebbe
ben lieto di acquistarne un'edizione nuova e completa.
Riccardo Schwamenthal
Bergamo
“A”
alla fine del mondo
|
Grazie al nostro lettore Davide Costantino che ci ha inviato
questo scatto dalla Patagonia argentina |
|
Carrara/Quella “patrimoniale” imposta dai partigiani
Caro Paolo,
in relazione al numero di aprile (“A” 388) relativo
alla nostra
presenza nella lotta di liberazione dal fascismo, ad essere
precisi la Resistenza al fascismo iniziò quando Mussolini
si installò al potere! Per quanto riguarda Carrara,
la Formazione Lucetti fu a lui dedicata fino allo sganciamento
dalla linea gotica avvenuto nel novembre 1943, causa la comunicazione
degli alleati che avevano deciso di rimandare l'offensiva alla
primavera successiva.
Al rientro nel gennaio 1944, prese il nome della Schirrù.
Il fatto rilevante da voi della rivista evidenziato, fu il prelievo
forzoso ai cittadini benestanti, prelievo da Ugo iniziato e
poi autorizzato dal CLN locale, del quale due anarchici facevano
parte. Venne raccolta una somma di otto milioni di lire (grande
somma per quel tempo), che fu utilizzata per provvedere ai bisogni
dell'ospedale, del ricovero per anziani e per le necessità
materiali di tutte le brigate in campo.
Si trattò di una vera e propria “patrimoniale”,
di cui oggi si parla tanto, ma restò l'unica, credo,
nella storia di questa repubblica fondata sul mercato, sul profitto
e sullo sfruttamento.
A onor del vero, il governo del CLN nazionale, presieduto da
Parri, restituì le somme versate dai sottoscrittori,
ma nessuno a Carrara accettò il rimborso.
Quelle somme furono quindi ripartite tra le organizzazioni partigiane,
e con la sua parte, Ugo fondò la Cooperativa di consumo
del Partigiano. Custodisco ancora l'elenco dei soci che aderirono
alla iniziativa. Anche questo ad onor del vero di questa gente.
Ti mando queste memorie trasmessemi da mio padre, perché
i giovani sappiano e gli anziani ricordino.
Un abbraccio dal sempre vostro
Alfredo Mazzucchelli
Carrara
Per un riavvicinamento tra anarchici e radicali
Nel mio contributo
al dibattito sul noto libro di Nico Berti (Libertà
senza rivoluzione) ho auspicato un riavvicinamento e l'instaurazione
di un rapporto politico tra movimento anarchico e area radicale,
per quanto l'uno e l'altro siano in profonda crisi, di identità
e di consenso, anzi proprio per questo, dato che la comunicazione
tra anarchici e radicali potrebbe portare, spero, a un rilancio
di entrambe le aree.
So bene che sono passati più di quarant'anni da quando
radicali e anarchici procedevano a braccetto nelle marce antimilitariste,
e che gli anarchici non hanno perdonato a Pannella l'appoggio
dato a Berlusconi nel 1994 (in cambio di sette deputati) e il
voltafaccia (forse solo apparente) sulla questione degli interventi
militari nelle due guerre del Golfo, a tacere della politica
“ultraliberista” dei radicali anni '90.
La situazione è però mutata. Nell'attuale contesto,
abbiamo un'area radicale ridotta al lumicino nelle competizioni
elettorali (gli ultimi sondaggi la davano allo 0,6%), tanto
da suggerire a molti la non presentazione alle elezioni, ma
comunque impegnata in varie battaglie, che non possono lasciare
indifferenti gli anarchici, trattandosi di battaglie francamente
libertarie, condotte, oltre che dal leader, da associazioni
satellite, come “Nessuno Tocchi Caino” o “Luca
Coscioni”.
Si pensi dunque alle battaglie anticarcerarie e per l'amnistia,
all'abolizione della pena di morte in tutto il mondo e dell'ergastolo,
alla legalizzazione (io preferirei dire liberalizzazione) di
alcune o di tutte le droghe in nome dell'“antiproibizionsmo
su tutto” (altro slogan radicale, che, preso alla lettera,
significa stato di pura anarchia), alla libertà di ricerca
scientifica e contro la vergognosa legge 40, in gran parte smantellata
in forza delle azioni giudiziarie promosse in prima linea dall'associazione
“Coscioni”, si pensi ancora alle questioni del “fine
vita”, eutanasia, testamento biologico, etc.
