Ricordando Henry D. Thoreau
Animalità non cittadinanza
intervista (immaginaria) a Henry David Thoreau di Leonardo Caffo
Questa la strada che l'umanità deve imboccare, secondo il filosofo (ma non solo) anarchico statunitense di due secoli fa.
Eppure ancora attuale.
The day was wet, the rain fell souse
Like jars of strawberry jam, a
sound was heard in the old henhouse,
A beating of a hammer.
Lewis Carroll
A Concord, luogo degli Stati
Uniti tra i più incantevoli, spesso identificato con
la locuzione “New England”, nasce e cresce Henry
David Thoreau – che vi morirà nel 1862. I suoi
luoghi sono leggendari: i boschi di Walden, il lago e i prati
colorati del Maine sono stati il contorno, boscoso, di una teoria
ontologica e politica che ha scritto un'alternativa storia filosofica
a quella del vincente Hegel. Natura e umanità intimamente
connesse, forse più che in Spinoza, sono binomio di un'altra
visione del sociale: intima propensione a condividere e opposizione
allo Stato in favore della Società... tutto questo, e
molto altro ancora, è stato Thoreau.
Figlio di un imprenditore di matite, maestro elementare e giardiniere,
precettore della famiglia del maestro Emerson e naturalista,
vive il complesso dei giganti: apprezzato come letterato –
dai teorici della beat generation che ne fecero un'icona,
fino allo sfortunato Christopher McCandless protagonista reale
del film Into the wild – è stato praticamente
ignorato come filosofo1.
L'ho incontrato qualche giorno fa – proprio sulle rive
del lago di Walden, non lontano dalla targa di legno che ne
ricorda il passaggio nei pressi della capanna che si costruì
per vivere. Abbiamo mangiato insieme qualcosa. Poco, in realtà.
Del resto è una filosofia del poco, mi pare, che Thoreau
ha consegnato all'umanità che viene...
Io, come tanti, ho cominciato a interessarmi di filosofia
grazie al tuo diario del 1845-1847 – Walden ovvero Vita
nei boschi. Ogni tua riflessione è non tanto, concedimelo,
attuale quanto, piuttosto, attualizzabile. Alla tua epoca, non
nascondiamolo, parecchi andavano nei boschi a vivere di poco:
paradossalmente, questo pensavo, la cosa per cui sei diventato
più celebre e quella meno interessante e speciale. Ma
sappiamo perché... è come se si fosse spostato
l'asse di interesse dalle tue parole, ma anche dalle tue azioni,
verso lo stereotipo che si crede tu abbia incarnato. Una specie
di figlio dei fiori, un precursore, che dimostra che si può
stare tutta la vita con un solo paio di mutande... e sai che
bellezza. Facendo lo sforzo di rileggerti, anche perché
hai scritto poco, si ritrova invece un maestoso percorso filosofico
a tappe: un'estetica che tiene insieme politica e filosofia
della natura – il tutto articolato attraverso una teoria
ontologica che richiede analisi diverse, per oggetti diversi,
fino alla difesa – ancora a mio avviso insuperata –
di una teoria anarchica legata agli stati più profondi
della natura umana. Non che ti chieda di riassumere questo tuo
“sistema” filosofico, intendiamoci, ma cosa resta
oggi – delle basi filosofiche che hai fornito –
a chi volesse provare, ancora una volta, a difendere l'anarchia
come spazio unico e insostituibile per le libertà della
nostra specie?
«Mah... è una domanda che presuppone un tempo eterno
per discutere. Io potrei, ma tu no, perciò proviamo ad
andare per gradi. La risposta semplice è: tutto. Se una
filosofia teorica funziona è senza tempo; ciò
che si deve aggiornare, piuttosto, sono le sue condizioni di
applicabilità. Hai ragione: di naturisti e naturalisti,
spesso coincidevano le due cose (non era un refuso), era pieno
il Concord. Il problema è cosa conduceva qualcuno a compiere
certe azioni: e qui veniamo al dunque. Per me agire in un certo
modo significava applicare la teoria in prassi: questa è
la filosofia, e non solo la mia. Per cui, per quanto complesso
il sistema che dici, mi sembrava – e continua a sembrarmi
fondamentale – una sua applicazione immediata.
