Non solo
Kafka
Ho letto con grande interesse l’articolo
di Michael Löwy su Kafka apparso nel numero di novembre
della rivista. Vorrei segnalare ai lettori che lo stesso Löwy
– sociologo nato in Brasile da genitori ebrei viennesi
che da molti anni risiede a Parigi – ha pubblicato nel
1988 un importante volume, dal titolo Redemption et utopie:
le judaisme libertarie en Europe centrale. Une etude d’affinitè
elective (Redenzione e utopia. Figure della cultura
ebraica mitteleuropea, Bollati Boringhieri 1992, €
20,66). In questo libro Löwy ricostruisce l’itinerario
esistenziale e filosofico di alcune delle principali personalità
della cultura ebraica del Novecento – da Martin Buber
a Franz Rosenzweig a Gersom Scholem, da Gustav Landauer a Ernst
Bloch, passando per le figure centrali di Franz Kafka e Walter
Benjamin – mettendo in luce come nella loro opera, sia
pure in forme e con modalità diverse, l’ispirazione
religiosa converga con posizioni politiche di evidente matrice
libertaria, antistatalista e antiautoritaria, anche nei casi
di avvicinamento al marxismo. Ma come spiegare l’adesione
di una parte così consistente dell’intelligencija
ebraica mitteleuropea all’anarchismo o alle correnti eretiche
del marxismo? La risposta a questa domanda va per Löwy
ricercata, dal punto di vista sociologico, nella condizione
di “paria” e di ribelli in cui questi giovani intellettuali
venivano a trovarsi una volta ripudiato l’ambiente borghese
e l’ebraismo formalistico delle famiglie di origine e,
dal punto di vista culturale, nell’“affinità
elettiva”, ovvero nella forte consonanza ed attrazione
reciproca, tra messianismo ebraico ed utopia libertaria. Messianismo
ebraico e socialismo libertario condividono per Löwy una
visione della storia e una costellazione di valori, ed è
per questo che negli autori qui considerati la riscoperta delle
proprie radici ebraiche tende naturalmente a caricarsi di significato
politico, e l’utopia sociale ad impregnarsi di significato
religioso, dando vita a quel composto alchemico dalla dirompente
carica rivoluzionaria che Löwy definisce “messianismo
storico” o “ebraismo libertario”. Gli elementi
principali di questo composto sono il rifiuto del mito del Progresso
– ideologia comune alle principali correnti culturali
e politiche del Novecento, dal liberalismo borghese al fascismo,
dal comunismo di stato alla socialdemocrazia – e la scelta,
etica prima ancora che politica, di stare dalla parte degli
oppressi e dei vinti della storia. Non a caso nelle opere di
questi autori si trovano – fin dai primi decenni del secolo
scorso – la denuncia dei pericoli connessi all’applicazione
delle tecnologie moderne alla guerra e la messa in guardia dal
rischio di distruzione della natura derivato dalla produzione
industriale di massa.
Il libro di Löwy, che come un buon vino ha acquistato forza
e sapore nei quasi vent’anni trascorsi dalla sua uscita,
rappresenta dunque un omaggio appassionato ad una generazione
di utopisti ribelli, i cui sogni – la comunità
degli eguali, il socialismo libertario, la rivolta permanente
dello spirito – conservano intatta, in questo nuovo secolo,
la loro bruciante attualità.
Ivan Bettini
Il regalo di
Cristina
Con il libro, Katzenmacher. Il teatro di Alfonso Santagata
(ZONA 2004, pp. 272, 19,00 euro) Cristina Valenti ci ha fatto
un regalo. A noi come individui, a noi come compagni, a noi
come esseri umani inquieti per le cose del mondo e irrequieti
per il bisogno di vivere. È un’immersione nel mondo
particolare del teatro, coi suoi codici, le sue tensioni, le
sue specifiche irrequietezze, attraverso l’esperienza
artistica ed esistenziale del contemporaneo Alfonso Santagata,
tuttora vivo, tuttora in fermento e continuamente pronto a prodursi
e mettersi in gioco.
Sono sincero. Quando l’ho avuto tra le mani ero scettico.
Un libro specialistico, mi son detto, che affronta un argomento,
il teatro, di cui sono profano e non conosco che poche cose,
quasi tutte scontate e senz’altro banali. L’unico
punto a favore era la scrittrice, mia carissima amica, di cui
conosco la puntuale e qualificata collaborazione ad “A”
e Conversazioni con Judith Malina, pubblicato nel ‘95
da Elèuthera. Ai miei occhi Cristina è in sé
una garanzia. Me lo son rigirato tra le mani e senza entusiasmo
l’ho aperto, poi ho iniziato a leggerlo.
Sono sempre sincero. Non ci son volute molte pagine per trovarmi
immerso, contrariamente alle aspettative, in una dimensione
intellettuale ed emotiva capace di prendermi con forza, con
intensità stimolante. Il testo conferma l’intuizione
del mio pre-scetticismo: in effetti è specialistico e
si sente subito che è scritto da chi sa di teatro con
dotta conoscenza. Ma, a differenza delle noiose e indigeste
menate specialistiche con cui mi son scontrato più d’una
volta, non sono affatto specialistici lo stile e la capacità
comunicativa, in grado ad ogni passo di immergerti nella magia
avvolgente dell’esperienza vissuta del teatro, da lettore
partecipando con tensione alle tensioni di chi effettivamente
lo vive. Ciò che mi ha regalato è che, pur rimanendo
in pratica lettore, non mi son sentito un mero fruitore di parole
e concetti, ma quasi corpo vivo di ciò che parole e concetti
stavano esprimendo mentre li leggevo.
