Hanno cominciato con le
foto di Abu Graib. Orrende ed oscene, non per le povere nudità
delle vittime ma per l’indecente ghigno dei carnefici in
posa. Tante foto, forse troppe per un semplice “incidente
di percorso” dovuto alla gaglioffa disattenzione dei secondini
in divisa con foto ricordo da mostrare agli amici. Come il cervo
impagliato in salotto, le improbabili tette di qualche esotica
bellezza agganciata in vacanza, lo sguardo malandrino della squadra
di commilitoni in libera uscita. Quante foto così ci sono
nei nostri album. Ricordo quelle di mio padre in Africa: stretto
con gli altri in posa accanto ad una mitragliatrice, oppure spavaldo
con la sigaretta, gli stivali e il fez. Le foto di chi pensa che
la guerra sia un tutt’uno con la vita e la gioventù…
peccato che non ci siano foto del “poi”. Nessuna immagine
dopo El Alamein, la lunga prigionia, la fame, le privazioni, i
pidocchi, le malattie. Il tramonto della gioventù. Chi
uscì da quell’inferno neppure lo voleva raccontare
e quando pensava alla guerra non vi vedeva che l’immagine
di un tempo perduto, bruciato nel vento del deserto, nella follia.
Chi sa se il sorriso sprezzante del soldato Graner, l’unico
sinora condannato per le gesta nel carcere iracheno, si è
spento quando le telecamere si sono allontanate dall’aula
dove si era svolto il processo? Chi sa se la tranquilla arroganza
di chi si sente nel giusto è venuta meno quando la porta
della cella si è chiusa alle sue spalle? Difficile. In
fondo la vera colpa di James Graner non è l’aver
umiliato, torturato, massacrato i prigionieri del carcere dove
lavorava, ma di aver fatto e mostrato le foto agli amici. Certe
cose si fanno ma non si raccontano. E, soprattutto, non si fotografano.
Però.
Però, stranamente, dopo quelle prime foto ne sono arrivate
altre ed altre ancora. Ultime quelle dei soldati inglesi che
tormentano i “ladri” affidati alla loro custodia.
Ed ancor prima delle foto c’erano state le lettere delle
prigioniere che chiedevano aiuto per i continui stupri cui erano
sottoposte in carcere.
E le foto non sono che la punta del gigantesco iceberg emerso
nel golfo, dove il Tigri e l’Eufrate, concludono insieme
la loro corsa al mare dando vita allo Shat el arab.
Il pezzo forte dell’iceberg sono le armi di distruzioni
di massa, quelle per le quali è stata scatenata la guerra,
sono morti decine di migliaia di iracheni. Centomila, secondo
l’autorevole “The Lancet - Il bisturi” –
le vittime di questo conflitto feroce. Queste armi non esistevano,
ormai lo dicono senza mezzi termini le stesse autorità
statunitensi, e gli fanno eco i prodi scudieri anglosassoni
di Tony Blair.
Addirittura sono arrivati ad ammettere che già nel ‘91
Saddam avesse rinunciato all’arsenale chimico, quello
usato con efficacia contro i villaggi curdi nell’88, anno
in cui la ribellione della gente del nord venne placata ammazzando
gli abitanti di Halabja. Lo stesso arsenale adoperato nel conflitto
di otto anni e un milione di morti scatenato contro i diavoli
khomeinisti. Ma, questa, è un’altra storia. Allora
Hussein era un buon alleato, non il feroce Saladino dipinto
all’epoca dell’invasione del Kuwait. L’ignoranza
profonda dei portatori di civiltà innesca l’ironia
tragica di identificare Saddam, il massacratore di curdi, con
Salah ed Din (Saladino), noto condottiero curdo sotto i vessilli
ottomani. Ma, si sa, gli statunitensi sono gli stessi che lanciavano
volantini di propaganda in Afganistan scritti in arabo, lingua
che da quelle parti è compresa non più che dalle
nostre.
Eppure tra volgare insipienza, arroganza senza limiti, foto ricordo
di immonda ferocia, ammissioni fatte senza aver l’aria di
farle, viene il dubbio che i nostri cow boy siano sì rozzi
e crudeli, sì incolti e razzisti ma del tutto scemi no.
Proprio no.
