Joel
Orchestra
Una formula magica: queste sole due parole, Joel Orchestra,
potrebbero far scatenare tempeste in testa e nel cuore di
chi ama esplorare le zone sonore marginali e seguire le espressioni
inconsuete della musica.
L’orchestra è un segreto, una cosa non detta,
un alito sonico sfuggente.
Agli inizi degli anni Ottanta, dal magma creativo torinese
presero vita molte forme diverse raccolte attorno all’eccitazione
e al delirio punk; due furono però le schegge impazzite
di quel disegno evolutivo obbligatorio: Franti e, appunto,
Joel Orchestra.
Le loro strade si incrociarono spesso. Entrambi erano gruppi
“aperti”: oltre a non avere una formazione stabile,
significava che erano formati da musicisti impegnati in una
ricerca espressiva continua. Musicisti che con ogni probabilità
non si definivano tali, quanto piuttosto individui disposti
a mettersi in discussione attraverso la pratica di forme sonore
libere, impegnati in lunghe maratone fatte di improvvisazioni
radicali a costituire nuovi rituali d’amicizia e sodalità,
quindi non organizzati per vendere qualcosa a qualcuno.
Né Franti né l’Orchestra amavano i riflettori,
le domande assurde dei giornalisti, preferendo la cantina
al palco e la pratica del suono al gioco amaro e inutile delle
definizioni e dei paragoni stilistici. Franti amava le barricate
e il volume alto del pressappochismo urgente punk, mentre
Joel si sentiva in pace nelle zone d’ombra, a meditare
al tramonto, a camminare di notte, lontano.
Ad un certo punto nessuno li vide ne li sentì più.
Forse erano stati sommersi dalla piena, o più semplicemente
era una fase naturale di allontanamento, una stagione della
vita che porta a galleggiare altrove.
E se Franti non si vedeva più in giro ma nessuno credeva
davvero fosse morto, dal momento che continuava a sparare
e scalciare e sputare attraverso nomi sempre nuovi, anche
l’Orchestra continuava a vivere come una radice sotterranea,
mostrando al sole solo ogni tanto un segno, un germoglio,
un fiore (“Samsara e zenzero” del 1991, una delle
più straordinarie autoproduzioni italiane).
Un giorno rieccoli: l’Orchestra scalza e con addosso
la polvere di tutte le strade del mondo, Franti pestato a
sangue a Genova e sporco del fumo dei lacrimogeni, a ritrovarsi
con le mani strette e gli occhi umidi in un abbraccio attorno
al ricordo di un musicista e compagno comune scomparso.
Da allora Franti non s’è più visto. Dicono
sia fuggito all’estero, a Cardiff, a Mostar. Dicono
che si sia chiuso in casa e non apra a nessuno. Dicono che
beve troppo e che picchia la sua compagna, che ruba le elemosine
in chiesa. Lui che si ubriacava solo con una chitarra in mano
e accendeva il fuoco dentro alle canzoni, che amava tutte
le sue donne come nessun’altra al mondo, lui che in
una chiesa non c’era mai voluto entrare, neanche al
funerale di Faber.
Anche l’Orchestra s’era rimessa in viaggio, come
se nulla fosse successo, forse perché proprio nulla
è successo. Ha lasciato però un album di piccole
foto, con un nome scritto sopra a matita: “Yggia vilyggia”.
Non si sa cosa sia, né si capisce davvero dove queste
piccole foto siano state scattate tanto sono sfocate, ma sembra
l’India, o le Ande, o giusto qui nel cortile dietro
casa.
Ecco dunque il primo cd della Joel Orchestra dopo oltre vent’anni
di cammino: una manciata di “canzoni” che canzoni
non sono, dove la voce non dà forma ad un testo vero
e proprio e si fa strumento assieme ad altri strumenti provenienti
da terre lontane.
“Yggia vilyggia” è una testimonianza semplice
ed armonica di un viaggio fatto di molti viaggi mai fatti
per turismo ma sempre per amore. Sono sette fotografie raccontate
in musica, ma voi provate a pensarle come sette cose strane
da mangiare ciascuna con un gusto inedito, sette miscugli
d’aromi e fragranze nomadi, sette notti in sette posti
differenti, sotto stelle sempre diverse.
