Nella casa in fibrillazione
della coalizione di centro-sinistra si è cominciata a
consumare una prima comica resa dei conti. Gli ancora convinti
di sinistra, veri presunti legittimati, hanno gridato allo scandalo,
con garbo controllato in verità perché ora il
galateo accreditato rifugge le risse scomposte. L’occasione
si è scatenata a Fiesole, sabato 15 gennaio, al seminario
di Ermete Realacci dove si stava celebrando la pace appena scoppiata
in casa della Margherita. Ormai ufficialmente solo centrista
ed ex di sinistra, imprevedibilmente il solito Rutelli, che
al di là del passare del tempo continua a mostrare un
aspetto telegenico clintoniano, con dosata compostezza ed apparente
solidità d’intenti, declama a chiare lettere: basta
con la socialdemocrazia, che ha esaurito la sua funzione,
e basta anche con l’egualitarismo, perché una
società di uguali è povera e spesso si regge sulla
sopraffazione e su poteri oscuri. È vero che il
giorno dopo lo stesso Rutelli ha prudentemente corretto il tiro
ritrattando la portata delle sue affermazioni, forse sgridato
a puntino da Prodi per le difficoltà che gli stava creando
nel tentativo di mettere in piedi la GAD ancora in gestazione.
Ma il senso del sasso lanciato per una revisione teorica resta
intatto, soprattutto alla luce delle reazioni che ha immediatamente
suscitato.
Quasi in contemporanea alla fiera di Roma, infatti, si stava
svolgendo l’assemblea indetta dal Manifesto per la ricerca
di un’identità comune della sinistra radicale.
C’erano tutti, dal correntone DS, ai verdi, ai disobbedienti,
alla rifondazione comunista, ai girotondini, ecc., tutti alla
ricerca, non ancora disperata, di uno spazio legittimo nel gran
calderone antiberlusconiano. In quest’assise plurima,
non so quanto pluralista, è piombato a un certo punto
il nuovo dettato rutelliano generando un iniziale scompiglio,
subito ricomposto perché in fondo è servito involontariamente
per determinare un’unità d’intenti, senza
il quale forse sarebbe stato un po’, molto po’,
più difficile, per il bisogno non dichiarato di ogni
parrocchia di ritagliarsi il proprio spazio vitale all’interno
del calderone. Anche se il convegno del Manifesto in origine
non si era neppure sognato di parlare di socialdemocrazia, è
stato subito un coro unanime, pur con accenti diversi, in difesa
della stessa, perché le radici non si rinnegano, come
pure con molta più convinzione in difesa dell’egualitarismo,
nel quale invece dicono di riconoscersi già pienamente.
Mi vien da sorridere. Mi sovviene con leggerezza il clima vissuto
nella sinistra dal sessantotto a circa metà degli anni
ottanta, quando classificare qualcuno come socialdemocratico
era quasi quasi peggio che dargli del fascista. E, a parte le
attuali giovani generazioni, molti dei personaggi in voga erano
gli stessi che ora si sentono offesi nel sentire attaccata e
intaccata l’allora tanto deprecata socialdemocrazia. Il
mondo è veramente cambiato? In parte, ma sono convinto
che in realtà siano cambiati, più che il mondo,
soprattutto i modi, il tipo di analisi e le dichiarazioni. L’approccio
sostanziale, al di là delle apparenze, mi sembra invece
lo stesso. Nella forma e nell’interiorizzazione psicologica
allora l’aggancio ideologico convenzionale era indiscutibilmente
antiriformista, e la teorizzazione socialdemocratica era considerata
riformista per eccellenza. Consapevolmente oggi al contrario
il dettato convenzionalmente accreditato è riformatore,
non si dice più riformista perché termine leniniano
dispregiativo in disuso, per cui la socialdemocrazia, che nei
cuori della sinistra ab origine sembrava definitivamente screditata,
oggi ha ripreso vigore e, magia dell’animo umano, viene
ora considerata alle radici della sinistra stessa (vien da dire
“scherzi da prete”).