Ma veniamo al dunque: il problema reale di molti anarchici è
che non conoscono le basi stesse della loro teoria politica,
sono come attaccati ad un brand di cui non percepiscono
le ragioni profonde. Di questa disinformazione l'anarchia non
può beneficiarsi, ma anzi deve temerla. Ho lottato una
vita per far comprendere che se è vero che la teoria
senza prassi è vuota, nondimeno la prassi senza teoria
è cieca. Sentire anarchici che ti dicono che la natura
umana non esiste è per me assai doloroso. Senza la natura
umana, e una teoria che crediamo giusta su di essa, non avremmo
di che essere felici: è l'idea che siamo biologicamente
portati a vivere in un certo modo, che poi è l'opposto
del mondo di Hobbes, che conduce me e altri a formulare l'anarchia
come spazio possibile qui e ora.
Quando, e andiamo al punto, sostenevo che col mio vivere in
Walden tornavo alla Natura intendevo questo: applicare,
praticamente, una filosofia altrimenti del tutto astrusa e astratta.
Dal resto l'anarchia crede nell'individuo, e non solo nel sociale
– qui sta la sua potenza incompresa, per esempio, da altri
movimenti che a me sono seguiti: penso al marxismo, per esempio,
in cui il ruolo del cambiamento è tutto scaricato sulla
collettività. Ma per adesso vorrei fermarmi qui.»
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Henry David Thoreau |
Contro la degenerazione del progresso
Sì, il senso è chiaro. Non vorrei però
che ne venisse fuori l'immagine di un Thoreau autoritario...
tipo ci sono anarchici di serie A e di serie B – a seconda
se hanno capito la tua filosofia. Mi spiego. Credo sia ovvio
che ogni fenomeno politico e culturale ha diversi livelli di
lettura: così anche la tua testimonianza ha di che far
lavorare l'ermeneutica. Il fatto che alcuni siano in grado di
capire che la tua visione della natura ha le basi nel trascendentalismo,
mentre altri no, non dovrebbe condurre a dire che solo alcuni
possono apprezzare le tue teorie. Del resto, e correggimi se
sbaglio, la tua forza è stata proprio quella di contestare
il sistema istituzionale secondo cui la cultura sia quella delle
università, e poi oltre ciò il vuoto.
Dopo la laurea ad Harvard hai praticamente vissuto alla
giornata – e le istituzioni educative non ti hanno mai
attratto come, del resto, tu non hai attratto loro. Forse, mi
pare, tu dici che tra gli anarchici esistono alcuni che possono
fare teoria dell'anarchia, e altri no. Ma questo è scontato:
tutti mangiamo, ma solo alcuni sono degli chef. Non è
classismo ma realismo: e fin qui, nulla di male. Sarebbe invece
grave se solo chi comprende la tua ontologia – dove oggetti
naturali sono qualitativamente più importanti di quelli
sociali –, o la tua estetica, dove arte è solo
ciò che (contro Platone) si richiama alla natura, –
può poi dirsi davvero anarchico. Anche perché
– penso al tuo Camminare, per non parlare poi di Disobbedienza
civile (senza il quale ci saremmo giocato anche Gandhi), hai
sempre proposto una sorta di “ritorno all'animalità”
dell'umano affinché, almeno funzionalmente, potesse abbandonare
il ruolo di “cittadino” verso quello, inesplorato
e rimosso, di “abitatore della natura”...
«Dici bene... guai al classismo. Lungi dai miei intenti
che, proprio contro il classismo culturale di cui, del resto,
anche Emerson (massone convinto) fu espressione, ho combattuto
tutta la vita. Ma invece – proprio perché credo
nell'umano ritengo che tutti possano capire: è che ci
si sforzi, come ubriachi appesi al palo, di non vedere la realtà.
Sono morto nel 1862 e qualche anno dopo, da Chicago (pensa alle
Union Stockyards), è cominciata una rivoluzione industriale
che rappresentava, di fatto, tutto ciò contro cui ho
combattuto: massacro della natura, animali sezionati e fatti
a fette, umani schiavizzati... in un contesto del genere, come
dire, la fiducia non si dissolve ma viene (quantomeno) messa
in crisi. Ovvio, poi, che ciò che ho sempre cercato di
dire, e lo dici bene, è che se da una parte l'umanità
deve andare questa non è quella della cittadinanza, che
tanti mostri ha creato, ma la polarità opposta: quella
dell'animalità.»