Le battaglie sono quindi buone, anzi ottime, ma errata è
la teoria: i radicali infatti conducono da alcuni anni codeste
e altre battaglie in nome del rispetto del cosiddetto “Stato
di diritto”, ma a ben vedere nella pratica contraddicono
questo assunto retorico (si noti che Pannella, nel 1973, nella
bella prefazione al libro di Andrea Valcarenghi, oggi Majid,
“Underground a Pugno Chiuso”, parlava esplicitamente
di deperimento del potere).
Quando Pannella chiede l'amnistia, o Rita Bernardini regala
rami di canapa indiana, essi lo fanno invocando lo “Stato
di diritto”. Ora a parte che anche il fascismo, per imporre
la propria dittatura, seguì almeno all'inizio percorsi
giuridici formalmente ineccepibili (i noti decreti del '25 e
del '26), e che persino la guerra è soggetta a un “diritto
bellico” (Balladore-Pallieri), ciò che più
conta, per quanto qui interessa, è che nessuna norma,
nemmeno a livello di dichiarazione dei diritti dell'ONU (che
Pannella giustamente considera “diritto positivo storicamente
acquisito”, e non positivizzazione di un presunto diritto
“naturale”, come riteneva Bobbio), prevede l'inderogabilità
dell'amnistia o l'erba libera. E lo stesso vale per le battaglie
storiche, divorzio, aborto e obiezione di coscienza, che non
avevano alcun appiglio giuridico superiore, ma erano manifestazione
del volontarismo di chi si batteva. Gli atti di disobbedienza
civile vengono effettuati in realtà solo apparentemente
in nome dello Stato di diritto, dato che nessuna norma di rango
superiore o supremo (se non molto indirettamente eventuali norme,
interne ed internazionali, che tutelano, in modo indeterminato,
il “diritto dell'uomo”) impone queste battaglie,
se non innovando radicalmente il diritto, ma in nome di che?
Io direi della libertà dell'individuo, che è
concetto filosofico e/o morale.
E qui entra in campo il movimento anarchico con tutto il suo
carico teorico libertario che è incredibilmente vasto:
è inutile fare nomi perché li conoscete meglio
di me: i classici Godwin, Stirner, Proudhon, Bakunin, Kropotkin,
Malatesta, Tolstoj, gli americani Thoreau, Tucker, Warren, Spooner
e molti altri, tra cui Camillo Berneri che non disdegnava rapporti
con l'area “radicale” di allora, il liberalismo
rivoluzionario di Gobetti e il socialismo liberale di Rosselli.
Ai quali aggiungerei Paul Goodman, apprezzato anche da un anarco-capitalista,
diciamo così, per certi versi di “sinistra”,
come David Friedman.
E allora io immagino uno scambio tra anarchici e radicali, i
primi ci mettono ed elaborano la dottrina della libertà,
i secondi individuano le battaglie di second best da
proporre agli anarchici (i quali a loro volta possono individuarne
altre), almeno a quelli che accettano l'indicazione di Nico
Berti di non trascurare la dimensione politica liberal-democratica,
pur consapevoli, come diceva Isaiah Berlin, che il liberalismo
non è altro che un anarchismo annacquato. E con la precisazione
che, secondo me, teoricamente e storicamente, il radicalismo
è la linea immaginaria che conduce dal liberalismo all'anarchismo
all'infinito.
Fabio Massimo Nicosia
Milano
Luigi Galleani anarchico
Ho letto con interesse e attenzione l'articolo
di Nicosia, sulla figura e il pensiero di Luigi Galleani
sotto il titolo “Comunista libertario”.
Cercherò di replicare esprimendo il mio modesto pensiero
e punto di vista in proposito, nel modo più chiaro possibile,
senza presunzioni di verità, invogliando così
un prossima possibile apertura di dibattito e di scambio d'opinione
fra compagni e non, su questa nostra importante figura dell'anarchismo
purtroppo accantonata per troppi anni, oltre ad altre figure
altresì poco dibattute come per il Ciancabilla, il Damiani
ecc. anche se negli ultimi periodi si nota una riscoperta,speriamo
continuativa, a tal tema.
