Rivista Anarchica Online


Volantone

Un altro modo è possibile
a cura di @ntiglo

Riflessioni sull’uso delle merci

In una società in cui il commercio è parte preponderante delle relazioni, spesso le azioni compiute dai singoli sono dettate dagli interessi che altri vi ripongono.
Più le merci sono inutili e più è richiesta la loro promozione, e nella società occidentale contemporanea la stragrande quantità di oggetti e di servizi in commercio non è necessaria.
Anche un piccolo artigiano ha interesse a vendere la sua merce. Se egli è consapevole che il suo lavoro è importante per la comunità in cui vive non ha necessità di promuovere il suo prodotto; le persone andranno direttamente da lui, senza bisogno di essere stimolate, in quanto il suo lavoro è utile.
Il modello sociale contemporaneo è lontano da questo. Da una parte preleva risorse naturali e sociali e dall’altra immette nel mercato e stimola al consumo di una quantità enorme di merci spesso inutili.
Il modello è governato da una continua proposizione di merci, come se attraverso di esse si possa acquisire una nuova condizione di vita inspiegabilmente migliore della precedente.
La felicità è una questione individuale ma la condizione per esser felici dovrebbe essere la rimozione delle comuni ragioni di infelicità. E troppi sono i motivi per constatare che insieme non vi sono ragioni di felicità. Troppi gli interessi che impongono altre priorità, troppa l’attenzione alle merci, troppo scarso l’impegno nella ricerca di un benessere individuale e collettivo.
Per lasciare libero lo spazio alla concretezza delle merci, l’attenzione è indirizzata su valori alienati, estranei alla comune soddisfazione.
Forse è opportuno ritrovare il senso della propria esistenza in comportamenti di cui conosciamo il significato e la finalità, nell’adoprarsi con mezzi che siano omogenei al fine, nel recuperare un senso della società in cui ciascuno non sia rappresentazione di interessi o di ruolo, ma di utilità, per quello che sa effettivamente fare, di cultura, di tecnica, di esperienza, di creatività.
Forse è opportuno consumare meno merci, per produrre meno merci, per lavorare di meno; perché ad ogni azione inutile, ogni merce inutile, corrisponde, da qualche parte, miseria e devastazione.
Queste riflessioni si rivolgono a coloro che, nei paesi ricchi, possono dire di non conoscere la povertà. Coloro i quali hanno a disposizione una notevole quantità denaro (enorme rispetto ai 4/5 del mondo, infinitesimale rispetto ai veri ricchi) che spesso non risulta sufficiente per l’andamento del quotidiano, proprio in ragione dello sperpero di merci a cui partecipano.
Essi sono, anche inconsapevolmente, le colonne di sostegno del mercato, coloro che acquisiscono maggiori quantità di merci, quelli che manifestano maggiori necessità.
Essi possono, con i loro comportamenti, contribuire a rallentare questo aberrante meccanismo produttore di infelicità, limitandone il potere, riducendone l’ambito operativo, sottoponendolo a visione critica.
Sfilandosi da esso, uscendo dalle sue consuetudini. Seppure impercettibilmente, seppure con piccole azioni, ognuno di essi, attraverso il proprio comportamento, attraverso la limitazione delle inutilità, può ridurre la potenza del modello.
Comprando meno merci, dedicando più tempo al mantenimento degli oggetti, alla preparazione del cibo, se possibile alla sua produzione, muovendosi di meno.
Piccole azioni che non risolvono completamente i nodi del problema ma che aiutano a ritrovare una consapevolezza sulla base della quale conservare la propria autonomia culturale e permettere una pratica meno infelice per noi dei paesi ricchi e per gli altri poveri e dei paesi poveri.
Riflessioni che possono essere utili per cambiare atteggiamenti e abitudini di cui si sono sottovalutati i negativi effetti ambientali e sociali.
Molti sono i sostenitori inconsapevoli di un modello ingiusto, incongruo, inefficiente che ogni giorno produce milioni di vittime, che ogni giorno annulla cultura e valori di intere comunità e ogni giorno porta violenza sugli oppositori, su coloro che esprimono un giudizio critico.
Sostenitori per pregiudizio o per pigrizia più che per convinzione.
Ma per coloro i quali non ritengono la sofferenza degli altri un indispensabile corollario del proprio benessere allora per costoro è possibile che sia stata solo una svista il fatto di aderire indiscriminatamente a questo modello.
Spesso non si considera quanto attraverso le nostre azioni, quelle quotidiane, quelle consuete, abitudinarie, apparentemente innocue si sostengano interessi precisi, nocivi per l’ambiente e l’umanità. E ciò avviene principalmente perché le scelte quotidiane sono poste come non scelte, ovvero come soluzioni normali senza alternative, perché sono sottovalutate nella loro importanza. I consumatori, così come possono creare un mercato lo possono distruggere. Ma questo i consumatori sembrano non saperlo.
Non è necessario rimandare la ricerca e il raggiungimento del benessere ad un mondo tutto da realizzare, diverso, successivo. Un mondo cambiato dall’acquisizione del potere, dalla vittoria elettorale, dalla rivoluzione sociale.
Un altro mondo è possibile anche oggi, anche comportandosi in maniera diversa, dando così continuità tra l’oggi e il domani, lavorando così nel presente, per il presente e non solo per il futuro.
Un altro mondo già esiste nell’infinita diversità degli uomini, nell’enorme capacità mostrata da parte di popoli e individui di mantenere la propria cultura, la propria autonomia dal modello vigente.
Molti sono i popoli che vivono al di fuori di esso, allontanati o non raggiunti, ma molte sono le comunità e gli individui che consapevolmente hanno preso le distanza da un modello fagocitatore e vivono secondo criteri più appropriati al proprio piacere, al benessere dalla comunità, alla gravità dei problemi ambientali e sociali del pianeta.
E un altro mondo già esiste in queste persone che per scelta e con lucidità hanno intrapreso esistenze “demercificate” e stanno costruendo relazioni sociali, produttive, di scambio fondate sulla maggiore qualità ambientale, culturale e sociale.
Il modello che viene praticato nei paesi occidentali tende costantemente a indurre la convinzione che questo criterio garantisce l’eliminazione della fatica: ma, accanto a strumenti che oggettivamente e utilmente eliminano la fatica (la lavatrice, p.es) ne introduce una mole enorme che solo apparentemente produce questo risultato (v. scopa elettrica, premiagrumi elettrico casalingo ecc.), ma che risultano appaiati nella presentazione delle meraviglie della tecnica. Il preteso riscatto dalla fatica, ognuno di noi può dirlo, non ci ha riscattati dalla stanchezza.
Ognuna delle riflessioni che seguiranno suggerisce una piccola variazione dei comportamenti e implica una “piccola fatica” nel compiere azioni che abitualmente attuiamo e nel definire comportamenti diversi dagli abituali.
È il recupero di questa piccola fatica che riduce il campo del mercato sostituendo le merci prefabbricate con la nostra diretta attività autogestita e non retribuita.
Questa piccola fatica (v.s.) diviene il parametro di giudizio della convenienza a compiere azioni e ci aiuta a discernere tra i bisogni effettivi e quelli indotti tra i piaceri veri e quelli fittizi.
Essa diviene metro temporale su cui misurare quanto è possibile fare in una giornata e quindi selezionare le azioni e porre loro dei limiti, limiti che il solo consumo pone molto lontano.
Ma questa piccola fatica (v.s.) è anche lo strumento per mantenere la propria autonomia culturale e tecnica sia a livello individuale che di comunità ed è dunque mezzo per mantenere ciò che già c’è e per contribuire nel presente ad un possibile altro mondo.

