Il capitalismo è
stato ed è tuttora la forza che ha prodotto i più
sconvolgenti cambiamenti negli ultimi tre secoli. Quindi è
stato ed è il più radicale evento rivoluzionario
che la storia moderna abbia vissuto.
Esso ha plasmato e modella ancora oggi le ideologie politiche
di destra e di sinistra, sostiene e alimenta ogni forma di immaginario
sociale diffuso, determina le condizioni sociali e culturali
dentro le quali viviamo pressoché in ogni angolo del
pianeta, pianifica e definisce ogni ipotesi e opzione prevedibile
e futuribile.
Il capitalismo, l’industrialismo diffuso (anche nella
sua variante post-moderna dell’era dell’accesso),
trionfa da tre secoli in ogni forma di società con la
quale entra in contatto. Il capitalismo è dunque inevitabile?
La fine della storia è dunque annunciata?
Ma soprattutto è pensabile che si possa uscire ragionevolmente
dal capitalismo?
Se ci limitiamo ad una lettura della realtà superficiale
le risposte a queste domande sono scontate, ma abbiamo il dovere
di scavare un po’ più in profondità.
In un libro di qualche anno fa (1996) Kilkpatrick Sale, ripercorrendo
la storia del movimento luddista in Inghilterra durante la rivoluzione
industriale, magistralmente descriveva la portata sconvolgente
dell’avvento del capitalismo nei confronti di ogni aspetto
della vita degli esseri umani, della società e della
natura (K. Sale, Ribelli al futuro, trad. it. 1999).
Ma Sale si spinge molto più in là e dimostra come
la rivolta di questi uomini, vittime del progresso (o di ciò
che era ritenuto tale), non fu soltanto, o prevalentemente (come
una certa storiografia caricaturale ha sempre voluto farci credere),
contro le macchine, ritenute causa dello sconquasso generalizzato,
ma piuttosto di carattere morale. I luddisti chiamarono in causa
le premesse fondanti dell’idea di sviluppo, vale a dire
la legittimità etica dei principi di profitto sfrenato,
di competizione e innovazione che ne stavano alla base.
Da allora anche altri movimenti o singoli pensatori hanno messo
in discussione queste idee che stanno alla base delle moderne
società, ma si tratta soprattutto di fenomeni isolati,
marginali, con poca capacità (e possibilità) di
modificare il corso degli eventi. Nella stragrande maggioranza
destra e sinistra (compresa quella rifondarola che non sa che
proporre sostanzialmente delle rinnovate e ripatinate ricette
keynesiane) hanno assunto e fatte proprie le parole chiave della
rivoluzione industriale: sviluppo, progresso, profitto, benessere.
La differenza tra le due aree di pensiero (e all’interno
di ognuna di esse) sta solo nelle combinazioni diverse tra i
vari elementi, nell’uso di alcuni aggettivi e nel significato
attribuito alla funzione della politica rispetto al mercato.
Non è certamente poco ma non è sostanziale.
Esplorare nuove vie
Ciò che sarebbe sostanziale è piuttosto assumere
appunto il punto di vista etico e morale come parametro di riferimento,
vale a dire riprendere il significato più profondo e
vero della rivolta luddista. Esiste oggi una corrente di pensiero
che dal rifiuto del sistema capitalistico arriva a sostenere
una sorta di “primitivismo”, vale a dire una specie
di ritorno alla natura (Cfr.: John Zerzan). A ben vedere questa
teoria radicale è uno strumento sicuramente utile ed
importante per leggere il presente e le sue aberrazioni, molto
meno interessante e proponibile quando diventa profezia o peggio
ancora auspicio di una società da costruire. Insomma
la teoria primitivista si presta più ad essere un utile
lettore del presente che un sogno da realizzare. Va ricordato
comunque che proprio il capitalismo e la rivoluzione industriale
hanno prodotto al proprio interno, nel corso della storia, più
volte movimenti di rifiuto radicale che hanno assunto via via
caratteristiche e forme espressive diverse ma sostanzialmente
simili.
Il problema che si pone oggi, più di ieri, e domani si
porrà più di oggi, è proprio quello di
conservare alcune opzioni etiche e morali irrinunciabili, senza
peraltro cedere al fondamentalismo del naturalismo come a quello
dell’industrialismo. Come sempre, si tratta di esplorare
nuove vie, sviluppare diverse opzioni, sperimentare nuove strade,
valendoci di alcuni irrinunciabili principi etici.
