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Rizzi antisemita?

Sull’ultimo numero di «A rivista anarchica» (n. 9, dicembre 2002/gennaio 2003, pp. 24-28), Gianpiero Landi si è profuso in una lunga recensione della prima edizione integrale de La Burocratizzazione del Mondo, da noi curata per i tipi delle Edizioni Colibrì. Poiché però, oltre ad un innegabile tentativo di comprensione storica, vi sono anche una serie di affermazioni che ci tirano direttamente in causa, mi pare doveroso precisare alcune cose. Tanto per cominciare, ci pare giusto dire, senza alcuna reticenza, che già dal momento in cui decidemmo di intraprendere la cura di questa prima edizione mondiale del libro di Rizzi, prevedevamo che l’attenzione si sarebbe immediatamente concentrata sulla questione più eclatante, e cioè sulle poche pagine che Rizzi dedica alla “questione ebraica”. Più tardi, ci dicevamo, forse si entrerà nel merito dei problemi teorici e storici sollevati nel libro. Problemi che, sia detto per inciso, rimangono ancora oggi questioni tutt’altro che irrilevanti. Dunque, da questo punto di vista, nessuno stupore da parte nostra per quella che, ragionevolmente, prevedevamo essere l’accoglienza che il libro avrebbe avuto. Ci sembrava – e ci sembra – infatti fuori discussione censurare detto capitolo, anche perché, se lo avessimo fatto, certi “sepolcri imbiancati” non avrebbero sicuramente mancato di esecrare un simile gesto oscurantista. E neppure si poteva fare finta che non esistesse, nascondendo la testa sotto terra come gli struzzi. Il nostro compito, perciò, come curatori del volume, si doveva limitare a una precisa contestualizzazione storica di quello che Rizzi definì sempre come un film di pensiero. Contestualizzazione storica tanto più necessaria, in quanto tutto lo svolgimento del libro è indissolubilmente incistato negli eventi di quella tragica epoca. Con lealtà, Gianpiero Landi ammette infatti che «il capitolo sulla “questione ebraica” è costituito da poche pagine e per di più è confinato in un’appendice, del tutto marginale nell’economia del libro, e poco ha a che vedere con le idee fondamentali dibattute nel volume» (p. 26).
Ciò che ci stupisce invece, stando a quanto scrive Landi, è il volerci coinvolgere nella “questione”, come se pure noi fossimo responsabili di quanto affermato dal Rizzi. Scrive infatti Landi: «Pur riconoscendo la validità di molte affermazioni, dissentiamo in buona misura dalle considerazioni sviluppate da Sensini nella sua introduzione, a nostro avviso troppo giustificazionista. Abbiamo l’impressione che la simpatia per il suo autore, in questo caso, abbia fatto velo alla chiarezza del giudizio critico, che avrebbe dovuto essere più duro» (p. 26).
A Landi non basta che noi, nell’affrontare tale vicenda nel nostro saggio introduttivo, «non abbiamo alcuna intenzione di sminuire la gravità delle sue affermazioni [di Rizzi]» (p. CXIX), e neppure si accontenta che «deploriamo fermamente […] l’uso di generalizzazioni discutibili e sbrigative utilizzate dal Rizzi nel capitolo sulla “questione ebraica”» (p. CXXXVII). Ciò di cui Landi non si dà ragione (lui la chiama “simpatia”) è il fatto che, oltre a ciò, «ci preme fornire con precisione tutti gli elementi possibili, in modo che ciascuno possa giudicare col massimo di obiettività» (p. CXIX). E quali sono gli «elementi» che ci siamo sforzati di fornire, senza con ciò voler minimamente sminuire le affermazioni di Rizzi?
In primo luogo, una precisazione di fatto: e cioè che all’epoca in cui Rizzi scriveva (fine 1938, inizi 1939) non vi era alcuna avvisaglia della cosiddetta “soluzione finale”. Precisazione che non vuole giustificare alcunché, ma che comunque non è assolutamente da sottovalutare, vista la perentorietà delle affermazioni di Landi. Forse che nella ricostruzione storica della genesi di un libro non era giusto ricordare questo piccolo particolare, ma tutt’altro che irrilevante? A leggere quanto scrive Landi, sembrerebbe che i campi di concentramento fossero stati aperti appositamente per gli ebrei, cosa che non risponde affatto a verità. Diversi anni prima, vi avevano già trovato “ospitalità” anarchici, comunisti, omosessuali, handicappati, zingari ed altre categorie sociali invise ai nazisti o refrattari al regime. I campi, per la precisione, non sono neppure un’invenzione di Hitler, ma erano già stati sperimentati molto prima, con grande successo (si fa per dire!) nella “patria del socialismo”, cioè in Unione Sovietica. Anche in Francia, del resto, il governo che fece requisire il libro di Rizzi, era lo stesso che aveva fatto aprire, nel 1939, i campi di concentramento per “accogliere” i rivoluzionari che fuggivano dalla Spagna controrivoluzionaria e franchista.