Sbucciarsi le patate

Prendere le patate, pelarle, lavarle, tagliarle, asciugarle, cuocerle. Un’azione semplice. Che occupa poco tempo. Un momento in cui le mani agiscono, si riconoscono le parti buone e quelle cattive, si seleziona, se ne comprende e valuta l’appropriatezza rispetto a quello che serve.
La conoscenza avrà ripercussioni sul nostro acquisto al mercato dove selezioneremo le patate che ci soddisfano maggiormente e avrà ripercussioni sul nostro cucinare scegliendo il tipo di patata appropriato ai cibi.
Un’azione, sbucciare le patate, che mette a frutto la nostra capacità creativa nella modalità, nella forma, nelle dimensioni del taglio.
Un’azione che è tecnica e quindi culturale e che lascia il tempo di pensare: sgombera uno spazio temporale dal consumo e dalla produzione di lavoro e ci abitua a produrre per noi direttamente.
La sostanza del cucinare è la capacità, creativa e tecnica, di predisporre autonomamente prodotti direttamente gestiti e consumati.
I cibi prepuliti, precotti, eliminano tutto questo. Riducono il tempo di preparazione per lasciare tempo solo alla produzione o al consumo di merci e di servizi.
Un atto piccolo, sbucciare le patate, preparare il proprio cibo, casomai insieme con altri, per fare prima, per dividerlo, per risparmiare.
È difficile da fare? Poco moderno?
Eppure…


Un sorso d’acqua

Gran parte delle città del nord del mondo è fornita di una rete di distribuzione dell’acqua potabile.
Negli anni passati ciascun cittadino ha sostenuto, civilmente ed economicamente, il peso della creazione di questo servizio che consente alla quasi totalità degli abitanti di questi paesi di avere a disposizione acqua potabile a basso costo nelle proprie abitazioni.
Un diritto, più che un servizio, che conduceva fuori la società dalla sudditanza ai venditori di acque e al controllo da parte di pochi di un bene appartenente a tutti.
Eppure in pochi anni, volontariamente, i cittadini hanno preferito l’acqua minerale in bottiglia a quella del rubinetto. File al mercato, grandi pesi da portare, molti soldi da pagare, limitatezza delle risorsa, rifiuti incontrollati, aumento del traffico di veicoli commerciali, aumento del numero di incidenti stradali, accumulo di profitti, privatizzazione dei beni comuni, nuova sudditanza nei confronti di chi gestisce le acque. Nulla di tutto ciò pare interessare l’acquirente delle acque minerali, che guarda con disprezzo scorrere l’acqua dal rubinetto perché ha “un sapore non buono”.
L’acqua, dall’essere risorsa e bene comune inalienabile degli uomini, torna ad essere terreno di appropriazione, diventa merce, rappresenta il segnale di un interesse del mercato verso il controllo delle risorse primarie, quelle comuni, che comporta di fatto la limitazione dell’autonomia degli individui e delle comunità.
Sarebbe dunque giusto esigerne la buona qualità, insieme con la consapevolezza che la gestione di questa risorsa primaria è anche affidata a noi, alla nostra maniera di consumarne e di utilizzarne: riducendone gli sprechi, aumentandone il recupero, utilizzandola appropriatamente.
Un atto piccolo: non comprare l’acqua minerale, ma ambientalmente e socialmente importante.
È difficile da fare? Imbarazza?
Eppure…

