Ci sono certe tematiche
sulle quali, per un motivo o per l’altro, non è
possibile non essere tutti d’accordo (e che quindi, per
logica conseguenza, dovrebbe essere perfettamente inutile continuare
a dibattere). Prendete, per esempio, quella della libertà:
chi non è d’accordo sulla libertà? A quella
propria siamo evidentemente favorevoli tutti a priori e quanto
a quella altrui, se qualcuno nutre, in cuor suo, delle riserve,
non si azzarderà certo a dichiararlo in pubblico. I problemi
possono nascere quando c’è da decidere in che modo
e a che prezzo assicurarla e difenderla, ma sul concetto in
sé è davvero difficile non essere unanimi. È
per questo che quando qualche figura autorevole parla della
libertà come del suo obiettivo più caro, dà
tanto spesso l’impressione di parlare soltanto per dare
aria alla bocca.
E la tirannide? Trovatemi, se ci riuscite, nella pubblicistica
degli ultimi tremila anni, un solo discorso in lode della
tirannide. Se con i tiranni e i tirannelli che infestano concretamente
il nostro mondo bisogna, il più delle volte, imparare
a convivere a collo più o meno obtorto, per il tiranno
in astratto – per l’idea di tiranno, se preferite
– non è possibile remissione alcuna. Sul fatto
che simili figuri vadano cancellati dalla faccia della terra
concorderanno anche i governanti più autoritari e i
ministri meno liberali, tutti convinti, non è chiaro
perché, che il tiranno è sempre qualcun altro
e quel termine, per definizione, non li riguarda. E anche
in questo caso i relativi discorsi suoneranno, a orecchie
appena un po’ esercitate, come vuote sparate retoriche
senza un contenuto degno di nota.
Il presidente Bush ha inaugurato il suo secondo mandato, lo
scorso 22 gennaio, parlando della necessità di difendere
la libertà e di abbattere, sempre e dovunque, i tiranni.
Sulla base delle osservazioni di cui sopra, sembrerebbe ovvio
concludere che se l’è cavata con poco. O meglio,
visto che l’uomo è quello che è e ha dimostrato
con i fatti quali siano i suoi disegni e i relativi riferimenti
ideologici, che, per ricoprire, come è d’uso, di
parole solenni lo squallore dei suoi propositi non si è
sforzato poi tanto. A leggerlo senza sapere nulla di chi l’ha
pronunciato, poco si troverebbe in quel discorso che un medio
cittadino democratico di qualsiasi paese occidentale (e non
solo occidentale) non potrebbe sottoscrivere.
Una connotazione di classe
George W. non ha, che io sappia, compiuto gli studi classici.
Ma lo avranno fatto, probabilmente, i suoi collaboratori e
i ghost writers cui affida la stesura materiale dei
testi che legge in pubblico. In effetti, quel discorso di
investitura si collega a una linea che ci porta dritto dritto
alla Grecia del quinto secolo avanti Cristo e alle polemiche
degli oratori attici. Anche allora, ricorderete, si parlava
molto di tirannide di libertà e della necessità
di difendere l’una contro l’altra. I termini del
discorso, forse, erano un po’ più precisi di
adesso, nel senso che tyrannos, “tiranno”,
nella lingua corrente non era qualsiasi buzzurro prepotente
insediato sul trono, ma soltanto chi vi giungeva senza legittimazione
dinastica, senza appartenere a una famiglia cui spettasse
un titolo principesco. E siccome quasi tutta la pubblicistica
greca che ci è giunta è ferocemente di parte,
e di parte – di solito – aristocratica, come “tiranni”
in quei testi vanno intesi soprattutto i capi del partito
democratico e gli statisti sostenuti dall’appoggio popolare.
Una connotazione di classe destinata a durare più a
lungo di quanto si immagini: non per niente nelle lettere
italiane è legata al nome di un reazionario allo stato
puro come il celebre Vittorio Alfieri, che visse alle soglie
della nostra era e quando si trattava di parlar male dei più
noti tiranni letterari, i vari Saul, Creonte, Filippo e compagnia
bella non era secondo a nessuno, ma quando, nel corso degli
eventi della Rivoluzione Francese, ebbe a che fare con degli
autentici tirannicidi nella persona dei sostenitori del Comitato
di Salute Pubblica parigino si incazzò di brutto e
ritenne opportuno tagliare la corda. Libertà o non
libertà, quell’idea di tagliare la testa ai nobili,
a lui che era non ricordo più se conte o marchese non
andava evidentemente giù. È per motivi di questo
genere, credo, che l’uso moderno di quel termine ha
una connotazione così fastidiosa. Con il tempo le parole
cambiano significato, ma qualcosa della loro origine se lo
portano sempre dietro e salta fuori quando meno ce lo si aspetta.
E, in fondo, non dovevano essere così male i tiranni
del buon tempo antico. Di Pisistrato tutti hanno scritto le
peggio cose, ma quando si viene ai fatti concreti si scopre,
stringi stringi, che governava con il consenso della maggioranza,
proteggeva le lettere e le arti, faceva costruire i primi
templi sull’Acropoli e faceva mettere a disposizione
di tutti un’accettabile edizione dell’opera di
Omero. Edipo è tiranno, nel titolo della tragedia di
Sofocle (e noi facciamo male a tradurre re) ma i tebani sono
tutti con lui, che li ha liberati dalla Sfinge, ed è
a lui che si rivolgono in un momento di crisi, e a ragione,
visto che lui fa di tutto per aiutarli, fino al sacrificio
finale di sé. E del resto, anche se non lo sapeva,
il poveraccio, in quanto figlio legittimo di Laio, discendeva
in linea diretta dalla nobile stirpe dei Labdacidi, per cui
il regno gli spettava di diritto e il suo problema –
in termini squisitamente tragici – non era quello di
essere un tiranno, ma, al contrario, di non esserlo.
L’unico vero tiranno
Chiedo scusa per la digressione. Edipo, si sa, è una
personificazione della intelligenza umana, e come tale ha
poco a che fare con Bush, che quanto a piccole cellule grigie
non gode fama di essere particolarmente fornito, tanto è
vero che dovendo, in un’occasione solenne, presentare
se stesso al mondo ricorre alle parole più fruste e
più ambigue che la tradizione della retorica politica
gli mette a disposizione. Come a dire che non è neanche
capace, per evidenti limiti culturali, di giustificare sul
piano ideologico, o almeno su quello retorico, le proprie
azioni e le proprie scelte. In effetti, sotto il fragile velo
di quelle espressioni auliche e vagamente desuete, la natura
spietata del suo programma, la volontà di dominio che
lo permea, il disprezzo per la identità altrui che
lo sostanzia risultano con un’evidenza agghiacciante.
Figlio della nuova aristocrazia del denaro, tanto più
potente e spietata di quella antica del sangue, Bush parla
di libertà, ma non crede nell’eguaglianza e non
saprebbe che farsene della fraternità, che della libertà
sono, da un paio di secoli, le necessarie specificazioni.
L’unica opzione vera, per lui, è, sempre e comunque,
quella della forza. La conclusione è quasi banale ma
inevitabile. Anche se non può rendersene conto, in
senso moderno, l’unico vero tiranno è lui.