Vietnam
Zij Poj Niam
reportage di Moreno Paulon
Le ripercussioni che le politiche demografiche del Gigante Cina hanno avuto su una minoranza vietnamita.
I H'mông fra farfalle cinesi e traffico di esseri umani.
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Villaggio H'mông |
Nel 1963 Il matematico Edward
Lorenz scrisse che il battito d'ali di una farfalla in Brasile
era in grado di scatenare un uragano in Texas. L'immagine era
certo iperbolica, ma inquadrata nella più ampia teoria
del caos la figura illustrava l'estrema sensibilità di
un sistema dinamico non lineare al variare delle sue condizioni
iniziali. Nel corso del tempo la pur minima alterazione di un
sistema può generare ripercussioni crescenti e imprevedibili
sul suo comportamento complessivo, e un margine di variabili
trascurate, crescendo, è in grado di provocare sviluppi
esponenziali e stravolgenti. La conseguenza immediata dell'effetto
farfalla è che il comportamento di un sistema complesso
è difficilmente prevedibile o pianificabile in una finestra
di tempo utile. Se l'assioma di Lorenz vale per i calcoli della
meteorologia e delle azioni di Wall Street, di certo trova un'applicazione
fertile anche nella lettura dei sistemi sociali, come è
evidente nelle ripercussioni che le politiche demografiche del
Gigante Cina hanno avuto nel giro di vent'anni sul più
piccolo villaggio rurale di una minoranza vietnamita.
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Mappatura etnica del Vietnam del Nord - Museo etnologico
di Hanoi |
I H'mông del Vietnam
Che i H'mông siano cittadini di serie B in Vietnam è
chiaro come l'acqua. Per la verità molti di loro non
sono nemmeno considerati cittadini a pieno titolo da parte dello
Stato centrale. Visti un po' come vecchi intrusi e un po' come
nuovi traditori, moltissimi non sono mai stati dotati di una
carta di identità e a volte, specie fra gli anziani,
nemmeno di un certificato di nascita che ne dichiari l'esistenza.
Scarsamente scolarizzati e privi dei capitali che permettono
di intraprendere attività commerciali, i H'mông
restano inesorabilmente legati al lavoro della terra, vivendo
in piccoli villaggi di capanne fra le risaie del Nord.
Quelli che sono in possesso di un documento statale sono coloro
che ne hanno fatto espressamente richiesta al governo per frequentare
gli studi elementari e superiori erogati dalla nazione vietnamita,
per viaggiare liberamente sul suolo nazionale, o anche solo
per ottenere la patente di guida di un motorino. Negli anni
recenti ripetute violazioni dei diritti sulla terra, arresti
sommari, discriminazioni etniche e persecuzioni politico-religiose
da parte del governo vietnamita a danno dei H'mông sono
state denunciate a più riprese tanto dalla BBC (04/05/11;
12/05/11; 12/12/11; 14/03/12; 13/12/12) quanto dal New York
Times (05/05/11). Sul piano popolare, nel micidiale senso comune
quotidiano, la discriminazione subita dai H'mông fa buona
eco alla lezione statale. Capita che i vietnamiti incrociandoli
sulla strada riservino loro espressioni dispregiative che li
assimilano agli animali, e capita che domandando loro spiegazioni
di un simile disprezzo arrivino in fretta ad accusarli di avere
militato con gli Stati Uniti durante la guerra, come se ogni
H'mông vivente (dentro e fuori dal Laos poco importa)
fosse destinato a portare una croce per la militanza delle truppe
di Vang Pao fra gli anni '60 e il '75. Nelle località
turistiche come Sapa i rapporti fra vietnamiti e H'mông
sono più distesi, soprattutto per ragioni di interesse:
infatti molti turisti in cerca di “autenticità”
esotiche e tradizioni “incontaminate” si recano
fra le montagne del Nord proprio per vedere e fotografare i
H'mông e le altre minoranze locali, portando introiti
ragguardevoli nelle tasche dei vietnamiti locali, i quali gestiscono
in maniera esclusiva le strutture turistiche di accoglienza,
le attività commerciali e le agenzie di trasporti. Così
anche qui la posizione riservata al popolo H'mông è
senz'altro quella ai gradini inferiori, e i più fortunati
possono giusto aspirare alla professione di guida turistica
nei villaggi delle loro famiglie. Ma se la condizione subalterna
dei H'mông è sotto la luce del sole nel recinto
nazionale, le implicazioni su larga scala della loro vulnerabilità
strutturale hanno implicazioni internazionali sbalorditive.