Una vecchia automobile

Già questo: mantenere la vecchia automobile.
Poi vecchia quanto? Un po’. Un po’ di più di quanto il piacere di avere un nuovo modello ci imporebbe. Basterebbe questo per uscire da una dipendenza.
Con la nostra vecchia auto risparmieremmo dei soldi, potremmo lavorare di meno, potremmo fare lavorare di più i meccanici, ripartire quindi la ricchezza nel tessuto sociale, sottraendola alla concentrazione del grande monopolio industriale.
L’industria delle automobili ha due obiettivi: vendere nuove auto e fare consumare benzina. Per raggiungere il primo obiettivo sostiene sia la dipendenza del modello insediativo dalla mobilità privata su gomma, che facendo percorrere più chilometri consuma le auto, sia il ricorso all’introduzione sul mercato di modelli sempre nuovi, accattivanti, che inducano all’acquisto. Per il secondo obiettivo produce macchine che consumano molta benzina, aumentando (inutilmente, visti i limiti di velocità imposti e la ragionevolezza dell’uomo) le prestazioni in velocità e in potenza e aumentando la grandezza e il peso del veicolo.
Per sostenere questi obiettivi organizza campagne di promozione enormi che suggeriscono modelli di vita: è possibile che ci siano alcuni che hanno fatto più figli solo per comprare automobili più grandi?
Per l’industria dell’auto il risultato è soddisfacente, tanto che nei paesi ricchi il capitolo di spesa afferente le auto è il secondo dopo l’alimentazione come incidenza sul bilancio della famiglia media; e non per un anno, ma per una vita.
Ripetendo con insistenza che dall’industria dell’auto dipendeva la sorte dell’occupazione di interi paesi, hanno indotto a credere che l’esborso di denaro che veniva regolarmente richiesto ai consumatori fosse anche una sorta di partecipazione solidale alle sorti dei lavoratori.
Ma oggi non vi è relazione tra merce e occupazione: pochi occupati possono fare molte merci e oggi non possiamo vantarci di non avere disoccupati nonostante siamo abboffati di auto. Comunque in Italia vi sono più forestali che addetti al settore auto, eppure nessuno ci ha mai invitato a piantare alberi per mantenere gli occupati.
Mantenersi la macchina vecchia, ridurre i chilometri percorsi.
È difficile farlo? È una libidine irrinunciabile?
Eppure…


Il mercato dei figli

I figli sono merce. Sono merce in gran parte del mondo perché vendibili e acquisibili, ma sono merce nei paesi ricchi perché ampliano il mercato e le sue potenzialità.
Ridurre il numero degli individui implica di fatto ridurre il numero dei consumatori, e questo diviene preoccupante per il mercato quando si raggiunge il massimo degli acquisti possibile pro-capite.
Ma i figli, nei paesi ricchi, sono una delle condizioni di massima concentrazione della domanda di merci: crescono, e quindi anno per anno cambiano abitudini e quindi prodotti necessari, sono sottoposti in modo massiccio alle pressioni delle mode e della pubblicità, e quindi spessissimo diventano veicoli tenaci della richiesta di prodotti di consumo.
La pubblicità stimola oggi più delle chiese e degli stati alla procreazione. Maggiore è il numero di figli e maggiore è il mercato, maggiore il numero dei figli e più forte è uno stato, più grande una chiesa, più potente un esercito. In questo si rilegge la brama quantitativa che è alla base della nostra società: di più è meglio che di meno.
Non è vero.
Tenere i figli fuori dal mercato, pensare al pianeta come una collettività unica, diversa ma con alcuni grandi problemi comuni.
È difficile farlo? Avere tanti figli è troppo appagante? Com-prare merci per i propri figli e fare dei propri figli una merce è soddisfacente? Sentirsi genitori solo dei propri figli carnali è indiscutibile?
Eppure…


Un mondo che non c’è

I settimanali, le riviste di moda, di costume, di critica, i rotocalchi, sono pieni di immagini di uomini e di donne che non corrispondono certo ai cittadini del mondo, ma neppure a quelli dei paesi ricchi.
In una piazza, in un bar, in una stazione, al nord, al sud, non ci sono gli uomini e le donne presenti nelle riviste, non ci sono le loro espressioni, i loro usi, i loro problemi. Quello che c’è dentro quelle pagine non c’è fuori, e quello che c’è fuori non c’è dentro.
Fuori di quelle pagine altra è la bellezza, altre le attività, altra la ricchezza, altri i problemi, altro il fascino.
Un mondo che non c’è ben separato da quello esistente e di cui si testimonia la possibile realtà attraverso le immagini costruite negli studi fotografici.
La concretezza paradossale è data dalla tendenza da parte degli individui di apparire come quelle immagini e di uniformarsi ad esse.
Sono infatti immagini a cui tendere, che servono a commercializzare merci.
Gran parte dei rotocalchi è fatta di pubblicità, a cui viene assegnata la pagina di destra, quella maggiormente visibile, supportata da articoli di costume che non fanno che confermare il messaggio indotto dalla pubblicità.
Dicono questi settimanali ben oltre quello che sostengono a parole, dicono quanto essi siano strumento di supporto al mondo delle merci. Dicono quando mostrano, dicono quando regalano oggetti inutili, dicono quando vendono la pubblicità.
Non comprarle, non comprarne tante, leggerle usate riduce il consumo di carta, non alimenta il mondo delle merci, riduce. Si possono selezionare altre riviste, senza pubblicità, o si possono stimolare gli editori a una maggiore attenzione.
È difficile da fare? È un passatempo irrinunciabile?
Eppure…


Un panino da casa

Un panino fatto giorni prima (fatto mesi prima?), con prosciutto o formaggio addizionato, conservato, farcito con crema di ignoto, immerso in un gas, chiuso in un contenitore di plastica etichettato, presentato come per alimenti, riscaldato da un forno a microonde.
Decine di milioni di panini così invadono le stazioni ferroviarie, gli aeroporti, alcuni grandi nodi dove si concentrano grandi quantità di potenziali fruitori distratti, indaffarati, affamati, rapidi.
Anni addietro nei treni passavano venditori abusivi di panini. Panini di giornata, con formaggio o salame, avvolti in carta. Furono nel tempo guardati, panini e venditori, come segno di sottosviluppo. Non garantivano la qualità. Erano plebei. Certamente la sera riciclavano il formaggio non venduto. Ora la qualità industriale è garantita.
Comprate le concessioni, perseguiti in termini di legge gli abusivi (nelle stazioni hanno tolto anche le fontanelle per evitare di ridurre il mercato delle acque minerali), vinta la concorrenza di piccoli bar ed alimentari, l’alimentazione nel mondo del viaggio è in mano a pochi gestori.
Ma l’alimentazione esterna alla residenza è in gran parte gestione e quindi proprietà di pochi, che garantiscono igiene ed efficienza ma non la qualità, né relativamente ai cibi né per quanto riguarda gli effetti che questi possono comportare.
Non andare nelle grandi catene di ristorazione, preferire il piccolo artigiano.
Portarsi un panino da casa con la frittata (che ha un peso ambientale minore del prosciutto) o con gli avanzi del giorno prima.
Portarsi l’acqua da casa, così da fare intendere che togliere le fontanelle non vuol dire aumentare automaticamente il mercato.
È difficile farlo? È troppo imbarazzante?
Eppure…