Clima politico post ’68
Per quanto riguarda l’egualitarismo la cosa è
un po’ più complessa. Sempre sovvenendo il clima
politico post-sessantottino nel quale mi sono formato, non era
rinnegato in senso stretto, ma con gran sufficienza era considerato
una roba ottocentesca da anarchico impenitente, quindi declassato
a romanticheria anarcoide su cui non valeva la pena spenderci
troppo tempo e riflessioni. Quello che contava erano le tensioni
di classe, le quali non avevano né tempo né voglia
di occuparsi di simili facezie. Fu poi il liberaldemocratico
Bobbio, fino a poco tempo prima considerato quasi di destra
dall’estrema sinistra, il quale, in seguito alla crisi
irreversibile post-ottantanove della sinistra, con la pubblicazione
del famoso opuscolo sull’identità della sinistra
(1) rivendicò uguaglianza e
libertà come irrinunciabili elementi identitari. Quasi
d’incanto da allora l’uguaglianza sociale, prima
non accreditata e facilmente dileggiata, è diventata
una specie di nuova ancora di salvezza per tutti gl’intristiti
orfani pentiti del marxismo, che aveva ormai perso la lucentezza
delle origini assieme alla possibilità di essere la chiave
d’interpretazione per la vera trasformazione “scientifica”
del mondo in senso emancipatorio.
Così ora che, dopo aver vinto a fatica ogni resistenza
originaria, erano riusciti ad aggrapparsi a ciò che rimaneva
della loro storia travagliata e deludente, si sono sentiti dire
che è da gettare anche quel che rimane e che rappresenta
l’ultimo baluardo di una tradizione una volta pensata
invincibile, li ha attraversati il brivido di correre il rischio
di trovarsi ancora di più nelle braccia accoglienti di
una deprecata liberaldemocrazia sempre più in agguato.
I neofiti dell’attuale sinistra radicale, come amano definirsi,
eredi delusi del filone marxista-leninista che sono stati costretti
ad abbandonare per il fallimento storico cui non possono e non
riescono a sottrarsi, non possono rinunciare, soprattutto non
lo debbono, al bisogno di radicalità che li avvolge,
continuando però cocciutamente a rifiutare i metodi e
la logica dell’unica vera radicalità che abbia
ancora senso: quella libertaria. Smarriti, insistono ad andare
a braccetto con le istituzioni dell’originario “fu”
nemico borghese, continuando ad illudersi di realizzare la rivoluzione,
culturale questa volta, questa volta per via istituzionale,
come appunto è l’assunto socialdemocratico marxista-antileninista.
L’abilità teorico trasformista è grande
sotto il cielo della tradizione autoritaria.
Il fatto è che molti di loro, perlomeno tutti quelli
che vengono dalla miriade delle travagliate vissute esperienze
sessantottine extraparlamentari, legate in diversi modi al carro
ideologico del marx-stalin-mao-leninismo allora imperante, e
sono tantissimi, erano antisocialdemocratici convinti e feroci,
mentre non sono mai stati per un autentico egualitarismo.
Per quanto riguarda la socialdemocrazia vi spenderò poche
parole, anche perché gli anarchici, per il fatto stesso
di essere tali, non hanno nulla da spartire con essa né
l’hanno mai avuta. Nella sostanza si tratta di una delle
due anime della visione e della pratica politica marxista storicamente
determinatesi. L’altra è quella marxista-leninista.
Entrambe sono state concepite per impadronirsi del potere e
gestirlo, entrambe con lo scopo di instaurare il socialismo,
inteso nel senso marxista, cioè fase transitoria per
pervenire al comunismo. La differenza di fondo che le separa
e le ha rese inconciliabili risiede nella diversa strategia.
Il marxismo-leninismo è per la presa del potere
attraverso la rivoluzione violenta, per gestirlo per mezzo della
dittatura, che avrebbe il compito di imporre il regime socialista
del proletariato, contrabbandato come transitorio ma di fatto
permanente. La socialdemocrazia invece è per l’andata
al potere nel rispetto delle regole democratiche, rifiuta
la rivoluzione e cerca di diventare forza maggioritaria attraverso
le elezioni, per impostare un governo che realizzi il socialismo
e il superamento del dominio borghese dentro la democrazia.
Proposta strategica
Storicamente il marxismo-leninismo ha prodotto la presa del
Palazzo d’Inverno, il colpo di stato con cui Lenin e il
partito bolscevico presero il potere nella rivoluzione russa
e fondarono la dittatura dello stato sovietico, finita definitivamente
per implosione politica nel 1989 con la famosa caduta del muro
di Berlino. La socialdemocrazia prese avvio come esperienza
rilevante col partito socialdemocratico tedesco nella seconda
metà dell’ottocento, per poi diventare esperienza
diffusa in diversi stati europei dopo la seconda guerra mondiale.
Ha acquisito una notevole esperienza di governo in diversi paesi,
è stata fautrice di politiche di welfare, lo stato sociale,
cercando di emanare politiche di garanzie sociali diffuse e
di forte assistenza, al fine di eliminare il più possibile
le diseguaglianze endemiche delle società contemporanee.