In secondo luogo, ciò che ci si rimprovera è l’aver dato conto di quello che fu l’approccio alla “questione ebraica” all’interno del movimento rivoluzionario moderno, e non solo dei punti di vista di Fourier, Proudhon, Bakunin e dello stesso Marx, già di per sé assai significativi. Mi rendo conto che ciò non sia politically correct, ma perché tante difficoltà e inibizioni a voler analizzare con ratio e senza anatemi questo “futuro alle spalle” che ci riguarda così da vicino? Forse perché è “giustificazionista”? Non prendiamoci in giro!
Infine, e qui ravviso la maggiore difficoltà di Landi a seguire le nostre “considerazioni”, è l’aver dato conto dei collateralismi – se non dell’aperta complicità – che, in taluni casi, eminenti personalità della comunità israelitica tedesca e non solo, hanno fornito al nazionalsocialismo, sia al momento della sua affermazione politica, sia nel prosieguo della sua tragica ecatombe. Anche in questo caso, lo ripetiamo ancora una volta, non c’è alcuna volontà “giustificazionista” delle considerazioni rizziane, ma il tentativo di documentare, in sede storica, tutte le ambiguità e le sottovalutazioni che vi sono state nel periodo in oggetto. La storia non è, come certa storiografia vorrebbe farci credere, una semplice sequela di coppie del genere: bianco o nero, buono o cattivo, bello o brutto, ma una panòplia di situazioni che solo il giudizio critico e retrospettivo può afferrare con ragionevole prospettiva. Dunque, per quale strano ukase dovremmo interdirci dall’indagare a fondo le turbinose correnti che attraversano anche la storia recente?
Cosa direbbe, per esempio, il lettore d’oggi nel sentire frasi come quelle pronunciate nel 1934 da una delle più importanti personalità del sionismo mondiale come il rabbino Joachim Prinz, secondo il quale «il significato della Rivoluzione tedesca per la Nazione germanica si rivelerà in tutta la sua chiarezza a coloro che l’hanno creata e le hanno dato l’immagine. Per noi – continuava Prinz nel suo libro Wir Juden (1934) – il significato è che il liberalismo è morto. Sono finite le fortune dell’unica forma politica che ha contribuito all’assimilazione degli ebrei», avallando con ciò la satrapia nazista. Oppure sapere che, tra i finanziatori di Hitler, vanno annoverati importantissimi banchieri ebrei? O che, ancora, terroristi come Yitzhak Shamir e Menahem Begin (divenuti nel dopoguerra Primi ministri di Israele), trattarono ripetutamente con i nazisti importanti questioni geopolitiche?
Ciò significa che costoro sono responsabili di quanto poi è successo? Niente affatto. Significa solamente che le cose sono molto più intricate e sfaccettate di quanto oggi, certa pubblicistica, vorrebbe far credere.
Ci fermiamo qui, per non tediare ulteriormente il lettore con argomentazioni che, se vorrà, potrà ritrovare in modo più ampio e articolato nel nostro saggio introduttivo. Qui, ci interessava solo dare conto dello spirito con cui è nostra abitudine affrontare le questioni, spirito alieno le mille miglia da tutto ciò che può, anche indirettamente, alimentare “cacce alle streghe”. Per noi, prima viene la comprensione storica di un problema, e poi il giudizio critico su di esso, non il contrario. L’emotività, per quanto ineliminabile, deve stare il più lontano possibile dalla ricerca storica.
Infine, un’ultimissima notazione. In esergo alla sua recensione, Landi pone una citazione di Guy Debord che, ci pare, può però ingenerare qualche fraintendimento viste poi le argomentazioni che fa seguire poco dopo. La citazione è questa: «Ecco il libro più sconosciuto del secolo, e si tratta appunto del libro che, fin dal 1939, ha risolto uno dei principali problemi in cui questo secolo si è imbattuto…». Ma qual è il “problema” di cui parla Debord, cioè il soggetto della frase? Non la “questione ebraica” od altro, come si potrebbe forse erroneamente inferire, ma «la natura della nuova società russa, la critica marxista della forma di dominio che vi è apparso».

