Gli ultimi giorni dell’appena
trascorso mese di gennaio sono stati doverosamente dedicati
in tutta Europa alla commemorazione dell’Olocausto.
Ho visitato i posti in cui si è consumato appena qualche
anno dopo la conclusione del conflitto mondiale e le immagini
che mi si sono mostrate nei campi di Auschwitz di Treblinka
di Belzec, con le baracche di legno corrose dall’umidità,
i tavolacci disposti a castello lungo le pareti, i cortili fangosi,
i forni crematori ancora intatti con le ciminiere annerite credo
che me le porterò dentro sino alla fine dei miei giorni.
So bene che quel terribile genocidio non fu il primo né,
purtroppo, l’ultimo: basta ricordare quello degli Armeni
che lo ha preceduto e l’altro dei Curdi che lo ha seguito,
per citarne soltanto due, Ma l’olocausto, scientificamente
organizzato contro ben sei milioni di ebrei ha questo di veramente
inedito e tragico: che ha inaugurato una stagione di stermini
motivati non più da conflitti religiosi o di potere,
bensì da un radicale, feroce odio per il diverso, per
chi ha una visione del mondo diversa e non crede nei valori
assoluti della giustizia e degli ordinamenti socio-politici
che si intendono imporre con la brutale violenza delle armi
e delle torture. Inoltre è la prima volta nella storia
che le inenarrabili vicissitudini di un popolo avviato all’estinzione
sono puntualmente documentate da registri, mappe, modalità
operative, archivi fotografici e filmati, realizzati con agghiacciante
puntigliosità dalla follia omicida della Germania nazista.
Nessuno, quindi può far finta di non sapere o di esorcizzare
l’orrore illudendosi che si tratti di forzature dei vincitori
a discapito dei vinti, come vergognosamente una certa storiografia
d’accatto ha tentato (e tuttora tenta) di far credere.
La polveriera mediorientale
Questa tragedia, inscritta nell’immane tragedia della
guerra, generò nei vincitori, ma io direi in vasti settori
dell’opinione pubblica mondiale, l’esigenza di risarcire
in qualche modo il popolo ebraico delle sofferenze patite e
sembrò che il modo più opportuno per farlo fosse
quello di porre fine alla millenaria diaspora, consentendo agli
scampati dei campi di sterminio e agli altri ebrei sparsi per
il mondo di insediarsi in un territorio tutto loro, nel quale
costruirsi uno stato autonomo. La decisione dell’ONU del
maggio del 1948 di dividere la Palestina, liberando un ampio
territorio da destinare allo Stato ebraico indipendente pose
fine alla questione ma acuì l’ostilità degli
arabi che, con un atto d’imperio, si videro privati di
uno spazio vitale e, per di più, senza che anche a loro
fosse riconosciuto il diritto di uno stato sovrano, cessato
il protettorato inglese della regione.
Potenza delle democrazie occidentali che in assoluto arbitrio
risolvono in emergenza questioni spinose, scaricandone i costi
sui paesi più deboli che non possono reagire, incuranti
delle conseguenze a medio e lungo termine. Così, anche
in questa circostanza, rimarginata una ferita, si apre una piaga
di dimensioni epocali: il Medio Oriente diventerà la
polveriera del mondo, così come i Balcani lo erano stati
per il continente europeo alla fine dell’Ottocento.
Come era prevedibile, considerato lo spirito dei primi insediamenti
ebraici conseguenti agli esiti del Congresso sionista di Basilea
del 1917, concessa una mano, Israele non tardò a prendersi
il braccio, le spalle ed anche qualche costola del territorio
palestinese, giungendo a minacciare da presso la stessa Beirut
in Libano dopo avere allargato i propri confini con la guerra
lampo del 1967.
Non mi pare che possano esserci dubbi sull’esito detonante
che il conflitto israelo-palestinese ha avuto e continua ad
avere sulla destabilizzazione dell’intera area mediorientale,
nel quale conflitto si innestano poi interessi incrociati di
altra natura, primo fra tutti il petrolio. Nel caso specifico
l’America – che sulle varie vicende che abbiamo
tracciato forzatamente a grandi linee ha sempre avuto un ruolo
determinante – ha colto quest’ulteriore occasione
per giocare la partita sia per salvaguardare i propri approvvigionamenti
energetici, sia, in funzione antieuropea, per avvertire i paesi
del Vecchio Continente che avrebbe potuto, se necessario, condizionarne
lo sviluppo.
Arriviamo così alla guerra preventiva ed all’invasione
dell’Iraq, un’operazione maldestra – lo abbiamo
più volte sostenuto – aggravata dalla presunzione
di potere fare tutto da sé, con l’aiuto di qualche
servo sciocco e senza valutare le reazioni di un mondo arabo
già assai prevenuto nei riguardi dell’Occidente
per i trascorsi storici e che correttamente legge l’intervento
in Afganistan prima e in Iraq poi come un ulteriore tentativo
di sottrarre sovranità ai popoli della regione.