Riassumere cosa dice il libro mi è impossibile, digiuno
come sono di cose di teatro e di cultura teatrale. I riferimenti
continui, le comparazioni con altre esperienze contemporanee
e non, che collocano Santagata nel contesto culturale generale
e ne evidenziano la ricerca costante, a tratti estenuante, di
forme espressive autentiche ed innovative, sono troppi, troppo
colti e scritti da chi c’è dentro col cuore, con
la testa e con la conoscenza, per non riuscirmeli a ricordare
ed aver bisogno, per riprenderli, di andarli a rileggere. Ma
nel momento in cui li leggi sono estremamente chiari e ti entrano
dentro e ti fanno vivere la tensione che le parole sono capaci
di emanare.
Il libro è intenso e pieno. In un certo senso non dà
un attimo di tregua. Ma proprio anche in questo sta la sua bellezza,
perché non riesce ad essere in alcun modo pesante. Mentre,
richiedendo la tua massima attenzione costante, ti conduce e
ti trasporta senza tregua nell’universo variegato, complesso,
ricco e travagliato di chi non vive il teatro come una professione,
pur essendola a tutti gli effetti, ma una ragione di vita. Per
dirla con le parole di Cristina, «…Santagata
ha sempre parlato di un teatro dell’accadere opposto a
un teatro del rappresentare, concentrandosi sul “ritmo
interiore” più che sulla tecnica degli attori,
sulla “tensione drammatica del tempo quotidiano”…».
Santagata è interessato a coloro che stanno peggio, ai
carcerati, agli emarginati, ai matti, ai reclusi. Ma non si
limita a riprodurre scenicamente le loro condizioni materiali.
Ciò che cerca è la loro condizione interiore,
per riviverla e rappresentarla col corpo. Non c’è
il distacco dell’attore che interpreta magistralmente.
C’è invece l’immedesimazione più che
nelle condizioni di vita, che pure sono espresse, nel loro status,
nel sentirsi dentro quella dimensione psichica, corporea, mentale.
Dalle parole che ho letto trasudano carne e sangue, sofferenza
e amore. «Lo stomaco del teatro di Santagata trasforma
le storie in “sterco e sogni”», scrive
sempre Cristina.
Insomma, vivendo a mia volta l’esperienza di Santagata
attraverso la lettura, l’ho sentito compagno di vita,
perché mi ha accomunato a lui la tensione e l’irrequietudine
esistenziale, il rifiuto di come è fatto questo mondo
che allo stesso tempo ci porta alla pazzia e ci impedisce di
viverla, l’abbandonarsi al caos di pensieri che affollano
la sua mente quando è preso da un’idea e dalla
tensione creativa. Per questo penso che il libro di Cristina
faccia bene senz’altro agli amanti del teatro, ma fa bene
anche a chi di teatro non è abituato ad occuparsene.
Andrea Papi
Poveri per caso,
a Natale
Biglietto, cappello e valigia in mano
un posto caldo, allegro, e ben lontano
tanto vicino al paradiso
da raccontar con fulgido sorriso
le foto catturate, vita eccezionale,
la pelle abbronzata, bruciacchiato il naso,
che bel Natale, in un mare tropicale
aspettando arrivar con l’onda gesù bambino
su una tavola di surf…presto, andiamo a Fiumicino.
– Mi serva un cocktail…sì quello speciale,
con zucchero, limone, sale e caviale
– Hai visto in spiaggia l’albero di natale,
manca però il presepe…si può fare
le sdraio, l’ombrellone, i teli da mare
– Natale…Natale…non ti allontanare
guarda dell’onda non ci si può fidare
– Ah magnifico questo sole caldo non come a Portofino
ricordi, lo scorso anno, che brutto gesù bambino?
– Il tempo non è certo Milano
continua a piovere a tutto spiano,
grigio, triste, sempre inquinato
– Quasi, quasi, in un’isola dell’oceano indiano
a far bella la vita ci sono nato:
pochi soldi, un lavoretto che preferisco
e via al mare… chi s’è visto, s’è
visto.
– Certo che è strano, passare gesù bambino
senza la neve, a Saint-Moritz, tutti attorno al camino?
– Conosco chi l’ha fatto,
la vita qui è semplice, già ho preso contatto
un taglio netto, due soldi, un po’ di coraggio
e poi ogni tanto… un bel viaggio
– E se ti prende la malattia?
che so, la malaria, il tifo, una qualche epidemia?
– Ci sarà pure un ospedale, qui vicino
è un Paese povero sì, ma c’è perfino
la clinica privata del gesù bambino.
Biglietto, cappello e valigia invano
nel fango di una stanza al terzo piano
la naturale furia improvvisamente
ci ha travolti, costretti poveri per caso,
senza più un bel niente
a soffrire da ricchi – mio dio, che strano
in un mondo dove sempre si muore miseramente,
dove governi, Fondo Monetario, la chiesa del gesù bambino
s’ingegnano in saccheggi fino all’ultimo quattrino.
Jules Èlysard
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