Sette suggestioni dove all’improvviso si materializzano
Derek Bailey e le alchimie vibranti dei vecchi Popol Vuh,
suoni senza un nome trovati per strada e la stupefacente sfida
cosmica al destino dell’Harmonic Choir. Momenti fermati
su di un registratore portatile o nella mente, riproposti
in improvvisazioni collettive, danza di spiriti liberi che
l’Orchestra accarezza senza derubare né violare,
caricandosi di leggerezza nel compiere un altro passo verso
l’orizzonte, lontano da qui ancora, lasciandoci in attesa
con le orecchie vuote, come una cometa.
Il cd non viene distribuito commercialmente nei negozi, ma
si può trovare ai concerti del gruppo (peraltro molto
rari) o direttamente qui:
il ricavato della diffusione, tolte le sole spese vive, va
a finire nei nostri fondi neri (per una copia sottoscrivete
10 euro più un contributo adeguato per le spese postali).
Contatti: Ugo Guizzardi ugoguiz@tiscali.it,
Giulio Berutto giulioberutto@tiscali.it.
Roberto Bartoli
Il mio sogno di ragazzo volava attorno a quattro grosse corde.
Sono rimasto stupito dalla meravigliosa allegria e dal sorriso
di Jaco Pastorius, dalla capacità di indignarsi così
poco “americana” di Charlie Haden, dalla vertigine
intessuta dalle dita di Ares Tavolazzi. In due parole, sognavo
di far volare alto il mio vecchio basso elettrico usato, senza
davvero mai riuscirci, vuoi per il mio scarso coraggio o forse
perché mi sono distratto, o perché all’improvviso
la vita mi ha chiamato altrove, e avevo dell’altro da
fare.
Ho incontrato qualche tempo fa Roberto Bartoli, complice Fabio
Santin e la rivista ApARTe°, e mi si è spalancato
un baratro sotto ai piedi quando ho ascoltato lo stesso rumore
dei miei sogni di ragazzo che usciva da sotto quelle dita
(diplomato in contrabbasso al conservatorio di Pesaro, Roberto
ha avuto la fortuna di studiare con Bruno Tommaso, che io
quand’ero appunto un ragazzino ho potuto solo ammirare
in concerto col Perigeo).
Questo suo cd “Anche se solo un miraggio, ci vuole coraggio”
è una sfida: alla mercificazione, innanzitutto, perché
è francamente invendibile secondo i canoni discografici
moderni. Nessuno vuole ascoltare un contrabbassista anarchico,
che offre musiche che sanno mettere in moto la testa, far
girare gli ingranaggi, far riflettere, pensare.
Il cd è concettualmente un’opera per contrabbasso
solo sporcata, colorata, avvelenata dagli interventi al computer
di Giovanni Lanzarini. Un unico canto/racconto in sette movimenti
sul coraggio e sull’anarchia, sul desiderio e il sogno:
una sfida alla superficialità, ai titoli appiccicati
con lo scotch sopra alla musica, alle giustificazioni fornite
ai giornalisti per trovare un senso all’immediatezza
e alla passione.
Dentro c’è una rilettura da brivido di “Se
ti tagliassero a pezzetti” di Fabrizio De André,
un’interpretazione altrettanto emozionante di "Hullo
bolinas" di Steve Swallow; il resto è tutta musica
nata libera, lasciata senza guinzaglio a correre al sole dell’improvvisazione.
![](/riviste/Arivista/306/img/54a.jpg)
Anche questo cd non viene distribuito commercialmente nei
negozi, ma si può trovare ai concerti di Roberto o
direttamente qui: il ricavato
della diffusione, tolte le sole spese vive, va a finire nei
nostri fondi neri (per una copia sottoscrivete 10 euro più
un contributo adeguato per le spese postali).
Contatti: robart2002@tiscali.net.
Marco Pandin
![](/riviste/img/tromba.gif)
Musica
a cui voler bene
Sono
stato in giro a suonare e fratelli e sorelle mi hanno
omaggiato di libri-cd-riviste (anche un bel po’
di vino ma questo esula dal contesto), quindi per 2
mesi di rubrica ne ho d’avanzo. Al solito: non
recensioni, niente critiche musicali, nulla di diverso
da un ragionato, sentimentale, convinto sollecito ad
indagare percorsi artistici che a me stanno a cuore,
per qualità e Closeness, e che spesso hanno visibilità
limitata.