Una vacanza a casa

Le vacanze: altro modo di consumare merci, merci naturali.
Le vacanze vendono luoghi, paesaggi, ambienti intatti, società ospitali. Vendono i luoghi trasformandoli in quello a cui servono: infrastrutture, alberghi, autoveicoli, banche, impianti di risalita, piste da sci, pontili, ombrelloni, bar, ristoranti, windsurf, moto d’acqua, piscine, gatti delle nevi, negozi, trampolini, piste su ghiaccio, residenze.
Ogni volta che un luogo diviene turistico si trasforma, perde la sua naturalità, che è quello che lo ha reso di interesse, e viene adattato all’immagine standard del turismo globale.
Ogni volta che una persona va da turista in un luogo conferma la necessità di quelle infrastrutture.
Per il proprio piacere destruttura, danneggia ambiti pregiati, aumenta la dipendenza di quei luoghi da fattori esterni alla sua caratteristica, esporta un modello la cui limitatezza è evidente anche nei paesi più ricchi.
Attua una razzia.
E più il soggiorno è breve, più è attuato in strutture organizzate ed aliene dal contesto, più è lontano e maggiore è il peso ambientale e sociale della sua presenza.
Ci si muove sempre di più. Sempre più breve la permanenza, sempre più lungo il tempo della percorrenza.
Allungare le vacanze, stare nei luoghi più a lungo, conoscerli, partecipare ad essi, contribuire alla comunità.
Non andare in paesi lontani, in luoghi incontaminati, in strutture organizzate, per poco tempo.
È difficile farlo? È troppo angosciante lo stare?
Eppure…


Immersi negli oggetti

Un indiano Lakota non possedeva più di 200 oggetti, inclusi gli attrezzi, componenti dell’abitazione, armi e vestiti.
Noi viviamo immersi negli oggetti. Alcuni di questi hanno una funzione, altri sono assolutamente inutili.
Il decimo orologio, il ventesimo accendino, la centesima penna a sfera, il quarto cellulare, la terza televisione, il diciottesimo elettrodomestico, le bomboniere, i pensierini affettuosi, i ricordi di viaggio, i soprammobili, i servizi da caffè, le attrezzature per i numerosi sport, le riviste, gli impianti per la musica, le radio, i computer, gli attrezzi per i mille passatempi, etc.
Tutti oggetti che noi compriamo, ci facciamo regalare, ci regalano, mossi dal piacere di un attimo, dallo sfizio, del gusto irrefrenabile del bambino viziato che vuole un gioco nuovo, lo usa pochi minuti e ne cerca subito un altro.
A questi si aggiungono le promozioni commerciali, le “merci gratis”: giornali, riviste, hamburger, salvagenti, pareo, cd, film, libri, formaggini, etc.
Le case diventano sempre più piccole e il numero degli oggetti diventa sempre maggiore, in una sorta di parossismo collettivo.
Scegliere quegli oggetti che effettivamente rappresentano qualche cosa, che ci possono accompagnare nel ricordo o nel piacere, in un numero limitato. Lasciare le offerte e i regali. Andare nei luoghi per vedere, capire, sentire ma non comprare.
È difficile farlo? Non vi sono antidoti al morbo dell’acquisto?
Eppure…

Uno strumento appropriato

Il grande sviluppo delle tecniche è sicuramente uno dei dati caratterizzanti il nostro tempo.
Gran parte delle innovazioni sono dettate dalle caratteristiche del mercato e dalla necessità di immettervi nuove merci competitive, gran parte di queste merci è predisposta per il consumo individuale. Telefoni cellulari, che nelle successive evoluzioni divengono anche telecamere, registratori, strumenti di scrittura, computer che trasmettono musica e immagini; computer e televisioni sempre più connessi in una unica rete, sistemi per ascoltare la musica sempre più sofisticati, elettrodomestici elettronici, etc. sono alcuni esempi di un apparato in cui la tecnologia è lo strumento principale per fare vendere la merce.
Il computer con cui si scrive ha una potenza pari o forse minore a quella che fu necessaria per mandare nello spazio i primi satelliti, eppure per gran parte dell’uso che se ne fa essi sono solo macchine da scrivere, calcolatrici o motori per videogiochi.
Coglie serio il dubbio che lo strumento sia leggermente sovradimensionato rispetto a quello a cui realmente serve.
Un autoveicolo di cinquemila di cilindrata che supera i 270 chilometri all’ora e raggiunge i 100 km in tre secondi non è appropriato alla nostra necessità di movimento urbano, dove la media è 15km all’ora; una grande automobile fuoristrada, lunga più di cinque metri, con delle ruote alte un metro e spesse quaranta centimetri, pesante una tonnellata e mezza e con una portata di quasi una tonnellata non è appropriata per andare a comprare una spesa di venti chili; uno spremiagrumi elettrico di acciaio e plastica che consuma un kw, che ha bisogno di essere montato e smontato, pulito e ripulito prima e dopo l’uso, non è appropriato a spremere un limone.
Forse non è necessario cambiare il nostro computer, l’automobile, il cellulare, il lettore ogni tre anni per comprare il modello più recente, più potente, con maggiore adattabilità perché già quello che abbiamo non lo usiamo completamente.
Non solo la tecnologia è una merce ma i prodotti non sono appropriati.
Rallentiamo la sostituzione. Manteniamo gli strumenti che possediamo, facciamoli invecchiare, innoviamoli in ritardo. Rallentando non diverremo noi stessi promotori del processo. Il mercato è sensibile e rallenta l’innovazione delle merci se non incontra un adeguato riscontro.
È difficile farlo? Non possiamo aspettare un po’ e vedere se possiamo farne a meno?
Eppure…