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Ragazza
H'mông |
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Donna Zao |
Zij poj niam
Secondo il censimento del 2009, i confini del Vietnam racchiudono
86 milioni di abitanti, 5 famiglie linguistiche e 54 gruppi
umani. Quelli che chiamiamo “vietnamiti” apparterrebbero
alla famiglia Kinh, che comprende l'86% della popolazione nazionale
e costituisce il ceppo di discendenza maggioritario. Nel corso
della storia, i Kinh si sono insediati soprattutto nelle aree
pianeggianti, lungo la costa oceanica e sui delta dei grandi
corsi d'acqua, come il Mekong. Fra le altre 53 minoranze, la
famiglia che comprende i H'mông, gli Zao e i Pà
Thèn è la più estesa e conta circa 1.8
milioni di individui, distribuiti principalmente fra le montagne
del Nord, lungo il confine cinese. I H'mông, con una popolazione
di circa 800 mila anime in Vietnam, sono fin dalle origini coltivatori
di riso, allevatori di bestiame, lavoratori di metalli, intarsiatori
di legno e raffinati tessitori dediti al ricamo. Hanno famiglie
patrilineari con residenza virilocale e sono arrivati dalla
Cina nei territori dell'odierno Vietnam tra il XIX ed il XX
secolo. Seguono una religione tradizionale comunemente detta
“sciamanismo”, il cristianesimo e il buddhismo,
e si distinguono reciprocamente in Black H'mông, Flowered
H'mông, Blue H'mông, White H'mông e altri
gruppi ricorrendo a criteri di distinzione linguistica, varietà
nell'abbigliamento e differenti abitudini sociali. Fra i più
caratteristici tratti culturali H'mông che sopravvivono
nel Vietnam del Nord c'è la tradizione dello zij poj
niam: il matrimonio per cattura.
Come per tutte le tradizioni culturali, lo zij poj niam
conosce canoni originari e declinazioni locali. Da un gruppo
all'altro e da una nazione all'altra cambiano i suoi nomi, le
sue pratiche e la sua distribuzione nei territori. Nell'area
vietnamita di Sapa, in provincia di Lao Cai, il matrimonio per
cattura viene chiamato hai nyaab oppure hai pu,
espressioni che nel dialetto H'mông locale significano
letteralmente “rapire la nuora” o “rapire
la moglie”. Denigrato aspramente dai H'mông convertiti
cristiani, i quali preferiscono il comune accordo fra i fidanzati
e le rispettive famiglie, il rapimento è praticato principalmente
dagli sciamanisti più tradizionalisti. Accade spesso
di domenica e durante i festeggiamenti per Tét, il nuovo
anno vietnamita, che si celebra fra la fine di gennaio e l'inizio
di febbraio. I H'mông in questa occasione sfilano per
le piazze cittadine sfoggiando vestiti blu nuovi e sgargianti,
imbevuti così di fresco nell'indaco da macchiare ancora
le mani, cuciti e ricamati appositamente dalle donne dei villaggi
nelle settimane a ridosso di Tét. Nei giorni di festa
ognuno mostra l'abito nuovo e passeggia in compagnia, i giovani
addocchiano le ragazze, alcuni cercano di instaurare un contatto,
giocano a volano e si presentano, altri semplicemente seguono
le giovanissime donne come dei segugi. Quando e se scatta il
rapimento, il pretendente e quattro o cinque uomini fra amici
e familiari sollevano di peso la malcapitata e la portano di
forza al villaggio del ragazzo, in motocicletta oppure a piedi,
con processioni di anche mezz'ora fino alla casa della famiglia
