Due di mille
La mia considerazione fondamentale
sulla cultura contemporanea è che ci metteremo del tempo.
Ci
metteremo molto tempo a capire che l'universo non può
essere separato sempre in due metà, che vengono sistematicamente
e sintomaticamente collocate agli estremi opposti: il buono
e il cattivo, Caino e Abele, il bianco e lo Zio Tom, il lombardo
e il napoletano, il dolce, il salato e il piccante, che per
comodità molta cucina accorpa. Ci metteremo ancora molto
tempo a capire che quel terzo che nel proverbio gode quando
i due litiganti si azzuffano è l'elemento che ci può
salvare dalle pericolose derive storiche che abbiamo già
conosciuto.
Parliamo di donne. Lo facciamo dopo questo preambolo perché
di recente, in modo curioso e imprevisto, mi è capitato
di sentire sempre più spesso, dopo averla considerata
desueta, la parola “femminismo”, a volte affiancata
a espressioni bizzarre, tipo “quote rosa”, “parità
della donna nella famiglia e sul lavoro”, “pari
opportunità”. Come se appunto avessimo due entità
separate, dotate di anatomie diverse, e che vanno semplicemente
riequilibrate su una bilancia sociale che non appare equa.
Di nuovo, come dicevo tempo fa, parrebbe una questione di numeri.
Peccato che non lo sia. E pensarla come tale – pensare
cioè che basti incrementare a vanvera il numero delle
ministre per riequilibrare una cultura sbarellata – è
un tragico errore e un modo pericoloso di neutralizzare le sacche
autentiche di resistenza. Il cambiamento qualitativo, quello
che davvero ci vorrebbe, è culturale e civile, e non
ha nulla, ma proprio nulla a che vedere con la percentuale di
ministre, che a volte non sembra che siano arrivate lì
per meriti, a giudicare dalle battute spesso infelici e delle
valutazioni politiche totalmente errate che si lascian sfuggire,
ma solo perché ci volevano delle donne (e magari se erano
pure inoffensive perché non troppo intelligenti, meglio).
Il cambiamento deve essere ben più profondo, e la sua
ratio scardina, secondo me, il principio stesso della bilancia,
perché se i termini da considerare non sono solo due
– maschio e femmina – semplicemente la bilancia
non si può più usare. Il cambiamento, pensate
un po', può partire soltanto dalla nozione semplice che
siamo persone, e come tali tutte dobbiamo essere considerate.
La questione è elementare, e credo che in qualche modo,
nei percorsi educativi, essa andrebbe considerata.
Anni fa, ho sviluppato tutto il mio corso, all'università,
intorno a un artista, Derek Jarman, che nell'86 fu uno dei primi
a dichiarare pubblicamente di essere sieropositivo. Essendo
gay, si espose a una censura pesantissima. Impiegò 7
anni a morire, ma lo fece senza mai rinnegare la sua omosessualità,
senza mai rinunciare a essere una persona: non uomo, non donna,
ma persona. Il corso fu molto bello, emotivamente trascinante
(per me di certo, ma spero anche per i miei studenti) e poi
fu dimenticato. Anni dopo, una mia studentessa di allora, poi
dottoranda e poi addottorata, mi confessò un aneddoto
importante. Figlia di genitori marxisti e insegnanti, progressista
e alfabetizzata, aveva seguito quel corso e ricordava perfettamente
il momento in cui aveva dovuto svolgere il suo “assignment”
di fine corso: scegliere un film tra quelli analizzati e svilupparci
un paper. Chiese aiuto a un suo amico regista, esprimendosi
testualmente in questo modo: “Sì, devo fare questo
paper e voglio farlo bene. Solo che il regista è difficile,
e soprattutto la mia prof è brava, ma è lesbica”.
Solo anni dopo, la ragazza scoprì che le cose stavano
in modo diverso. Ma in quell'occasione, per il corso che avevo
scelto di sviluppare e per come mi ero portata nel svilupparlo,
ero stata catalogata, senza se e senza ma, anche da una persona
intelligente e cresciuta in un ambiente stimolante, sulla base
di una elementare dicotomia: se parli di omosessualità,
dimostrando di comprenderne i problemi, non sei eterosessuale.
E poi, alla fine, ripensandoci, questo malinteso non mi spiace
poi molto: a suo modo, il gay è rivoluzionario, perché
sfugge alla dicotomia maschio/femmina.
Non sfuggono affatto le “quote rosa”, la “scrittura
femminile”, la “fantascienza delle donne”,
e via decidendo. Per di più, questo genere di battaglia
è già stata combattuta. Ha prodotto grandi teoriche,
molte delle quali però si sono fatalmente allontanate
dalla quotidianità delle donne, dimenticandone i problemi
reali. Non è stato un fallimento assoluto, ed era comunque
una rivolta necessaria. Adesso, però, io penso che la
battaglia sia un'altra, e passi dalla cultura, dalla scuola,
esattamente da tutto quello che in questo nostro disgraziato
paese non conta una cippa. E io credo che si tratti di una battaglia
per il rispetto della persona come entità accidentalmente
sessuata, accidentalmente collocata in una definita fascia d'età,
accidentalmente ricca o poverissima, accidentalmente madre o
professionista o lesbica o eterosessuale o tutte queste cose
insieme. E la persona non è semplicemente e riduttivamente
uomo o donna. È molte cose insieme, e di queste molte
cose bisognerebbe tener conto.
Mettiamola in un altro modo, più pratico: anche se sono
donna, voglio poter dire che le molte donne governanti in questo
momento non mi rispecchiano per niente, perché dimostrano
l'intelligenza media di un paguro, e hanno un'esperienza della
vita talmente lontana dalla mia da risultarmi del tutto incomprensibile.
In quanto donna, vorrei avere la libertà di dire anche
che una donna lavora male, che è una cialtrona o che
è pronta ad uccidere per il suo successo personale. Il
fatto di aver subito una storia – autentica – di
censura e proibizioni non rende le donne necessariamente brave,
buone e sante. Perché? Perché si è persone:
ecco perché. E perché le persone sono fatte di
sfumature. E perché più del bianco e del nero,
mi piacciono i colori in mezzo, che sono quelli di cui viviamo.
Nicoletta Vallorani
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