Non è riuscita in alcun modo a superare il sistema capitalistico,
né le endemiche diseguaglianze da esso prodotte, né
tantomeno ad instaurare un regime di transizione socialista
verso il comunismo, mentre, direi per la natura stessa del governare
che ha scelto, è diventata un puntello dello stesso sistema
capitalistico, caratterizzandosi per una sua forte regolamentazione.
Riguardo all’egualitarismo è senz’altro una
proposta strategica che prese forma all’interno della
sinistra storica, sostenuta coerentemente però solo dall’antiautorismo
degli anarchici. Nella critica sintetica che ne ha fatto Rutelli,
dichiarando la necessità del suo superamento, si evince
una visione riduttiva del tutto economicista. Nella lettera
scritta a Repubblica il giorno dopo la bagarre che aveva suscitato
cerca di spiegare in breve il senso delle sue dichiarazioni.
Per quanto riguarda …l’arcaico egualitarismo…,
sostiene, …cito dal Dizionario italiano De Agostini
Repubblica – “tendenza che mirava a realizzare l’assoluta
uguaglianza economica e sociale tra i cittadini attraverso la
soppressione della proprietà e il livellamento delle
remunerazioni” (2).
Questo non è egualitarismo, ma una sua strumentale mala-interpretazione.
Corrisponde a una riduzione dell’uguaglianza sociale ad
un fatto di mera distribuzione economica, secondo cui una volta
che si fosse riusciti a sopprimere la proprietà privata
verrebbe gestita dalla proprietà unica concentrata nelle
mani della burocrazia statale. Questa è pianificazione
economica che, guarda caso, fa venire in mente l’esperienza
dittatoriale del tramontato sovietismo russo di bolscevica memoria.
Ci risiamo! Questi signori non ci riescono proprio a concepire
niente che non venga imposto dall’alto. La loro visione
politica, l’universo psichico e mentale in cui sguazzano,
è sempre fondato sul comando, l’imposizione, l’imperio
gerarchico. Proprio tutto ciò che la concezione egualitaria,
che dà senso e spessore all’egualitarismo, combatte
e vorrebbe eliminare. Perché in realtà non hanno
mai né voluto né concepito l’egualitarismo,
che all’origine fu pensato e proposto come collante e
base della nuova società emancipata da ogni forma di
sfruttamento e oppressione.
Per sostenere la sua tesi Rutelli si diverte a discettare sulla
differenza concettuale tra uguaglianza ed egualitarismo: Quanto
alla differenza tra “uguaglianza” e “egualitarismo”,
basta leggersi l’articolo 3 della nostra Costituzione…
(2), facendo intendere che l’una
non c’entra nulla con l’altro. Il quale articolo
afferma testualmente: Tutti i cittadini hanno pari dignità
sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione
di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche,
di condizioni personali e sociali. È abbastanza evidente
che questo modo di intendere le cose, legittimo per carità,
ha come riferimento teorico di principio quello illuminista
del diritto liberale, che concepisce l’uguaglianza unicamente
come riconoscimento di pari dignità davanti alla legge,
indistintamente a tutti (ma in questo tutti sono compresi solo
i cittadini riconosciuti come tali). È senz’altro
un’uguaglianza di diritto, cui riconosciamo comunque grande
importanza, ma non è in alcun modo un’uguaglianza
sociale, come invece dovrebbe essere rispetto al fine di una
vera emancipazione, che in origine era l’autentica preoccupazione
di tutta la sinistra.
È pur vero che immediatamente sotto sempre l’articolo
3 afferma a chiare lettere che È compito della Repubblica
rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando
di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini,
impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione
politica, economica e sociale del Paese. Ma, se andiamo
a ben vedere, tale affermazione è estensibile a troppe
interpretazioni, fino a risultare ambigua e incapace di esprimere
un significato chiaro. Troppo generico quel Repubblica.
Non si sa bene chi avrebbe il compito di…, dal
momento che la Repubblica comprende tutti, istituzioni e cittadini,
e rappresenta l’insieme della società di riferimento.
Detto così è impossibile identificare una qualunque
assunzione di responsabilità. Poi l’effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione
politica, economica e sociale del Paese accetta qualsiasi
tipo di organizzazione in tal senso. Tanto è vero che,
al di là delle intenzioni tanto dichiarate e sbandierate,
di fatto difende e perpetua il vigente sistema capitalista,
causa prima e origine dello sfruttamento e della disparità
sociale e politica in atto, che a rigor di logica non ci dovrebbero
essere in una situazione di uguaglianza diffusa.