Sì, ma perché?
«Perché l'umano cittadino è un sovrasocializzato,
incapace di vedere al di là dello Stato. Talvolta crede,
addirittura, che lo Stato sia un oggetto naturale: come un sasso.
Il mio sogno di un governo che governi meno, fino a non governare
del tutto, è possibile solo se siamo in grado di immaginare
società senza stati – e se, lo abbiamo detto, abbiamo
filosofie che giustifichino razionalmente questa nostra immaginazione.
Questa idea è possibile proprio osservando gli animali
che, praticamente, sono la prova che l'anarchia è possibile:
vivono vite in gruppo, non hanno governi, ma godono di esistenze
complesse proprio come le nostre. Spesso facciamo della diversità
motivo di inferiorità ma questo, ancora una volta, perché
abbiamo gli occhi chiusi dal mondo sociale che abbiamo costruito
e che dobbiamo, invece, de-costruire. Se gli animali fanno una
cosa, e se noi siamo animali, allora – scusa se semplifico
– anche noi possiamo impegnarci a fare quella determinata
cosa. Non che l'anarchia sia assenza di cultura, anzi! Qui,
ancora una volta, è il pensare che la specie homo
sapiens sia l'unica culturale che ci blocca mentre, al massimo,
la nostra specie ha un “tipo” di cultura –
ma non l'unica. L'anarchia è la migliore forma di organizzazione
sociale anche, e soprattutto, perché è l'unica
che si adatta alla nostra forma di vita a meno di non supporre,
ma sarebbe da sciocchi, che nel nostro genoma c'è anche
la propensione all'autodistruzione. Ma permettimi di dubitarne.»
Certo... ma quella rivoluzione industriale di cui parlavi
oggi è arrivata a proporzioni immense. Abbiamo tutto,
mi verrebbe da dire, proprio adesso che ci manca il resto. Anche
qui, tra i boschi di Walden, non si sentono più solo
i versi della natura di cui parlavi ma anche il rumore degli
aerei e l'aria, prima limpida, comunica il suo grigiore a fasi
alterne.
«Sì ma non è contro il progresso che si
deve lottare, ma contro la degenerazione. Nella nostra natura
c'è sia l'anarchia che la tecnologia: non facciamo errori
grossolani. Io stesso ho amato e difeso la natura ma ho diretto
tutta la vita la fabbrica di matite più all'avanguardia
della mia epoca: e non solo, come spesso molti dicono, per motivi
contingenti. A me la vita industriale piaceva: spesso mi fermavo
ore a guardare le navi nei porti, e ne ero incantato. Qui è
non comprendere che anche la tecnologia, che è neutrale,
è stata poi assoggettata alle teorie dell'assurdo...
se, come me, non poni cesura totale tra naturale e culturale
allora anche la tecnica, in un senso non banale, è natura:
perché ne è emersione (e dunque anche emergenza).»
Sì, concordo. Ma che fare, allora...
«Mostrare che tanta teoria ha una pratica. E comprendere
che ogni strategia è sensibile al proprio tempo: certo
non consiglierei a nessuno, oggi, ammesso che si possa fare,
di andare a farsi una capanna nei boschi per mostrare le possibilità
dell'anarchia. Utilizzare gli strumenti interni al sistema che
si contesta scatenando le contraddizioni... questo è
necessario. Senza integrazione non c'è disintegrazione:
generando paradossi l'anarchia sarà possibile. Sai perché
in tanti mi osteggiavano?»
No... almeno, immagino. Ma non so di preciso.
«Perché ciò che facevo io era, paradossalmente,
in linea proprio con la Dichiarazione di indipendenza degli
Stati Uniti d'America – questo paradosso, il sistema
che contestavo, non poteva accettarlo. Quando porti a contraddizione
chi contesti, questi ha solo due strade: proseguire nel falso
o cambiare strada e unirsi a te.»
Perché credi che dovrebbe cambiare strada?
«Perché credo nell'umano. E se non credi nell'umano,
allora, non credi neanche in te stesso.»
Leonardo Caffo
1. Se si esclude il tentativo più
celebre e riuscito: S. Cavell, The Senses of Walden: An Expanded
Edition, University of Chicago Press, Chicago 2013. Per
Piano B edizioni sto attualmente lavorando a un progetto di
traduzione della vita e opera filosofica di Thoreau nel contemporaneo. |