Le nuove urne di Bagdad
Bisogna quindi essere totalmente sprovveduti o in perfetta
malafede per interpretare le elezioni irachene del 27 di gennaio
come la volontà di quel popolo di accedere al modello
democratico che si intendeva esportare dall’amministrazione
americana, un modello democratico che era rappresentato in loco
dalle facce assai poco raccomandabili di un Allawi, ex (forse
ex) agente della CIA e dall’ambasciatore Negroponte entusiasta
organizzatore ed esecutore delle più liberticide e sanguinarie
operazioni in America Latina.
È obiettivamente difficile che sia comprensibile per
un popolo di normale intelligenza che un esercito che uccide
in un anno e mezzo oltre diciassettemila civili con azioni militari
indiscriminate possa essere portatore di valori essenziali per
la normale convivenza e per l’esercizio delle più
elementari libertà. Ed è poi altrettanto difficile
ritenere che tutto quanto è accaduto in Iraq non costituisca
motivo di forte preoccupazione per gli altri paesi dell’area,
che, temendo non infondatamente che quanto è capitato
agli iracheni prima o poi possa capitare anche a loro, giustamente
tentano di dotarsi di deterrenti adeguati, riesumando i propri
programmi nucleari. Intendiamoci; sono anch’io, come tutte
le persone che non hanno perso l’uso della ragione, contrario
a tutte le armi, figuriamoci a quelle di distruzione di massa,
all’unica condizione che siano deposte da tutti.
Ma per tornare alle elezioni di gennaio non mi pare che esse
possano essere attendibili, intanto per le condizioni ambientali
in cui si è voluto pervicacemente farle tenere da una
coalizione occupante, ansiosa di avere un’occasione formale
per accelerare il suo disimpegno da un’avventura che è
già costata un prezzo enorme sia in termini di vite umane
(i soli americani hanno perduto sino ad oggi ufficialmente 1.500
uomini ma c’è il sospetto che siano molti di più),
sia in termini economici. È ufficiale il dato che in
alcune regioni del Paese, per ragioni logistiche o per cattiva
organizzazione, si è votato con molte difficoltà
o non si è votato affatto. Poi – e anche questo
è un dato esplicitamente ammesso oltre che constatato
da tutta la stampa internazionale – non c’è
stata alcuna campagna elettorale e, quindi, gli elettori, lungi
dall’esprimere un loro convincimento, o hanno seguito
le indicazioni dei capi religiosi o qualcuno ha condotto la
loro mano a segnare il nome di un candidato sconosciuto.
Non mi pare che il tasso di democrazia di un voto espresso in
queste condizioni sia particolarmente alto, ammesso e niente
affatto concesso che basti una tornata elettorale per parlare
di libera espressione popolare, se, come nel caso di cui parliamo,
è mancata assolutamente una sia pur minima circolazione
delle idee ed era persino impedita la libertà di movimento
del cosiddetto corpo elettorale.
Mentre scrivo non sono ancora noti i dati della farsa, ma già
circolano insistentemente voci di brogli elettorali, che sono
il normale corollario di rappresentazioni di questa natura.
Eserciti stranieri
Tuttavia il fatto che donne e uomini di quell’infelice
Paese siano scesi in strada per raggiungere i seggi elettorali
nelle condizioni che abbiamo tentato di descrivere, con in più
il pericolo di essere falciati dai minacciati cecchini di Abu
Musab al-Zarqawi o dalle autobombe dei kamikaze, una spiegazione
deve pure averla. Fatta eccezione per i curdi (il 17% della
popolazione irachena), che votavano per consolidare la propria
autonomia dall’eventuale governo centrale, autonomia di
fatto già ottenuta e garantita dagli stessi occupanti;
e per i sunniti, che in gran numero si sono astenuti dal partecipare
al voto, per non ratificare una prevedibile vittoria della componente
sciita, resta da capire cosa sia passato per la testa di quanti
– e sono la maggioranza degli iracheni – sono lontani
dalle politiche di potere dei veri contendenti, non sanno niente,
per ovvie ragioni storiche e culturali, di cosa sia una Costituzione
e di quale mandato reale debbano essere investiti gli uomini
chiamati a compilarla: ebbene, io credo che nella testa di quegli
iracheni inermi e vessati sia maturata l’idea che il voto
espresso in favore di propri concittadini, poco importa di che
pasta fossero fatti e di quali valori fossero portatori, servisse
a cacciare dai propri territori gli eserciti stranieri e a recuperare
finalmente una vita da vivere e non da bestemmiare.
Se davvero a questo servisse quel voto, senza esitazione aggiungerei
il mio al loro.
Antonio Cardella
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