di lui. La giovane viene chiusa in casa e trattenuta per tre
oppure quattro giorni. Conosce la famiglia del suo rapitore,
viene trattata da ospite, testata nelle sue abilità domestiche,
ed è sempre accompagnata e sorvegliata da una sorella
o una cugina del suo pretendente, la quale cerca di convincerla
della bontà del ragazzo e della famiglia affinché
essa accetti la proposta di matrimonio. In quest'area, a differenza
di altre, il rapimento non implica alcuna violazione sessuale
della ragazza. Dopo il breve periodo di prigionia, la giovane
(che di solito ha fra i 15 e i 19 anni) è libera di decidere
se sposare o meno il suo rapitore. Nel primo caso le famiglie
contrattano il prezzo per la cessione della sposa e, trovato
l'accordo, celebrano l'unione dei coniugi con due pranzi (e
12 torte di riso) nei rispettivi villaggi di lei e di lui; in
caso di diniego invece la ragazza compie il gesto rituale di
riempire due bicchieri di ruou (“zsiu”, un
fortissimo distillato locale di riso) e di bere un bicchiere
sia con il rapitore sia con suo padre, spiegando loro che non
è interessata alla proposta di matrimonio e che desidera
essere riportata a casa. Accade tuttavia che, incrociandosi
le antiche tradizioni H'mông con un più vasto mondo
di politiche internazionali, la famiglia di una ragazza appena
scomparsa non veda ritornare la figlia entro i termini stabiliti
dal costume dello zij poj niam. I giorni passano, la
giovane non rientra al villaggio e nessuna dichiarazione di
rapimento giunge da alcuna famiglia vicina. Quando i parenti
realizzano che la sparizione della ragazza non si deve ad una
proposta di matrimonio è semplicemente troppo tardi per
intervenire. Il nemico, decisamente fuori portata, non è
una piccola famiglia H'mông che non vuole restituire la
nuora: è il traffico internazionale di esseri umani,
e la meta principale della tratta nel Vietnam del Nord è
niente meno che la Repubblica Popolare Cinese.
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Donna H'mông |
Una farfalla batte le ali in Cina
Nel 1979, poco dopo la morte di Mao, Deng Xiao Ping introdusse
una semplice e letale strategia per ridurre la crescita demografica
cinese: la famigerata politica del figlio unico. La proliferazione
delle coppie urbane fu ristretta alla sola prima nascita, e
alle minoranze “etniche” delle zone rurali fu concesso
un secondo figlio in caso il primo parto avesse dato luce ad
una figlia femmina. Soltanto coppie composte da coniugi entrambi
figli unici potevano avere due bambini. L'idea di chiudere il
rubinetto delle nascite effettivamente ha finora impedito a
400 milioni di cinesi di venire al mondo (BBC 22/11/13) riducendo
senza dubbio la crescita demografica, ma il suo razionalismo
radicale e a cuor leggero applicato a monte ha provocato enormi
effetti collaterali a valle. Malgrado certa stampa italiana
abbia sbrigativamente dato il suo “addio alla politica
del figlio unico” dal pulpito nazionale (Repubblica 29/12/13),
nello scorso novembre la politica demografica è stata
piuttosto allentata dal governo cinese, non abolita, consentendo
un secondo parto alle coppie in cui anche uno solo dei coniugi
sia figlio unico. Tuttavia un imprevisto squilibrio nella popolazione
cinese è già innescato e fuori controllo.