Veniamo all'articolo, Nicosia fa ruotare la quasi totalita'
del suo scritto, sulla questione economica di organizzazione
sociale a venire prospettata dal Galleani, ponendosi dei dubbi,
obiezioni, e interrogativi, nonostante un po' di complicità
di fondo.
Nicosia ci descrive un Galleani rivoluzionario, ma allo stesso
tempo riformista, dibattuto tra il comunista e il liberale,
tra rivolta e gradualismo.
Ora più o meno per ordine vedrò di esporre ciò
che penso e che so.
Galleani come molti sapranno, e fra questi anche Nicosia, vedeva
ed auspicava dopo la rivoluzione del cambiamento radicale, la
miglior via, nel comunismo libertario o anarco-comunismo, come
riorganizzazione di vita sociale,ovvero la proprietà
comune dei mezzi di produzione e di scambio, dove ogniuno contribuirà
secondo le proprie forze e prenderà secondo i suoi bisogni.
Pensiero questo comune a Malatesta, Kropotkin, Cafiero Reclus
e cosi via...
Dal collettivismo precedente i più passarono poi su posizioni
comunistiche, perché si ritenne a buon ragione aggiungo,
che un tale sistema sociale rispondesse meglio ai bisogni dei
più deboli, comunisti antiautoritari beninteso, il solo
comunismo accettabile perché libero, gran parte degli
anarchici non solo in Italia, furono i primi a definirsi tali,
Malatesta dopo la rivoluzione russa con i comunisti marxisti
al potere, ironicamente disse, “per chiamarci noi ancora
comunisti, bisogna avere del bel coraggio”.
Continuando nicosia pone dei dubbi verso il comunismo del galleani
dipingendolo come liberale e individualista.
Ora, la funzionalità di una comunità libera dovrà
pur essere sperimentata provata, dagli individui stessi che
la compongono, e se ne daranno la forma più fattibile
e desiderabile, tramite il libero comune accordo, in una nuova
società dove l'imposizione autoritaria il monopolio e
lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo non sia che un triste lontano
ricordo.
Anche lo stesso Merlino così affermava: “Sulle
rovine del monopolio fonderemo un sistema di economia razionale
di comunanza dei beni nelle libere associazioni dei lavoratori”.
Poi che la società sia autogestita, in modo comunistico,
collettivistico, mutualistico, federalistico, in parte anche
individualistico o un mix di questi chi lo puo affermare con
certezza?
Per le figure sopra citate il sistema più auspicato era
il comunismo, per Proudhon era il mutualismo, per Bakunin il
collettivismo per il Tucker l'individualismo e il libero scambio,
Berneri era federalista e mi fermo.
Ma tutti loro, anteponevano prima di questo l'azione diretta,
la propaganda l'azione tutta rivolta verso il compito più
arduo e necessario nel cambiamento rivoluzionario generale.
Senza dimenticarne il dopo, su tal tema vediamo l'importante
studio di Kropotkin, uno fra i tanti, che Nicosia giustamente
afferma l'influenza sul Galleani, ma non solo.
Più avanti il Nicosia si chiede se vi sia un legame logico
tra la sua concezione rivoluzionaria e le sue idee sociali,concludendo
il tutto negativamente, (a nostro avviso?) così è
riportato.
Così oltre all'attesa galleanista del mezzo secolo, perché
il comunismo libertario (la presa nel mucchio) fosse di attualità,
nonostante tutto, però notiamo la preveggenza sua, addirittura
anticipando i tempi,per quel che poi si verificò, nelle
comuni machnoviste in Ukraina, 1918-19 e nella Rivoluzione Spagnola
del 36, dove l'anarco-comunismo divenne realtà, seppur
per breve tempo, per le cause che ben sappiamo.
Galleani non era affatto un attendista, anzi l'opposto contrario,
la sua vita lo dimostra...