Oggi più che mai, di fronte al saccheggio e alla distruzione
ambientale, allo sviluppo incontrollato a fini di profitto della
tecnologia (si pensi alle clonazioni ad esempio), all’enfasi
acritica attorno ai miti del progresso e dello sviluppo, all’avvento
del potere della tecnologia addirittura sulla scienza, mi sento
particolarmente conservatore.
Credo che vada messo in discussione il tema del progresso e
soprattutto quello dello sviluppo. C’è una soglia
oltre la quale progresso e sviluppo si trasformano in strumenti
di dominio, selezione, sfruttamento, ma soprattutto quali sono
le modalità che possono essere messe in atto per fare
in modo che il controllo su questi veri e propri miti sia efficace
e garantisca sempre più una progressiva uguaglianza fra
gli esseri umani?
Ho al contempo la consapevolezza che gli strumenti della democrazia
occidentale, così come ci è data, non sono assolutamente
sufficienti e in grado di rispondere ai miei bisogni di libertà
e di uguaglianza. Ma so anche che il sogno (che può diventare
un incubo) del rifiuto tout-court delle ricchezze e delle opportunità
che la società attuale pure possiede è un’altra
forma di discriminazione e di sofferenze inenarrabili.
Paul
Goodman
Limiti invalicabili
Ecco che proprio l’anarchismo, così come lo intendo
io, prevalentemente pragmatico nella ricerca delle soluzioni,
come fortemente legato all’universalità di alcuni
valori, può aiutarci ad affrontare queste problematiche
offrendoci delle possibili chiavi di lettura della realtà
e al contempo anche strumenti per cogliere le risposte naturali
e spontanee che la stessa società (spesso nella forma
di micro-società) già sperimenta, mette in atto,
organizza. Si tratta insomma, ancora una volta, di non condurre
i nostri ragionamenti alla logica duale propria dell’astrattismo
più assoluto (progresso o primitivismo in questo caso).
Credo che molto umilmente, ma efficacemente, si possa trovare
una possibile soluzione, quantunque sempre provvisoria, nell’affrontare
il tema del progresso definendo di volta in volta dei limiti
invalicabili oltre i quali non andare, con unico riferimento
e spartiacque quello che è proprio e unico dell’anarchismo:
l’aumento o la diminuzione del dominio dell’uomo
sull’uomo. E qui gli esempi che si potrebbero fare sono
tantissimi ma possono essere trovati e praticati da ognuno di
noi nei confronti di se stessi e nel confronto con gli altri
che condividono questa prospettiva. Insomma il progresso non
è un valore in sé, così come il primitivismo
non è un disvalore in sé. Ma ambedue se non valutati
come ho cercato di spiegare diventano degli ostacoli insormontabili
che ci stringono dentro un tunnel senza uscita.
Di fronte ad accettazione (proprie seppur con diversi accenti
di destra e sinistra) o rifiuto (destra e sinistra anche qui
unite) c’è un insieme di possibili e variabili
soluzioni, approssimative, modificabili e modificanti, che possono
e devono essere sperimentate. Inutile insomma pensare a progettare
un uomo nuovo dalle ceneri di un mondo secolare, così
come insostenibile accettare i valori sfrenati che caratterizzano
un rampantismo umanoide. Alcune cose, certi valori, diverse
pratiche devono essere conservate in quanto consone alla natura
umana, alcune addirittura riscoperte e ricercate, altre infine
decisamente rifiutate. E in tante micro-società, in tanti
esempi di vita e di sopravvivenza quotidiana questo avviene
già, ognuno di noi, si spera, è in grado di valutare
di volta in volta se e quanto, ma soprattutto fino a dove, ogni
progresso, ogni tecnologia, ogni sogno può e deve essere
realizzato.
Esiste dunque anche un anarchismo conservatore, indispensabile
oggi più che mai, accanto ad una tensione etica autenticamente
rivoluzionaria.
Ma sia chiaro, come diceva Paul Goodman, bisogna esseri disposti
fino in fondo a rinunciare almeno tanto quanto a desiderare:
“Per il verde dell’erba e le acque chiare dei fiumi,
per gli occhi brillanti e i visi coloriti (qualunque ne sia
il colore) dei bambini, per le persone non costrette a subire
ordini e libere di essere se stesse; per piccole cose di questo
genere io sono disposto a sbarazzarmi di qualunque altro privilegio
politico, economico e tecnico” .
Francesco Codello
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