Un bicchiere di plastica

Un oggetto semplice, apparentemente inoffensivo ma che lentamente sta sostituendosi ai bicchieri di vetro.
È più comodo, ovvero evita al gestore del bar di utilizzare la lavastoviglie, al barista di pulire i bicchieri. È più comodo, ovvero evita a casa di lavare i bicchieri, si mantiene la cucina più ordinata e si rigoverna con facilità.
Ma quanti miliardi l’anno di bicchieri di plastica si consumano? Quante migliaia di tonnellate di plastica vanno a discarica dopo un uso di qualche secondo: un sorso d’acqua, al massimo un pasto.
E quant’è il costo ambientale del processo produttivo e dello smaltimento del rifiuto?
Quanti operai ci vogliono per produrre questi miliardi di bicchieri? Pochi, pochissimi, enormemente meno di quelli necessari a fare altrettanti bicchieri in vetro.
E quanti baristi in meno servono visto che non hanno nulla da lavare? Tanti, tantissimi.
Ed allora questo oggetto semplice, apparentemente inoffensivo, comporta in realtà significativi effetti negativi nell’ambiente e nella società.
Ed allora che cosa ci vuole a sciacquare un bicchiere di vetro, usandolo per una decina di anni, e dov’è la difficoltà a chiedere al bar una tazzina di ceramica, che si usa per decenni, sapendo che si sta agendo per salvare il posto di lavoro forse proprio all’infastidito barista? Che cosa ci vuole a non consumare nei luoghi dove si serve solo nella plastica o in contenitori monouso?
È difficile farlo? È troppo impegnativo?
Eppure...

Un gran caldo

Tra auto di cilindrata sempre più elevata e facendo sempre più chilometri, utilizzando una quantità di energia di origine fossile enorme e scaricando inquinanti a tutto spiano, ansimiamo dal caldo.
È possibile che non si riesca a collegare l’uso degli autoveicoli e dell’energia fossile al riscaldamento del pianeta?
Una volta fatta questa connessione, fulminati dalla consapevolezza, dovremmo scendere dalle nostre auto e abbandonatole dove sono, muoverci a piedi, in bicicletta, sui pattini, a cavallo.
Ma ciò non avviene. Persone del tutto normali, pur consapevoli del problema, nel momento in cui scelgono il loro autoveicolo guardano la forma, la velocità, il prezzo, gli accessori, la dimensione.
Gli autoveicoli con i loro motori a scoppio ma anche, seppur in maniera molto minore, con le lamiere, sono dei riscaldamenti mobili.
Eppure persone ragionevoli comprano autoveicoli di cilindrata sempre maggiore, eppure persone ragionevoli ogni anno fanno migliaia di ore in fila in macchina per andare a lavoro o peggio per andare in vacanza, senza un dubbio, senza un’idea di mezzo alternativo, eppure persone ragionevoli consumano energia elettrica come se la sua produzione non avesse alcun effetto nell’ambiente e poi sulla loro salute.
Fare meno chilometri con le auto, scegliere le cilindrate piccole a maggiore efficienza, andare più piano (per consumare meno), andare a piedi per piccoli percorsi, ridurre l’uso degli elettrodomestici.
È difficile farlo? Siamo troppo dipendenti?
Eppure…

La conoscenza indotta

Il televisore è una macchina fantastica. Attraverso di esso si vedono cose mai viste, ci si può rilassare, distrarre.
Meravigliosa e incantatrice, la televisione ci mostra il mondo e ce lo racconta senza che noi ci si debba muovere dalla nostra poltrona; in realtà altera la nostra conoscenza e la nostra capacità di relazione, modificandoci la cultura e i criteri di osservazione, presentandoci contesti ignoti e con i quali non possiamo relazionarci.
Definisce la nostra cultura impregnandola di fattori estranei e arbitrari, non connessi alla nostra esistenza se non attraverso la sua mediazione.
Passivi, persi in una quantità di immagini paurosamente grande, delocalizzati, ci componiamo una conoscenza del mondo attuata con una specie di “settimo senso”: una visione molto più ridotta come estensione ottica dell’immagine oggettiva, ma incui ci immedesimiamo di più che in qualunque situazione oggettiva che comprenda tutti gli altri nostri sensi.
Alienati, in sintesi. Inquinati di immagini.
E proprio per questo la meraviglia e lo stupore, qualità elette dell’uomo di fronte al mondo, sono quasi esclusivamente utilizzati dalla televisione per veicolare merci e per sostenere e normalizzare un modello insostenibile.
È possibile immaginare che non si comprino i prodotti pubblicizzati?
È possibile immaginare che non si guardino programmi e reti che si comportano in maniera ambientalmente e socialmente scorretta, sostenendo o facendosi sostenere da merci e da comportamenti aberranti e dannosi?
È difficile farlo? Siamo troppo assuefatti?
Eppure…

Un vestito usato

Il livello di spreco di un popolo si può desumere da quanto le merci che esso butta sono ancora interessanti per altri.
In gran parte del mondo una moltitudine di persone setaccia le discariche alla ricerca di cibo e merci utilizzabili.
Anche noi bisogna incominciare a cercare nelle nostre discariche. In primo luogo in quelle di casa, evitando di buttare materiali ancora utilizzabili e prima ancora di acquisire merci che già sappiamo non utilizzeremo a lungo. In secondo luogo mettendoci nella condizione di essere disponibili all’uso di merci che altri hanno buttato ma che rispondono alle nostre esigenze.
Queste non saranno forse esattamente uguali a quelle che avremmo comprato ma adattarle alle nostre esigenze ed adattare le nostre esigenze ad esse fa parte di una intelligenza operativa che ha caratterizzato da sempre l’agire umano.
Armadi, specchi, automobili, libri, riviste, vestiti.
Nei numerosi mercatini domenicali affluiscono vestiti usati dei paesi più ricchi di noi e di persone maggiormente avvezze allo spreco.
Maglioni, camice, calzoni nuovi o praticamente nuovi colpevoli di avere, al massimo, piccole macchie asportabili, scuciture ricucibili, bottoni mancanti sostituibili, minuscoli buchi rammendabili. Spesso merce di grande qualità che mantiene immutata la sua efficienza ma è considerata importabile.
Forse è opportuno tralasciare i mercati dei prodotti della nuova moda (chi sa perché la moda cambia di stagione in stagione?) e recuperare almeno parzialmente mercati meno frenetici connotati da quella capacita di adattare e di adattarsi che rende minimo lo spreco.
Mantenere i proprio vestiti a lungo, comprare anche vestiti usati e usare le merci smesse da altri.
È difficile farlo? È troppo da poveracci?
Eppure…