Le condizioni lavorative di allora erano talmente dure e pesanti,
ed era anche comprensibile un certo benevolo squardo verso il
supporto scientifico e tecnologico, che nel tempo avrebbe potuto
alleviare le fatiche di molti, e in parte questo si è
verificato, anche se in modo spesso discutibile.
Perché penso che solo quando la scienza sarà veramente
libera ed autonoma dai poteri forti, solo allora si otterranno
i maggiori benefici per il benessere comune, non solo per quanto
riguarda la produttività.
Personalmente, sarei più propenso a scommettere per un
massiccio ritorno alla terra, più che per l'industria
visto le prospettive attuali, per far sì che la presa
nel mucchio sia più efficace anche coll'apporto scientifico
perché no.
Tutte queste aggettivazioni su galleani mi paiono forzate e
con deboli fondamenta, ma per non essere cattivo, salvo seppur
in modo poco sufficente, la gradualità: mi spiego; nel
corso di libera sperimentazione sociale per il Malatesta c'era
la possibilità di gradualità dei tempi e modi
che gli individui si daranno per raggiungere determinati obiettivi
liberamente voluti, e qui penso che anche il Galleani non fosse
contrario, in un costante movimento verso condizioni di vita
sempre più migliori.
Comunque, sempre orientati verso modelli di associazione rispettosi
della libertà dell'individuo, che troverà nella
libertà altrui la massima elevazione in comunità
dove nessuno impone e nessuno obbedisce, questa libertà
di tutti è l'individualismo anarchico, anche del Galleani,
in totale disaccordo però coll'individualismo nel campo
economico.
È indubbio, che ci sarà anche bisogno per la migliore
riuscita dell'apporto di convizioni personali e di una certa
cultura, che l'esperienza di vita dovrebbe apportare anche con
i nuovi sistemi di insegnamento (scuole Libertarie-Razionaliste).
Galleani sosteneva chiaramente, “che l'anarchismo non
vuol essere l'estrema tule della perfezione ma una tappa soltanto,
più progredita e più umana su per l'erta dell'eterno
divenire, l'anarchismo così vigoroso fervido e operante
isopprimibile sarà”. Da qui l'auspicio che si ritorni
o si inizi lo studio e la lettura dei suoi scritti, perché
solo in essi si può capirne l'uomo e il suo pensiero,
contenente ancor oggi freschezza e magari lo stimolo per qualche
buon editore.
Nonostante il materiale sia non di facile reperibilità
(purtroppo), non è però impossibile... Per cui
buona ricerca...
Galleani è stato un lottatore coerente e infaticabile
durante tutta la sua vita completamente dedicata all'ideale
dell'emancipazine sociale, poco propenso a delineare società
a venire ma lottando nel presente, gli venne dato dell'antiorganizzatore,
che tuttora persiste, lui che era tutto propenso verso l'associazione
libera degli individui e la loro organizzazione, ma decisamente
contrario a quella di stampo politico,semi-partitico,con statuti
e regole programmatiche, dove spesso la libera iniziativa rischia
di spegnersi, e di conseguenza la volontà inividuale
(altro tema importante).
Portò sempre la sua vicinanza e la propria voce, agli
sfruttati, nelle agitazioni operaie prima in Italia, poi negli
Stati Uniti d'America, polemista formidabile sia nei contraddittori
a voce che su carta, ci ha lasciato migliaia di scritti, sulla
questione operaia e il sindacalismo, la polemica antiparlamentare
coi socialisti legalitari (medagliettati), sull'antimilitarismo,
sull'anticapitalismo, dopo l'espulsione americana ritornato
in Italia, rifinì al confino per la sua opposizione al
fascismo.
Non nascose la sua vicinanza solidale a diversi compagni che
praticavano, l'azione diretta, e la propaganda col fatto, egli
vedeva questo fenomeno come un evento naturale che paragonava
al fulmine od a meteore,ed anche qui ci ha lasciato innumerevoli
racconti su compagni e resoconti processuali, come le memorie
di Clement Duval e Faccia a faccia col nemico.
Termino con una citazione di Ugo Fedeli: “la vita di Galleani
rimane uno specchio nel quale molti giovani e non più
dovrebbero specchiarsi, le sue idee un pungolo per meglio approfondire
lo studio dei problemi sociali per ricercare le forme e i mezzi
migliori e più atti a formare gli uomini che dovrebbero
vivere nella vita da lui pensata e propagandata, libera e feconda
di lavoro”.