L'esito più evidente di questi decenni di sperimentazione
biopolitica è stato infatti uno sbilanciamento di genere
all'interno della nazione cinese. La popolazione maschile è
diventata di molto superiore a quella femminile, e i dati demografici
(da considerare certo riduttivi, salvo fidarsi delle stime propagandistiche
cinesi) dicono che entro la fine del decennio ci saranno 24
milioni di uomini privi della possibilità di trovare
una moglie (BBC 15/11/13). Tina Rosenberg (NYT, 19/08/09) riporta
che in conseguenza alla scellerata politica statale cinese ogni
anno sono nate 1.5 milioni di femmine in meno, e molte altre
sono morte entro il quinto anno di vita per mancanza di cure,
assistenza medica ed attenzioni. Emily Oster (Harvard University)
nel 2005 aveva cercato di sostenere la scivolosa tesi biologista
secondo cui la scarsa natalità femminile fosse da imputare
semplicemente a madri cinesi largamente affette da epatite B
per carenza di vaccinazioni mediche, portate quindi da fattori
meramente biochimici e patologici a generare più figli
maschi (l'influenza stimata era niente meno che il 50% delle
nascite). Tuttavia studi più approfonditi condotti con
Gang Chen, Xinsen Yu e Wenyao Lin (2008) hanno smentito che
l'affezione da epatite B avesse incidenze così rilevanti
sul sesso del nascituro, ed hanno dedotto che la carenza di
donne nella Repubblica Popolare Cinese non fosse affatto una
questione strettamente scientifica e biomedica.
La politica del figlio unico è stata infatti applicata
sulla popolazione come una mera manovra di logica razionale,
una pianificazione tecnico-scientifica, un calcolo matematico
esatto, tralasciando una variabile culturale fondamentale nelle
condizioni iniziali del sistema: la preferenza culturale cinese
per i primogeniti maschi all'interno di un ordine sociale fortemente
patriarcale. Il provvedimento del '79 ha dato il via ad enormi
campagne statali di sterilizzazione delle donne, a sanzioni
pecuniarie sui secondi figli, ad aborti forzati perpetrati dalle
autorità governative, ma anche a infanticidi spontanei
di figlie femmine da parte di una popolazione profondamente
maschilista. Gli studi antropologici di Monica Das Gupta in
Cina e in India mostrano che molte famiglie trascurano volentieri
le figlie femmine in favore dei maschi, e curiosamente questo
accade più spesso nelle aree più ricche anziché
in quelle più povere. Dove c'è povertà,
figli maschi e figlie femmine sono democraticamente deprivati
di beni e servizi, ma laddove esistono delle pur magre risorse
da investire in istruzione, vaccini e assistenza medica, le
famiglie cinesi accudiscono i maschi e lasciano le femmine al
loro destino. La stessa spietata logica economica si è
vista in azione anche nel parto: desiderando figli maschi che
potessero accumulare beni e occupare posizioni di rilievo nella
società, le famiglie hanno fatto largo ricorso ad esami
a ultrasuoni illegali, aborti clandestini e infanticidi per
essere certe di massimizzare le possibilità di ottenere
un nascituro maschio. «Una cultura patriarcale rende la
nascita di un figlio maschio una necessità sociale e
finanziaria», scrive Rosenberg parafrasando Das Gupta.
Come rimediare quindi alla carenza interna di donne, se non
importandole dall'estero?
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Bambino
H'mông |
E in Vietnam si scatena l'uragano
Da decenni ragazze fra i 16 e i 22 anni scompaiono continuamente
lungo i 1.300 km che separano il Vietnam settentrionale dalla
Repubblica Popolare Cinese, e in modo drammaticamente crescente
dagli anni '90. I dati ONU – SIREN sostengono che almeno
il 70% delle donne vietnamite che cadono in preda al traffico
internazionale di esseri umani finisce in flussi di mercato
diretti in Cina, e fra il 2001 e il 2005 le vittime salvate
e riportate in patria per opera delle agenzie anti-traffico
ammontano a più di 1.800. La domanda cinese richiede
tanto prostitute quanto mogli, e al di qua del confine la fascia
di popolazione più vulnerabile, ingenua, povera e ignorante
è quella delle minoranze, in particolare Zao e H'mông.