Paolo Sensini
(Milano)

 

... Direi proprio di sì!

Paolo Sensini non è rimasto del tutto soddisfatto dalla mia recensione al libro di Bruno Rizzi da lui curato. Me ne rammarico, ma devo dire che non trovo nella sua lettera nulla che mi possa portare a modificare, anche solo in qualche dettaglio marginale, ciò che ho scritto.
Prima di entrare nel merito delle argomentazioni contenute nella lettera di Sensini, ritengo opportuno fare una precisazione. Credo che chiunque abbia letto la mia recensione si sia reso conto del fatto che i miei rilievi critici nei suoi confronti, pochi e circoscritti, si appuntavano esclusivamente al modo in cui egli ha trattato, nella sua introduzione, le pagine di Rizzi sulla questione ebraica. (Pagine – osservo en passant – che non ho mai pensato dovessero essere censurate: i testi e i documenti storici, anche discutibili, vanno pubblicati nella loro interezza. Semmai, il problema è contestualizzarli nel modo giusto). Questo non toglie nulla al valore dell’operazione culturale portata avanti da Sensini, che giudico di notevole interesse e ampiamente apprezzabile. Avere recuperato un testo importante ma introvabile e poco conosciuto come La Bureaucratisation du Monde, averlo pubblicato per la prima volta in assoluto nella sua integralità con un lavoro filologicamente corretto, avere contestualizzato e arricchito il testo con una lunga e informata introduzione e con un ricco apparato di note e di appendici di documenti, costituiscono un merito rilevante di cui qualunque studioso dovrebbe andare fiero. Sensini ci ha restituito un capitolo, fino ad oggi trascurato e misconosciuto, della storia della cultura politica e sociologica del Novecento, e tutti dovremmo essergli grati di questo. Tra l’altro, mi risulta che Sensini abbia intenzione di andare avanti sulla strada iniziata, ripubblicando nel prossimo futuro anche tutte le altre opere di Rizzi in edizione critica. Il progetto è apprezzabile e merita di essere incoraggiato, perché Rizzi è sicuramente un autore interessante. Per certi aspetti anche affascinante.
Tra gli studiosi che si sono occupati di lui qualcuno lo considera un genio, altri sono più cauti e invitano a non sopravvalutarlo. Tutti, in ogni caso, riconoscono che merita di essere studiato e conosciuto meglio di quanto non sia avvenuto fino ad oggi. Per quanto mi riguarda, nella mia recensione credo di avere valorizzato nella giusta misura l’analisi condotta da Rizzi sulla natura sociale dell’URSS e la sua innovativa teoria del collettivismo burocratico (a questo si riferiva con ogni evidenza la citazione iniziale di Guy Debord, e ritengo che nessun lettore possa avere avuto dubbi in proposito). Era questo, del resto, l’argomento centrale del suo libro del 1939, ora ripubblicato da Sensini completo anche delle parti che l’autore all’epoca aveva deciso di non inserire.
Ma Rizzi non era sempre rimasto al tema, aveva inserito nel suo libro anche la famigerata appendice sulla questione ebraica. Con affermazioni francamente ignobili, che non sto qui a ripetere. Chi legge il libro, e a maggior ragione chi ne scrive, non può fare finta di niente. Il fascino intellettuale e la genialità non sono sempre incompatibili con le concezioni politiche più aberranti e con il razzismo, come talvolta ci piacerebbe pensare. Ezra Pound e Louis-Ferdinand Céline possono essere considerati tra i più grandi scrittori del secolo da poco trascorso, ma sono stati notoriamente antisemiti e filonazisti. La qualità delle loro opere letterarie non è in discussione, e personalmente le leggo con piacere e interesse, ma le loro scelte politiche mi fanno vomitare. So che alcuni non riescono a distinguere tra i due piani, ma non è il mio caso.
Sensini non può stupirsi del fatto che io abbia parlato dell’antisemitismo di Rizzi. Del resto, lui stesso riconosce di avere ampiamente previsto che all’uscita del libro “l’attenzione si sarebbe immediatamente concentrata sulla questione più eclatante, e cioè sulle poche pagine che Rizzi dedica alla ‘questione ebraica’”. Che Sensini ne fosse consapevole, lo dimostra anche il fatto che abbia dedicato a questo aspetto (che entrambi riteniamo marginale nella struttura del libro) almeno 20 pagine della sua introduzione. Proporzionalmente uno spazio superiore a quello che vi ho dedicato io nella mia recensione. Sensini dunque non si stupisce (perché non potrebbe) del fatto che io ne abbia parlato. Si stupisce invece di come ne ho parlato. Secondo lui lo avrei voluto coinvolgere nella questione, come se anch’egli fosse responsabile di quanto affermato da Rizzi.