Vittorio Lorengo
Brescia
P.S. Riporto qui gli ultimi, libri in ordine di tempo, ancora
accessibili d'acquisto.
Faccia a faccia col nemico, Galzerano Editore
Memorie autobiografiche di Clement Duval, Ediz. Kaos
Luigi Galleani, Alcuni articoli da cronaca sovversiva,
Archivio Fam. Berneri-Chessa
Ugo Fedeli - Luigi Galleani Quarant'anni di lotte rivoluzionarie,
Edizioni Centolibri
In ordine sparso, Edizioni Gratis.
NoMuos/Un viaggio indimenticabile
A maggio di due anni fa sono entrata a far parte del comitato
di base NoMuos di Ragusa, ed è iniziato quello che io
voglio paragonare a un viaggio.
Non di quelli delle agenzie con un programma pianificato e privo
di stress o brutte sorprese ma più simile a quello di
un gruppo di naufraghi che si trovano di fronte a una situazione
nuova dove imparano a conoscersi, a fidarsi e a poter contare
l'uno sull'altro.
Un viaggio dove al posto delle insidie della natura si ritrovano
ad affrontare lo sfacelo delle istituzioni, la finta democrazia,
la falsità dei politici, la freddezza e la brutalità
delle forze dell'ordine e l'atteggiamento di passività
o di derisione della gente che si trovano davanti. In questo
percorso provano momenti di entusiasmo, euforia, allegria alternati
a momenti di amarezza, senso di sconfitta, paura e delusione.
Nonostante ciò il gruppo continua ad andare avanti sul
sentiero che reputa sia quello giusto, con orgoglio e determinazione
va verso la meta convinto che ciò potrà cambiare
il presente, migliorare il futuro e riscattare le brutture del
passato.
Questa è la sintesi di ciò che per me è
l'esperienza da attivista NoMuos, difficile ma appassionante,
di arricchimento storico-culturale, politico, sociale ma anche
di crescita interiore.
Comunque andrà a finire e ovunque ci ritroveremo nell'ultima
tappa resterà la convinzione che si sia trattato di un
viaggio fondamentale e indimenticabile.
Clara Cutraro
Ragusa
Ragusa/Disegni e parole
Venerdì
11 aprile scorso, a Ragusa, presso la Bottega dei Popoli,
si è ricordato il secondo compleanno del Comitato
di base NoMuos del capoluogo siciliano. Tra le numerose
testimonianze che hanno arricchito l'incontro, pubblichiamo
qui accanto quella di Clara Cutraro. E la accompagnamo,
in queste due pagine con alcuni disegni presi dal quaderno
di appunti di un'altra giovane partecipante al movimento,
Francesca Dimanuele.
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Bella Ciao, gli anarchici e la Resistenza
Buongiorno, riporto con copia-incolla parte di un articolo
del “Fatto Quotidiano”:
Prima il divieto di cantare Bella Ciao durante la cerimonia
commemorativa per il 25 aprile “per motivi di ordine pubblico”,
poi la retromarcia. E' stata la giornata difficile del prefetto
di Pordenone Pierfrancesco Galante che dopo ore di polemiche
ha diffuso un'ultima nota che precisa che “a chiarimento
delle argomentazioni emerse in sede di comitato provinciale
per l'ordine e la sicurezza pubblica si precisa che non vi sono
motivi ostativi all'esecuzione della canzone Bella ciao”.
In realtà inizialmente proprio il Cosp aveva preso la
decisione per motivi di ordine pubblico legati alla possibile
presenza in piazza di gruppi anarchici che, dal 2006 in poi,
avevano dato vita ad azioni di disturbo delle manifestazioni
ufficiali, prendendo di mira in particolare esponenti dell'amministrazione
provinciale. La famosa canzone della Resistenza sarà,
quindi, eseguita dalla Banda unicamente durante il corteo cittadino.
