Nei confronti di qualcosa –
di checchessia – l’essere umano può assumere
atteggiamenti mentali diversi. Guardarlo dal punto di vista
estetico, per esempio, o dal punto di vista etico. Chiedersi
se quella tal cosa è “bella”, se gli piace,
o se è “giusta”. Alla stessa stregua, può
chiedersi se la tal cosa “costa”, ha valore –
in termini di denaro, energia, fatica, tempo, etc. Alla stessa
stregua, in altre parole, gli esseri umani possono assumere
un atteggiamento economico. E, credo, non solo gli esseri umani:
il ragno ci pensa su due volte prima di muoversi per andare
a vedere se, nella sua tela, è finita una mosca succulenta
o il mozzicone di una sigaretta; così come la pianta
carnivora aspetta a chiudersi allorché gli insetti entrati
incautamente fra i suoi petali letali non sono solo un paio,
ma qualcuno in più. Diciamo che un’economia come
scienza prende le mosse – o dovrebbe prenderle –
da consapevolezze simili.
Tuttavia, quando si parla più o meno apertamente di dover
“salvare l’economia” mi viene in mente la
lettera del marchese di Mirabeau. In essa, scrivendo a Jean
Jacques Rousseau il 20 dicembre del 1767, il marchese racconta
che “Je fondai chez moi un dîner et une assemblée
tous les mardis. C’est de ces assemblées que nous
est venu le nom d’économistes”. Il nome era
nell’aria da tempo e sarà anche stata la congrega
delle migliori menti in circolazione, ma resta il fatto che
questa “economia” nasce come tale in mano ad amiconi
dell’ottima borghesia, gente che, fra un pranzo un frizzo
e un lazzo, sciorina idee luminose per emergere nell’agone
retorico dei pari.
Così l’economia cui fanno riferimento i saggi e
i potenti è sempre più palesemente un artificio
retorico per nascondere i loro interessi spacciandoli per l’interesse
collettivo. Ma, a ben guardare, in certi casi, di nascosto rimane
ben poco.
Qualche esempio. Uno. Già dopo pochi giorni dalla catastrofe
del maremoto in Asia, paradossalmente, fioccando gli inviti
a continuare a “viaggiare” nei Paesi colpiti –
“perché la loro economia è legata al turismo”
–, c’era chi ammoniva che “l’allarmismo
può creare più danni dello tsunami”. Due.
Nel settembre del 2004, il responsabile della Sicurezza Interna
degli Stati Uniti d’America, tal Ridge, ha affermato che
“dopo l’11 settembre, alle frontiere con il Messico
e il Canada i controlli erano così severi che avevamo
significativamente ostacolato il commercio”. “Il
flusso del commercio”, infatti, sarebbe tale che “un’interruzione
di 4-6 ore manda all’aria il sistema”. La soluzione
– la sua soluzione – consisteva nel raggiungere
un “equilibrio fra sicurezza e interazioni commerciali”.
Tre. Nel dicembre scorso, a Buenos Aires, l’Italia ha
annunciato al sua prossima ritirata dai vincoli imposti dal
cosiddetto “protocollo di Kyoto” sulla riduzione
dei gas inquinanti il pianeta. Tal Marcegaglia, vicepresidente
di Confindustria, definisce “un’opportunità”
(e già qui ci sarebbe da urlare) “le azioni e i
provvedimenti necessari per combattere efficacemente i cambiamenti
climatici e ridurre le emissioni dei gas”, ma fa dipendere
questa “opportunità” da una condizione: “che
non si comprometta la competitività della struttura industriale
italiana”. Come dire che gli industriali possono inquinare
di meno soltanto a patto di continuare a guadagnarci.
Se l’economia è questa – se è questo
ciò che si insegna nelle Università – sarebbe
ora che nessuno si proclami più economista, vantando
un sapere scientifico che, alla resa dei conti – con lo
sfruttamento del Terzo Mondo, con la semplice sopravvivenza
del cittadino e con la sistematica distruzione delle condizioni
di abitabilità del pianeta –, potrebbe essere insegnato
soltanto in Facoltà di Cinismo.
Felice Accame
P.s.: Qualcuno ha ammesso (vedi l’Indonesia) che, anche
nel caso del maremoto in Asia, la sindrome dello Squalo ha colpito
ancora. È il tema cruciale del vecchio film di Spielberg:
nella tal località climatica c’è uno squalo
assassino, ma le autorità fanno di tutto perché
non si sappia. Il dio Tour esige vite umane e non gli bastano
quelle di chi, forzato del capitale glob-trotter, ha dovuto
sacrificare la propria tradizione per trasformarsi in servo.
P.p.s.: Sugli “économistes”, cfr. B. Migliorini,
Parole d’autore – Onomaturgia, Sansoni,
Firenze 1975.
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