“Chomsky” da Torino, lo segnalo prima della
sua pubblicazione quindi in forma quasi finale. In questa
rubrica seguo il principio temporale: se oggi ricevo
X, lo metto dentro alla rubrica prima di Y, ricevuto
dopo. Semplice. Lo segnalo perché è sicura
ormai la sua pubblicazione, per la Stout di Firenze.
Il gruppo, denominato come il noto semiologo-politologo
americano, nasce dalle mani e dai cuori di un paio di
soliti noti, Enrico Manera e Luca Morena, ovvero Ishi,
Lalli e BandaManera. Registrato anche qui dal “solito”
Marco Milanesio, questo CD prende subito l’anima,
giornata freddissima dicembre cielo pulito sole in totale
splendore. È un gioiellino di forza rock, sotterranea
e intrigante, Arab Strap, Codeine, Karate se proprio
bisogna far nomi, che gioca su ritmi e luci trattenute
come lacrime di fronte all’ennesimo abbandono.
Al canto si alternano i migliori torinesi: Tommi dei
Perturbazione, Gigio dei C.O.V. e Paolo Manera. Uscirà
presto, cercatelo.
My laceration, il secondo (credo) CD per Right
in Sight. Emo-core punk estremo, ritmi ora lentissimi,
ora a randello, qui non c’è pietà
né ritrosia. Qui si sanguina: “Rosa appassita,
petali sul fango, in me la durezza possibile, l’indifferenza
al peggio… lucido fra le macerie del mio dramma-fine”.
Al canto il Laido, musicista noto sulla scena Straight
Edge (per saperne di più vedi www.munnezza.it)
che guida questo viaggio, tra metal core, punk ventre-in-mano
ma anche chitarre acustiche, voci femminili, una tromba
(courtesy di Anatrofobia, già planati su queste
pagine) e samples interessanti, vedi l’intro affidato
a The thin red line, meraviglioso film-apologo
sull’Assurda Guerra o Assurda Vita, che è
poi lo stesso. www.vacationhouserecords.com.
Ultime 2 segnalazioni: la Rivista Inguine, una magazine
quadrimestrale di comics e (molto) altro di cui già
si è parlato. Continua a stupirmi per la sua
eccelsa qualità e per come sia motore di altre
iniziative editoriali e mostre in rete e non, come “Kufia”
a sostegno della Resistenza Palestinese (vedere il sito
www.inguine.net).
Usciti finora 5 numeri e vi consiglierei di cercarli
tutti, nel campo del fumetto e della grafica antagonista
è il meglio che c’è. La storia Bosnian
Flat Dog ad esempio: la Yugoslavia come Castello
Kafkiano, surreale e favolosa. Seguire Gianluca Costantini
e Paper Resistance, due autori sempre presenti. Sul
numero 4 un mio racconto (“Giassa”, un ex
partigiano, cieco dopo una rapina e ora invalido-fumettaro)
è illustrato dal Maestro Maurizio Ribichini.
www.coniglioeditore.it.
“Le voci del tempo” collana a cura di Giovanni
De Luna e Marco Peroni, docente presso l’Università
di Torino il primo e storico della Canzone Italiana
il secondo, nonché autore di testi (bellissimi,
vedi Edo Cerea, qui recensito mesi fa). Una serie di
libri di Storia con incluso CD “guardando alle
canzoni come preziosi documenti per interpretare gli
scenari politici, i fermenti culturali, le passioni
collettive...”. Ognuno dedicato ad un cantautore,
con la sua biografia e la sua musica. Io ho quello su
Luigi Tenco ma sono usciti Gino Paoli, De André
e altri. Il libro, contenente splendide foto, riesce
ad appassionare alla storia di Tenco e alla sua musica,
attraverso una indagine seria e approfondita dal punto
di vista musicologico e storico della società
italiana di quegli anni. De Luna e Peroni, titolari
della trasmissione Voci di un secolo (Rai 3)
e dell’ottimo libro Il nostro concerto
(il solo Peroni), uscito per Nuova Italia nel 2001,
sono la garanzia di una collana fondamentale per chi
vuol studiare la realtà del nostro paese attraverso
forse l’unico vero contributo nostrano alla cultura
Pop: la canzone d’autore. www.ricordi.it.
Stefano Giaccone
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