Condizionarsi l’aria

L’aria è il primo bene comune degli uomini, indispensabile e uniformemente diffuso su tutto il pianeta.
La disabitudine della nostra civiltà a provvedere con mezzi semplici alle diverse condizioni poste all’uomo dal clima (scegliere abiti più idonei, isolare adeguatamente le abitazioni, adattare i tempi del lavoro alle condizioni esterne) e l’affidamento sempre più esteso alla tecnologia per la risoluzione dei problemi, hanno fatto sì che anche l’aria, in qualche modo, sia divenuta merce: riscaldata, raffreddata, depurata, in una parola: condizionata.
Le temperature sono aumentate mediamente di pochissimo, un pochissimo sufficiente ad alterare i sistemi naturali ma non ancora a danneggiare gli uomini, specialmente quelli residenti nelle zone temperate.
L’aumento della temperatura ha fatto sì che in alcuni giorni dell’anno essa sia pesante da sostenere. Ma questo disagio, in realtà riferito a un periodo brevissimo, ha indotto la collettività a ritenere che l’unica soluzione sia l’installazione di impianti di condizionamento, che però procedono a funzionare con il calendario, e non con il termometro. E si assiste all’assurdo per cui, per entrare in un supermercato o in un negozio, bisogna coprirsi, mentre fuori c’è una temperatura invidiabilmente mite.
La presenza diffusa di questi impianti fa sì che intere zone, luoghi e strade prima vissute regolarmente, si siano trasformate in fornaci insopportabili grazie alle emissioni dei condizionatori, che, notoriamente, freddano dentro e scaldano fuori. Per di più la fornace è rumorosissima e niente affatto discreta visivamente.
La risposta ad un esteso disagio, ma ridotto nel tempo, invece di portare ad una riduzione dei movimenti e quindi del lavoro e dei consumi, invece di essere volta alla messa in opera di sistemi passivi, ambedue soluzioni che riducono le emissioni e il riscaldamento globale, per difendersi in quei pochi giorni, è di acquisire apparecchi di condizionamento.
Milioni. Decine di milioni.
Ciascuno di questi rinfresca l’aria interna ma sputa fuori calore: consuma energia e aumenta l’effetto serra, cioè il maggiore responsabile dei disagi climatici.
Una risposta imbecille. Senza scusanti.
Rappresentazione del benessere fittizio individuale e menefreghista che questo mercato produce.
Chiudere gli impianti di aria condizionata, ingegnarsi, per esempio, con tende, vegetazione, aumento della coibentazione di pareti e superfici vetrate per eliminare questa nuova e indotta sudditanza.
È difficile farlo? Non riusciamo più ad adattarci al variare delle condizioni ambientali?
Eppure…

Un amico coltivatore

Quando si mangia un pomodoro fa piacere sapere che esso è stato coltivato senza l’uso di sostanze chimiche dannose alla nostra salute, vicino al luogo dove noi lo consumiamo, senza quindi essere trasportato con grande consumo di energia, che è stato coltivato senza sfruttare nessuno, che è stato colto al tempo giusto senza “svernare” nelle celle frigorifere o negli impianti di maturazione a gas.
Fa piacere sapere che non è stato pompato di acqua e di ormoni, che è cresciuto nel luogo adatto alla sua crescita usando l’energia del sole, non forzato da serre né da impianti per l’anticipazione della maturazione. Fa piacere mangiare un pomodoro nel tempo dei pomodori e fa piacere mangiare un pomodoro che è stato coltivato con cura sapendo che chi lo mangerà avrà piacere a mangiarlo perché riconoscerà la qualità del lavoro svolto ed il piacere che un pomodoro, quel pomodoro, sa dare alla nostra esistenza.
La merce pomodoro industrializzato questo non lo potrà mai garantire.
Essa al massimo ci assicurerà di non avvelenarci immediatamente ma non chenon abbia usato nei processi produttivi sostanze che con il tempo ci danneggeranno. Tutto il resto è estraneo al pomodoro industrializzato.
Allora per noi è importante connettersi a chi direttamente produce per noi con la qualità che richiediamo e che solo conoscendoci egli potrà garantirci.
Un amico che fa i pomodori.
Cercarli, sostenere le piccole produzioni. Fuori dal mercato industrializzato, costruendo relazione dirette.
È difficile farlo? Non abbiamo più il piacere di quel pomodoro?
Eppure…