Su questo punto, particolarmente delicato, voglio essere molto chiaro. Personalmente non ho mai scritto, e neanche pensato, che Sensini condivida le affermazioni antisemite di Rizzi. Ho scritto però, e lo ribadisco, che la sua introduzione appare troppo giustificazionista, e che avrebbe dovuto prendere maggiormente le distanze da quelle affermazioni. Proprio perché non penso che ciò si debba a una condivisione delle idee di Rizzi da parte di Sensini, ho ipotizzato che la ragione vada rintracciata nella simpatia che ogni biografo finisce per provare per il proprio biografato, e che talvolta porta a minimizzarne gli errori e i difetti. È un meccanismo ormai noto, fin troppo umano, a cui è obiettivamente difficile sottrarsi, soprattutto quando la frequentazione con i documenti che riguardano la vita e le opere di un autore si prolunga per diversi anni.
Sensini nega che di “simpatia” nel suo caso si tratti, e io non posso fare altro che prendere atto della sua affermazione. Egli rivendica piuttosto di avere voluto “fornire con precisione tutti gli elementi possibili, in modo che ciascuno possa giudicare con il massimo di obiettività”. Come dichiarazione di intenti non è male, si potrebbe anzi dire che questo sia il compito precipuo di ogni storico autentico. Purché non ci si dimentichi dei giudizi di valore di fondo, che in questo caso dovrebbero essere assodati e che non è necessario rimettere in discussione ogni volta. Intendo dire che giudico con favore l’apparizione di ogni nuovo studio storiografico serio sul fascismo o sulla Shoà che faccia avanzare la conoscenza su questi fenomeni, ma non ho bisogno di nuovi studi per formulare il mio giudizio sul fascismo e sulla Shoah. Quello è ormai chiaro, e da tempo. E diffido di una storiografia che si dichiari “afascista”, che cioè prescinda da ogni giudizio di valore e che pretenda di essere obiettiva proprio perché programmaticamente rifiuta di prendere posizione, come se fosse possibile essere neutrali in tali questioni. Il carnefice e la vittima, l’oppressore e chi lotta per la libertà, non possono mai essere messi sullo stesso piano.
Detto questo, passiamo alle argomentazioni utilizzate da Sensini nella sua lettera, che del resto ricalcano analoghe argomentazioni contenute nella sua introduzione al volume. Anzitutto, Sensini rimarca che all’epoca in cui Rizzi scriveva (prima metà del 1939) “non vi era alcuna avvisaglia della cosiddetta ‘soluzione finale’”. Che nel 1939 non fosse stato ancora avviato dai nazisti lo sterminio sistematico e pianificato su larga scala degli ebrei l’ho riconosciuto anch’io nel mio articolo (e ho anzi rilevato che questa era “l’unica concessione che possiamo fare” di fronte alla gravità delle dichiarazioni antisemite di Rizzi). Ma questo riconoscimento non giustifica affatto Rizzi, perché numerosi erano i segnali che andavano in quella direzione, e numerose le umiliazioni e le vere e proprie persecuzioni che gli ebrei già avevano dovuto subire in Germania (tanto è vero che alcuni di loro ne erano fuggiti, sperando di trovare scampo all’estero).
Credo che questo sia l’unico punto vero di dissenso tra di noi. Secondo la mia opinione Sensini minimizza eccessivamente quanto stava accadendo in Germania almeno fin dal 1933, sotto gli occhi del mondo. Per brevità, mi limito a riprodurre qualche riga di Léon Poliakov, tra i massimi studiosi dell’argomento (Antisemitismo, in Il mondo contemporaneo, vol. 2, Storia d’Europa, tomo 1, La Nuova Italia, 1980, p. 53): “Una volta preso il potere, i nazionalsocialisti applicarono il loro programma fino in fondo, anzi, al di là delle stesse promesse elettorali (…). Dopo la promulgazione delle prime leggi antiebraiche (epurazione degli uffici pubblici) venne organizzato, nella primavera 1933, il boicottaggio del commercio ebraico. Dopo che erano stati messi al bando, progressivamente, dal paese, ai non ariani fu imposto il più assoluto isolamento con le «leggi di Norimberga» dell’estate 1935, che proibivano il matrimonio e qualsiasi tipo di rapporto sessuale o sentimentale tra loro e gli ariani. Parallelamente all’esclusione dalle università di studenti e professori di origine ebraica, inoltre, veniva proibito l’insegnamento delle materie definite ebraiche, come la teoria della relatività e la psicanalisi; vennero pubblicamente dati alle fiamme tutti i libri che trattavano questi argomenti, insieme con le opere del filosofo Spinoza, del poeta Heine, di Karl Marx. Fine dichiarato dei dirigenti del Terzo Reich era di «ripulire» la Germania dagli ebrei, renderla judenrein”. (Per una ricostruzione più dettagliata si veda, dello stesso autore, Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, Einaudi, 1964, pp. 19-49)