Al di là di simili dissertazioni, rafforzate purtroppo
dalle definizioni dei vari vocabolari che sembrano essersi divertiti
ad ufficializzarne l’interpretazione riduttiva, l’egualitarismo
è una concezione che privilegia la realizzazione dell’uguaglianza
sociale quale scopo dell’azione di trasformazione della
società. Sottolineo uguaglianza sociale, non mera ridistribuzione
economica, come mi sembra gli sia stato attribuito con troppo
pressapochismo e forse un po’ di malafede. E se l’uguaglianza
da uguale proprietà di denaro diventa, com’è
giusto che sia, una condizione dello stare e del determinare
insieme di tutti i componenti la società, allora le implicazioni
si estendono ai diversi ambiti del politico e dell’economico.
Da concezione redistributiva si eleva a concezione politica,
comprendente anche una diversa distribuzione della ricchezza,
non più considerata di proprietà, ma patrimonio
collettivo da gestire collettivamente.
Dal punto di vista degli anarchici l’uguaglianza è
strettamente connessa con la libertà, al punto che l’una
non è concepibile senza l’altra: non si può
essere liberi se non si è uguali né si può
essere uguali se non si è liberi. Ma questa uguaglianza
non è in alcun modo vista come livellamento o semplificazione,
anzi. Gli anarchici rifuggono da ogni tipo di pianificazione,
soprattutto perché per pianificare bisogna agire dall’alto
di un’autorità che ha il potere di farlo, ma anche
perché hanno in orrore le logiche che tendono a livellare
e semplificare le differenze, considerando le diversità
individuali una ricchezza per tutti e non un ostacolo. Essendo
consapevoli che non esistono ricette buone per tutte le salse,
che quindi non ha senso stabilire a priori in modo rigido cosa
va fatto, il metodo che pongono in campo per definire e rendere
possibile la convivenza tra le differenti differenze è
il libero accordo nel reciproco rispetto e nella reciproca accettazione.
In questo senso, non in altro, si riesce ad essere socialmente
uguali nel rispetto e nella valorizzazione delle diversità,
qualunque esse siano, in tutti campi ed in tutte le manifestazioni
umane.
Lavoro manuale e intellettuale
Essendo l’uguaglianza essenzialmente un fatto sociale,
tende a mutare la qualità delle relazioni in seno ai
rapporti della società. Dal momento che per essere socialmente
uguali non ci possono essere diversificazioni istituzionalizzate
di ruoli, in quanto si riprodurrebbero stratificazioni di autorità
e di potere, il nemico fondamentale di ogni concezione egualitaria
sono le strutture gerarchiche, proprio perché per la
loro stessa natura sono impostate per definire diversi livelli
di comando e di esercizio del potere, rendendo impossibile una
qualsiasi realizzazione egualitaria. Diventa allora massimamente
importante il fine del superamento della divisione tra lavoro
manuale e lavoro intellettuale, possibile con una trasmissione
costante delle conoscenze, delle competenze e del sapere, cercando
di rendere effettuale il più possibile la circolazione,
l’interscambiabilità e la condivisione dei compiti
e dei ruoli, nel pieno riconoscimento e senza ledere il valore,
le competenze e le differenze individuali.
L’egualitarismo dunque, fondandosi nel porre l’accento
sull’attuazione di un’autentica eguaglianza regolatrice
delle relazioni in seno alla società, è una visione
e allo stesso tempo una proposizione che si pone in prospettiva,
diventando una luce di riferimento per le scelte e le proposte
che si vanno a fare. Naturalmente le sue possibilità
di diventare operativo, per il senso stesso che lo contraddistingue,
escludono la perpetuazione dei sistemi capitalisti e dei poteri
gerarchici, in quanto fondati su principi che lo escludono.
In altre parole sostiene che è praticamente impossibile
realizzare coerentemente l’uguaglianza oggi, stante l’attuale
sistema di cose. Per questo è in sé rivoluzionario.
Per questo i riformisti e i camaleonti dell’oggi, esattamente
come quelli di ieri, o lo ripudiano e lo dileggiano, o, se tentano
di assumerlo, lo mistificano snaturandone il senso, i contenuti
e i presupposti. Per questo Rutelli è stato coerente
e sincero, a differenza dei nuovi “sinistri” che
si sono inalberati per le sue affermazioni, i quali ipocritamente
preferiscono invece tenerlo imbrigliato nelle loro contorte
gabbie ideologiche, probabilmente con lo scopo di farsene scudo
nel pessimo tentativo di giustificare, a se stessi e a chi li
ascolta, i trasformismi cui sono continuamente costretti.
Andrea Papi
- Norberto Bobbio, Destra e sinistra, ragioni e significati
di una distinzione politica, Donzelli editore, 1944,
Roma.
- Francesco Rutelli, L’approdo della Margherita
non è la socialdemocrazia, La Repubblica, lunedì
17 gennaio 2005, pag.1 segue pag.7.
|