Soldi da soldi

C’è chi fa soldi sui soldi.
In una società di merci il denaro assume un’importanza smisurata. Il denaro stesso diventa una merce e il guadagno maggiore è il guadagno sul denaro.
Perché investire nelle borse e cercare di arricchirsi con esse? Non da un senso di irrequietezza l’eventuale aumento dei capitali? Non ci viene in mente che proprio a quei soldi possano corrispondere prelievi indiscriminati di risorse, speculazioni scorrette con popolazioni, ed impoverimenti di qualcun altro?
Per aumentare il totale del mercato hanno privatizzato e quindi immesso nel mercato elettricità, acque, gas, petrolio, foreste, pascoli, proprietà comuni, tutti beni dell’umanità prima che di chiunque altro e solo attraverso di essi la quantità delle transazioni è aumentata. E poi è aumentata fittiziamente sull’aumento ottenuto.
Attraverso questo meccanismo si sono arricchiti i ricchi e impoveriti i poveri, si sono svendute le risorse naturali e culturali, si è speculato sul benessere immettendo sul mercato quelli che erano servizi comuni.
Che ha a che fare con questo mondo un impiegato, un artigiano, un piccolo imprenditore? Non lo governa, sa solo quello che alcuni vogliono che si sappia e, attenzione, quando vogliono che si sappia. Che abbiamo a che fare con questo mondo che si astrae dalle necessità e dal piacere degli uomini per traslare ogni interesse su un oggetto convenzionale come il denaro e che pone a ragione fondante di ogni decisione la capacità di produrre denaro?
Ma sono i ricchi a possedere il denaro e a produrre denaro con il denaro, e applicare questo unico parametro è una iattura per tutta l’umanità.
Ridurre il gioco sul denaro. Non utilizzare le carte di credito, ridurre i servizi bancari, controllare dove vanno a finire i nostri soldi (per esempio sarebbe bello che non finanziassero le armi e le guerre), porre i risparmi in banca etica o in cooperative sociali, non speculare in borsa.
È difficile farlo? Il nostro patrimonio finanziario ne trarrebbe nocumento?
Eppure…


La panacea delle norme

Nello scombinamento prodotto dalla grandezza e dalla penetrazione del mercato unico e dalla stravolgente quantità e tipologia di merci, di azioni, di servizi in vendita, le norme divengono una panacea.
Si regolamenta tutto e gli utilizzatori sono garantiti dall’applicazione delle norme.
Ma le norme possono essere sbagliate. In particolare quelle che riguardano le merci sono sbagliate in quanto definite appositamente per garantire gli interessi delle grandi compagnie.
Così, ad esempio, in campo alimentare il fatto che i cetriolini in salamoia debbano tutti essere dritti e simili per peso e forma per rispondere alle norme di qualità europee ha tolto di mezzo i produttori non industrializzati che nonriescono a garantire quel livello di uguaglianza tra i cetrioli. Così il gelato artigianale, o il salame tagliato a mano, o il famoso lardo di Colonnata (per cui è stata cambiata la norma) sono tutte merci fuori legge.
Le norme che afferiscono le merci hanno favorito e favoriscono una visione del mondo, industrializzata e omogenea, che elimina le tecniche locali e la cultura produttiva sostituendo tutto con prodotti uguali, asettici, ma non per questo salubri. In questo vengono favorite le grandi produzioni e il modello praticato dalla concentrazione della produzione e dalla distribuzione capillare dello stesso tipo di prodotto.
Questo apparato normativo non garantisce i cittadini. Bisogna dunque controllare al di là delle norme ed essere critici, diffidando, comprendendo le motivazioni da cui le scelte normative sono derivate, cercando di sostenere le merci che mantengono caratteri ambientali e sociali corretti.
È difficile farlo? È un’ulteriore fatica?
Eppure…

Il mito del progresso

Nella nostra cultura contemporanea il mito del progresso esercita una grande capacità di attrazione.
Forse l’impulso dato dai movimenti sociali nati nell’ottocento verso una fiducia nelle armi del progresso per il miglioramento delle condizioni dell’uomo (fiducia che a tratti si è radicalizzata in fede), forse il retaggio dell’illuminismo che costruisce pragmaticamente l’affidamento alla scienza e alla tecnologia per costruire un futuro migliore per l’uomo, sono i motivi che hanno fatto sì che la nostra società costruisse la sua immagine proiettata nel futuro: tutto ciò che è nuovo è automaticamente buono, tutto ciò che è moderno è di fatto migliore e preferibile all’antico.
Questo dogma, mai palesemente espresso ma del tutto implicito nel costume sociale, fa sì che il mercato, che è l’espressione principale della nostra società, si avvalga di continui e imprescindibili richiami al “nuovo”, al “moderno”, al “tecnologicamente avanzato” per incrementare le vendite e i consumi.
Il futuro, identificato con il progresso, viene anticipato anche come immagine di riferimento, e la maggior parte delle persone sembra adeguarsi a questa proiezione, cercando di somigliare a quella immagine, come se essa fosse l’ineluttabile condizione del futuro. L’ade-guamento passa, ovviamente, per l’acquisizione di merci che di quella proiezione sono i tratti identificanti. Sicché ci si sente moderni e anticipatori del futuro se si possiede l’ultimo modello tecnologico di una certa cosa. Sentirsi così equivale a sentirsi “adeguati”. L’immagine del nostro futuro viene costruita nei laboratori della pubblicità.
Naturalmente non ci viene detto, per esempio, che l’ultimo modello di televisore in realtà è già ampiamente superato dalla tecnologia, e che non ci daranno in pasto l’ultimo modello finché tutti non avremo acquistato quello già vecchio.
Potrebbe essere più interessante costruirci da soli la “nostra” immagine del futuro, scoprire che potrebbe non somigliare per niente a quella della pubblicità, scoprire che potrebbe essere infinitamente più bella e affascinante.
Rifiutare di assomigliare agli androidi della pubblicità, sottrarsi alla mercificazione, sottrarsi ai comportamenti teleguidati, scegliere un’altra via in cui riconoscersi e riconoscere gli altri, esercitarsi ad inventare quello che potremmo essere.
È difficile farlo? È talmente gratificante sentirsi adeguati al mondo che ci propongono? È quello il mondo futuro che vorremmo?
Eppure…