Stimare un numero delle sparizioni sarebbe un'impresa ardua:
nessuna ricerca approfondita è stata ancora avviata ed
è difficile stimare statisticamente la sparizione di
non-cittadini senza documenti sperduti per villaggi di montagna.
Tuttavia la certezza empirica è che visitando i villaggi
intorno a Sapa non c'è insediamento H'mông che
non abbia subito decine di sparizioni nell'arco degli ultimi
anni. Tutti sanno qualcosa di certe ragazze rapite e vendute
verso la Cina, tutti hanno un'amica o una parente sparita e
mai più sentita. Chou, una giovane H'mông di Sapa,
è stata rapita e venduta oltreconfine due anni fa per
5.000 $ ad un marito cinese. Un giovane H'mông l'ha avvicinata
amichevolmente durante il “mercato dell'amore”,
una delle occasioni sociali in cui i giovani H'mông si
incontrano e si conoscono, e le ha fatto la corte a lungo, dichiarandole
il suo amore e trascorrendo molto tempo con lei. Una notte,
quando il legame di fiducia era diventato sufficientemente forte,
l'ha portata oltreconfine in motocicletta, vendendola al primo
gradino del traffico di esseri umani. Chou, 16 anni, è
stata spostata per giorni da un luogo all'altro (ossia venduta
e ricomprata, con relativi aumenti di prezzo in quanto merce)
e infine trattenuta in una stanza insieme ad altre giovanissime
ragazze. Sistematicamente gli agenti del traffico hanno portato
uomini e ragazzi cinesi a visitare la stanza, uomini e ragazzi
in cerca di moglie, finché uno di essi ha deciso di comprarla
per il suo matrimonio. Chou ha quindi preso marito col benestare
della famiglia di lui, è stata fornita di documenti falsi
dai trafficanti ed è rimasta reclusa in casa per sette
mesi, senza sapere nemmeno dove si trovasse nell'enormità
sconfinata della Repubblica Popolare. Su due piedi la sua famiglia
ha creduto che la figlia fosse stata rapita dal giovane H'mông
per una richiesta di matrimonio, racconta la madre, ma nei tre
giorni di attesa previsti dallo zij poj niam Chou ha
fatto in tempo a percorrere mezza Cina, passando da un trafficante
all'altro per migliaia di chilometri. L'ultimo gradino del traffico
da parte cinese è organizzato come una banalissima operazione
di acquisto, con agenzie che si occupano di procurare mogli
ad aspiranti mariti cinesi, o prostitute esotiche per un bordello
che ha posti vacanti. Il crimine diventa procedura burocratica,
transazione di capitale, azione quotidiana. Il villaggio di
Chou non ha avuto sue notizie per un anno, finché la
ragazza, guadagnata un po' di fiducia da parte del marito, non
è entrata in possesso di un telefono cellulare col quale
ha contattato segretamente un'amica europea ad Hanoi, che a
sua volta ha avvisato la OMG Blue Dragon Children Foundation,
la quale ha preso in carico il suo salvataggio cooperando con
le autorità vietnamite e cinesi.
«Il trafficante non è affatto un cattivo da film
che va in giro con il passamontagna» spiega Michael Brosowski,
fondatore della Blue Dragon di Hanoi, «è quasi
sempre una persona che la vittima conosce più o meno
bene, una persona di cui si fida e che al momento opportuno
la tradisce, vendendola per sfruttamento lavorativo, sessuale
o come moglie. Ogni anno salviamo circa 70-80 bambini sugli
11 anni dallo sfruttamento del lavoro minorile e circa 15-20
ragazze dal mercato sessuale. Li portiamo fuori dalla fase critica
e li seguiamo nel reinserimento nella società, nel proseguimento
degli studi, nell'ottenimento di un lavoro dignitoso, diamo
loro un posto dove stare e li rappresentiamo di fronte al tribunale
contro i trafficanti. Una delle sfide maggiori è definire
che cosa sia il traffico di esseri umani sul campo: ci sono
moltissimi casi di traffico in Vietnam che non sono riconosciuti
come tali, che passano come azioni comuni, normali, familiari,
addirittura come favori».