Dovrebbe bastare, ma si può aggiungere che in questo clima si verificarono chiaramente anche violenze nei confronti degli ebrei, dapprima sporadiche, che infine sfociarono nel massacro della Kristallnacht (9 novembre 1938, prima della compilazione del libro di Rizzi). Ecco la ricostruzione di Enzo Collotti (Hitler e il nazismo, Giunti Casterman, 1996, p. 81): “Il 7 novembre un giovane emigrato polacco uccideva a Parigi un consigliere dell’ambasciata tedesca nella capitale francese per protestare contro l’avvenuta deportazione dal Reich dei suoi genitori. Nella notte tra il 9 e il 10 novembre la Germania fu percorsa dall’ondata di violenze antisemite più spettacolare che l’Europa avesse conosciuto dai tempi dei pogrom zaristi. Centinaia di sinagoghe furono date alle fiamme, migliaia di negozi e studi professionali di ebrei furono distrutti, abitazioni incendiate, innumerevoli ebrei percossi, poche decine gli uccisi, ma decine di migliaia gli ebrei arrestati e deportati in campo di concentramento. Non fu una reazione spontanea della popolazione tedesca al complotto dell’internazionale ebraica per soffocare la Germania, come voleva la propaganda nazista. Fu un’altra delle grandi campagne di massa promosse e manovrate dallo stesso responsabile dell’educazione e della propaganda Goebbels, che autorizzò di fatto la NSDAP e le SA a scatenare il pogrom”.
La seconda argomentazione può essere affrontata più brevemente. Non ho mai inteso rimproverare a Sensini di avere “dato conto di quello che fu l’approccio alla ‘questione ebraica’ all’interno del movimento rivoluzionario” nell’Ottocento. Né mi si può accusare seriamente di “difficoltà e inibizioni” nell’affrontare questo passato, ossia gli elementi di antisemitismo presenti in alcuni testi di Fourier, Proudhon, Bakunin, Marx (e altri esponenti del socialismo rivoluzionario, aggiunge giustamente Sensini). Credo di avere anzi usato, nella mia recensione, una rara franchezza. Ho sostenuto, e sostengo, che con questa tradizione “bisognerà decidersi prima o poi a fare compiutamente i conti, senza nessuna indulgenza”. La presa di distanza mi sembra esplicita. Che altro avrebbe voluto Sensini? Che entrassi ancora di più nel merito? Una recensione al libro di Rizzi non era certo l’occasione giusta per farlo. D’altra parte, si rende conto piuttosto Sensini che l’ampio spazio dato a questo aspetto nella sua introduzione (senza peraltro prenderne la stessa esplicita distanza mia) potrebbe essere interpretato, da qualcuno più malizioso di me, come un modo per attenuare la gravità delle affermazioni di Rizzi?
Infine la risposta alla terza argomentazione, ancora più in breve. È vero, non ho preso in considerazione nella mia recensione le pagine – e non sono poche – in cui Sensini cerca di dimostrare che diversi ebrei avrebbero sostenuto in forme diverse il nazismo, durante il suo avvento al potere e anche dopo, talvolta fino alla fine. Non ne ho parlato semplicemente perché mi sembra che non abbia nulla a che vedere con la questione centrale di cui si stava e si sta discutendo. Posso aggiungere che ho letto con una certa curiosità quelle pagine, ho appreso alcune cose che non sapevo, mi sono nate delle curiosità e un generico desiderio di approfondire l’argomento, cosa che forse farò in futuro. Detto questo, ribadisco che il comportamento di alcuni ebrei in quegli anni (potrebbero essere anche tutti gli ebrei) non aggiunge o non toglie nulla al giudizio sulle affermazioni antisemite di Rizzi.
Chiudo con un auspicio. Faccio mia la speranza di Sensini che da ora in poi, almeno tra noi, si possa discutere entrando nel merito dei problemi teorici e storici sollevati nel libro di Rizzi, che anch’io giudico in parte ancora aperti e non irrilevanti. Lasciando da parte la “questione ebraica”, su cui ritengo che ormai le posizioni siano chiare. E su cui credo che sia stato detto tutto ciò che era necessario, almeno da parte mia. Buon lavoro.

Gianpiero Landi
(Castel Bolognese)

 

 

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