Eppure…

sembrano atti alla nostra portata. E lo sono. Piccole azioni quasi quotidiane che potrebbero modificare le relazioni tra il sistema delle merci e gli utilizzatori e quindi modificare il mercato con tutte le implicazioni ambientali e sociali che ciò comporterebbe.
Il sistema di mercato è il tallone d’Achille della nostra società, il punto di maggiore vulnerabilità. Se i criteri che ci vengono proposti come modelli sociali ci appaiono insostenibili, è necessario pensare che la loro modificazione non è necessariamente affidata ad una titanica ricostituzione di un modello diverso, ma potrebbe essere validamente e concretamente avviata dall’acquisizione di comportamenti diversi dai previsti, e che vadano ad incidere proprio sul lato “debole” della struttura: il mercato. E riappropriarsi così della dignità delle proprie scelte e della libertà di compierle.
Per un gruppo di persone di un villaggio africano basta una capra per modificare integralmente la propria esistenza, e non per un tempo determinato ma per sempre. Forse per noi, abitanti dei paesi ricchi, non basta così poco, ma sicuramente abbiamo anche noi la nostra “capra” che modifica il grande sistema in cui siamo inseriti e che oggi appare a molti unico, insuperabile e come tale fagocitatore e senza alternative.
Oppure si ritiene che comunque ce la caveremo, che la specie umana, grazie alla tecnologia, riuscirà a trovare soluzioni atte a farci continuare questo cammino basato sullo sfruttamento insensato di uomini e natura, per permettere a pochi privilegiati di continuare il proprio standard di vita?
È possibile. Ma è proprio questo cammino, indipendentemente dalle sue possibilità, che si vuole evitare di percorrere, costituendo oggi, e non in un imprecisato e sempre posticipato futuro, le condizioni per permettere la vita (e non solo la nascita) delle persone.
E per fare questo non è possibile delegare ad altri o al futuro il compito ma bisogna divenire parte attiva attraverso il nostro corretto agire.
Vogliamo credere che si sia in molti a pensare che questo “modo” non è possibile, che non è giusto, che non può essere condiviso. Per questo abbiamo voluto con semplicità riflettere criticamente sulla possibilità, attraverso comportamenti più attenti, di non essere strumenti di sostegno ad un modello che porta nel mondo miseria, sopraffazione, danni all’ambiente, alle comunità e alla salute.
Perché non dovremmo esser attenti? Attenti come lo siamo stati per millenni ai segnali della natura, attenti agli altri uomini, attenti ai luoghi. Perché oggi dovremmo deporre questa capacità di discernimento ed attenzione sulla quale abbiamo sviluppato la nostra intelligenza e la nostra tecnica? Porre attenzione alle cose che si fanno, capirne il senso, considerarne gli effetti, l’efficienza, la correttezza.
La correttezza rispetto ad alcuni criteri sulla base dei quali discernere quello che è congruo fare e quello che può essere evitato. Criteri sulla base dei quali è possibile esprimere un giudizio sui comportamenti.
Allora, ogni qual volta ci viene presentata una merce, sia essa nuova o innovativa, sia essa necessaria o utile, le domande che bisogna porci sono: qual è il suo impatto nell’ambiente?
Riduce l’urto imposto alla natura e al territorio rispetto alla soluzione precedentemente adottata? Quanto la sua fabbricazione, il suo uso, la sua dismissione migliora le condizioni dell’ambiente rispetto a quelle attuali?
quante persone fa lavorare?
Si è ricorso a processi industrializzati a basso uso di manodopera? Se è una merce prodotta in grandissime quantità, quale è stata l’incidenza del lavoro umano e quanto sarebbe stato possibile trovare soluzioni alternative?
quanti sono i beneficiari economici?
I profitti della produzione, distribuzione e commercializzazione sono concentrati in pochi soggetti o sono distribuiti equamente nella comunità?
Quanto esprime la cultura di una comunità?
Quanta tecnica specifica è conservata nella merce? Quanto l’oggetto contribuisce a far permanere la conoscenza tecnica nella comunità e la sua autonomia produttiva?
Ben sapendo che i problemi maggiori del nostro pianeta sono collegati ad un ambiente depredato, alterato e distrutto, alla mancanza di lavoro, alla concentrazione dei profitti, al depauperamento culturale ed asservimento delle comunità, se una merce ha un peso ambientale elevato, se la sua produzione fa lavorare poche persone, se aumenta la concentrazione dei profitti, se non esprime la cultura e la capacità propria di una comunità non è una merce che ci possa interessare.
Essa è una merce che fa male, fa male ad altri uomini, induce povertà e asservimento, fa male all’ambiente, distruggendo gli ecosistemi, e proprio per questo non va utilizzata.
E proprio in questo non utilizzo è anche richiesto il nostro discernimento.
Un altro modo è possibile.

Questo opuscolo è stato prodotto da Antiglo - antiglo@email.it

Le attività svolte da @ntiglo si propongono di contribuire alla diffusione di alcuni temi, secondo noi importanti per l’elaborazione di un modello critico nei confronti dell’attuale momento storico, temi che, seppure fortemente presenti in vasti ambiti della coscienza critica internazionale e vivamente trattati e dibattuti, non sono ancora patrimonio esteso della comunità.
La forma che abbiamo scelto di seguire nell’esporre queste tematiche tende a sottolineare l’importanza del comportamento individuale all’interno di una dinamica più generale che mira ad opporsi ad un “modello globale” di società quale è quello che ci viene proposto o imposto, convinti che il carico di iniquità, pericolosità e arbitrio che implica per gli uomini e l’ambiente non può trovarci in nessun modo concordi.
Azioni e comportamenti che suggeriamo sono caratterizzati dal desiderio condiviso di non subire un modello ingiusto e di ricercare soluzioni praticabili oggi, in presenza del modello, senza rimandare il buon vivere a momenti futuri. Per quanto possibile. Senza forzare le convinzioni ma con la forza delle convinzioni, senza uso della violenza, senza martiri né martirii. Fin quando sussiste anche una minima possibilità di operare sul convincimento.
I materiali di @ntiglo sono fuori dal mercato. Sono, fin quando rimangono copie, gratuiti, sono scaricabili dal sito, sono riutilizzabili fin quando si vuole con la sola richiesta di citare la fonte e gentilmente comunicare dove si sono utilizzati.
Per contattare antiglo@email.it

Un altro modo è possibile
Testi di Adriano Paolella e Zelinda Carloni
Grafica di Paola Venturini

Supplemento al n. 287 (febbraio 2003) della rivista mensile anarchica “A”, direttrice responsabile Fausta Bizzozzero, registrazione al tribunale di Milano n. 72 in data 24.2.1971, stampa e legatoria Sap s.n.c. (Vigano di Gaggiano - Mi).

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