Vengo al dunque; a parte la cazzata di proibire una canzone
(per ordine pubblico) durante una manifestazione, la cosa che
mi ha maggiormente colpito è stata la giustificazione,
cioè il fatto che a dare vita ad azioni di disturbo siano
dei gruppi anarchici.
A parte la canzone, non ho mai saputo che gli anarchici fossero
contrari alla resistenza. Potete darmi delucidazioni in merito?
Angelo Manzoni
Gli anarchici non sono e non possono essere contro la Resistenza,
visto che vi hanno partecipato fin dall'inizio. Come abbiamo
contribuito a ricordare sul penultimo numero di “A”
(388 - aprile 2014) pubblicando un lungo dossier
proprio su “gli anarchici contro il fascismo”.
Dormono
Dormono
tra una veglia e l'altra.
Dormono poco
perché vegliare è necessario al vivere
ed incerto è il passo
di quelli che s'aspettano la resa.
Dormono
ma il corpo percepisce
la vibrazione sorda
della paura e della tracotanza.
Dormono
sognando braccia tenere
e non spari e comandi
ed un sorriso modifica la bocca
quasi fossero ancora
bambini da svezzare.
Dormono
sulla terra prima che sia sottratta
e li unisce il respiro della vita
fin che vita sarà...
Non li ho invitati – non li conoscevo –
ma sono qua seduti alla mia tavola.
A volte scoppia un riso
che pare una granata
ed è senso fraterno in vita e in morte.
Vengono dal novecento,
dalle scalze utopie,
dalle scelte pagate fino in fondo.
Bevono grappa e fumano
tabacco amaro e scuro – ombre soltanto
a ricordare ai vivi
il senso dell'umana appartenenza.
Gianni Milano
Torino |
I
nostri fondi neri
|
Sottoscrizioni. Massimiliano Paccagnella
(Torino) 100,00; Libreria San Benedetto (Genova Sestri
Ponente) 13,40; Albino Trucano (Borgiallo –
To) 10,00; Davide Schifano (Caltanissetta) 50,00;
Domenico Bevacqua (Leinì – To) 50,00;
Davide Foschi (Gambettola – Fc) 10,00; Gelateria
Popolare (Torino) 20,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando
Umberto Marzocchi e Alfonso Failla, 500,00; Giancarlo
Nocini (San Giovanni Valdarno – Ar) 10,00; Roberto
Palladini (Nettuno – Rm) 20,00; Paolo Guaitani
(San Giuliano Milanese – Mi) 10,00; Edo Bodio
(Condino – Tn) 10,00.; Daniele Romagnoli (Sant'Olcese
– Ge) 4,00; Natale Musarra (Piano Tavola –
Ct) 40,00; Amalia Cinzia Cislaghi (Robecco sul Naviglio
– Mi) 40,00; Andrea Zen, 20,00; Daniele Romagnoli
(Genova) 6,00; Davide Turcato (Vancouver – Canada)
100,00; Diego Giachetti (Torino) 40,00; Società
dei Libertari (Ragusa) 220,00; Francesco Pavia (Torino)
10,00; Diego Razzitti (Angolo Terme – Bs) 15,00;
Unicobas (Roma) 50,00; Gianfranco Manfredi (Gordona
– So) 100,00; Gianni Ricchini (Verbania) 10,00;
Leonardo Muggeo (Canosa di Puglia – Bt) 10,00;
Laura Villa (sc Helmond – Olanda) 20,00; Salvatore
Circolo (Marino – Ro) 10,00. Totale €
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specificato, trattasi di euro 100,00). Margherita
e Giulio Canziani (Castano Primo – Va); Alberto
Carassale (La Spezia); Beppe Chierici (Todi –
Pg); Enzo Boeri (Vignate – Mi) 200,00 Donata
Martegani (Milano); Enrico Maltini (Milano); Franco
Vite (Monticello Amiata – Gr); Enrico Camenzind
(Pontassieve – Fi); Daniele Andreoli (Pisa);
Fabio Zanavella (Verona); Sergio Santoni (Monte San
Vito – An); Maurizio Frongia (Busachi –
Or); Enrico Calandri (Roma); Lorenzo Brivio (Besana
Brianza – Mb); Gruppo CAOS - Centro A Ordine
Sparso (Genova). Totale € 1.600,00.
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