Ascoltando le parole di Michael non posso che ripensare alla
lezione di Hannah Arendt in La banalità del male,
alla necessità di oltrepassare il senso comune che conduce
a identificare il nemico con individui mostruosi e raccapriccianti;
penso all'assurda cinematografia commerciale americana che disegna
quotidianamente psicologie sinistre e contorte per improbabili
maestri del male, laddove le basi del crimine sono spesso di
natura sociale e le azioni più mostruose perpetrate da
uomini mediocri e solerti, da normalissimi burocrati qualunque
che fanno il loro innocuo e letale dovere con fede cieca verso
l'autorità di turno, uomini più o meno in buona
fede, più o meno ricattabili, più o meno indifferenti.
Penso proprio ad Eichmann, che imputato delle deportazioni naziste
a Gerusalemme affermava di essersi occupato in fondo semplicemente
di “trasporti”. L'umanità conosce infinite
forme di adattamento all'ambiente sociale e finisce per naturalizzare
condizioni culturali che appaiono a prima vista disumane e inammissibili,
e lo fa fino al punto che definire “disumane” azioni,
comportamenti e strutture così costantemente ricorrenti
nella storia della nostra specie sembra solo un modo per non
guardare nello specchio che cosa sia questa umanità.
Penso al male prodotto semplicemente dalla centralizzazione
del potere politico, alle responsabilità che riposano
nelle istituzioni statali che promuovono la disuguaglianza di
genere e di classe, il nazionalismo contro tutti, l'attribuzione
differenziata di diritti alle diverse parti sociali e a tutte
le sfumature dei più logici razionalismi biopolitici.
Penso agli studi di Paul Farmer nella poverissima Haiti in preda
all'HIV, e a ciò che a suo tempo chiamò “violenza
strutturale” per indicare proprio quei meccanismi di oppressione
che sembrano colpa di nessuno, alla violenza indiretta di un'organizzazione
sociale che, basata sulla disuguaglianza, diventa infaticidio,
traffico di esseri umani, miseria, abusi sessuali, malattia,
riproponendosi nei percorsi storici e politici che producono
inevitabilmente sofferenza e violenza all'interno di una società.
Penso alla biopolitica cinese senza un vero volto se non quello
illegittimo di un vago “Congresso Nazionale del Popolo”,
senza veri colpevoli se non migliaia di burocrati e marionette,
ma che provoca violenza quotidiana su nomi e cognomi H'mông
e Zao, nomi e cognomi scritti su un volto e invisibili all'anagrafe.
Le famiglie H'mông e le loro tradizioni si trovano inesorabilmente
nell'occhio del ciclone di condizioni strutturali che si impongono
loro sia dall'interno vietnamita sia dall'esterno cinese, mediante
timbri e provvedimenti legali, pianificazioni sociali, governi
centralizzati senza legittimità, discriminazioni nell'attribuzione
di diritti, velleità di ascesa socio-economica che portano
le donne a prostituirsi agli uomini, gli uomini a prostituirsi
all'industria, una madre a vendere tre figlie al traffico e
a finire in prigione. Penso a tutto questo, e alla difficile
lotta quotidiana di chi come Michael, con gli occhi aperti fuori
dall'oppio della normalità, si domanda quali conseguenze
inesorabili provocherà chissà quale farfalla che
sta battendo le ali dall'altra parte del mondo.
Moreno Paulon
Le informazioni e le storie qui raccontate sono
state raccolte nel corso delle ricerche di The
Human Earth Project.
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