Tutto svanisce
Viviamo un’epoca in cui i media svolgono, tra gli altri,
il ruolo di rendere opaca la realtà, mescolando continuamente
i messaggi e le immagini, anestetizzando nel magma indistinto
dello spettacolo le nostre sensibilità. Tutto corre in
fretta ed in fretta si consuma. Tutto svanisce nel corso di
una serata, quando tra un detersivo ed un’auto da corsa
e appena prima del profumo di marca, appare un signore dal tono
grave che parla, con la dovuta pudicizia, delle foto di Abu
Graib.
L’orrore rappresentato più e più volte non
colpisce più, non riesce a suscitare l’indignazione,
la rivolta morale. Le foto scattate 60 anni or sono ad Auschwitz
sono scolpite nella nostra memoria, inchiodate nelle nostre
coscienze a monito affinché quell’orrore irripetibile
non faccia la sua ricomparsa tra di noi.
Ne nasce uno iato: da un lato l’orrore irripetibile,
dall’altro l’orrore moltiplicato all’infinito
dagli scatti della macchina digitale di Abu Graib. Capita così
che Auschwitz si cristallizzi nella memoria sino a divenire
non un monumento alla ferocia del nazismo ma un’autocelebrazione
della perenne vittoria della libertà. Tanto perenne che
non può essere offuscata da nulla, neppure dal lezzo
della carneficina irachena, neppure da quello, semisepolto del
genocidio in Ruanda, attuato con il beneplacito dei signori
di ieri, la Francia, pacifista in Iraq, ma assai meno disponibile
a cedere il cortile di casa propria.
Mentre Auschwitz, rammentandoci la tremenda ferocia razzista
del nazismo, rende inossidabile il mito delle democrazie buone,
sempre all’erta contro il manifestarsi dell’intolleranza,
dall’altra il maestoso iceberg emerso tra le acque del
Golfo rende quasi “normali” gli orrori odierni.
Al punto che un criminale di guerra come Rumsfeld può
permettersi di annunciare pubblicamente un’operazione
coperta in Iraq, che ispirandosi alle gesta compiute in Centro
America negli anni ’80 dall’attuale ambasciatore
statunitense a Baghdad, John Negroponte, si chiamerebbe “Salvador”.
Come l’indiano delle praterie
Questa continua “fuga di notizie” sugli orrori
compiuti in nome della libertà e della democrazia appare
quindi consona ad una strategia di assuefazione alle
infamie, più che un segnale di capacità reattiva
da parte del sistema stesso. O, meglio, gli stessi anticorpi
che le democrazie ancora mantengono sembrano atti più
ad abituare alla normalità della malattia che a debellarla.
Così un giornalista investigativo come Arkin fa uscire
un libro “Code names”, in cui si elencano i numerosi
accordi bellici segreti che gli USA hanno in corso ai quattro
angoli del pianeta, come se fosse del tutto normale.
Uno, Stone Ax, riguarda il nostro paese e le strategie
Usa in caso di attacco nucleare: nessuno degli abitanti della
penisola ne sa nulla ma, evidentemente, l’operazione funziona
e nessuno si indigna né protesta.
Parimenti Rumsfeld (sempre lui) ha la propria CIA parallela,
ufficialmente inesistente, in pratica di pubblico dominio. Una
roba da sceriffo di frontiera, un cavallo, una stella ed una
colt, non certo da ministro. Ma che fa? Poco a poco l’eccesso
diviene la regola, non scritta e non scrivibile della guerra
permanente per il controllo delle frontiere planetarie. La partita
si gioca come nel west: il nemico è cattivo, bene armato
e ogni mediazione è impossibile, perché, come
l’indiano delle praterie, è costitutivamente al
di là dell’umano e, quindi, oggettivamente pericoloso.
Per un simile nemico non valgono le regole del gioco perché
da sempre è fuori dal campo, nella giungla dove hanno
dimora le belve. Belve che vanno intimorite, incatenate umiliate,
uccise. Come ad Abu Graib, come a Guantanamo. Hic sunt leones.
Bush, il cristiano rinato che guida gli USA, nel suo annuale
discorso sullo stato dell’Unione, esultando per le elezioni
irachene, ha dichiarato: “adesso bisogna addestrare
gli iracheni”. Addestrarli come i cani. Il bastone e l’osso,
la carezza e la pedata. Mentre i macellai continuano il loro
lavoro in fondo a celle anonime dove languono non uomini.
Ci sbattono in faccia le immagini dell’orrore ogni giorno,
a poco a poco, arriva l’assuefazione e, con essa, la complicità.
Che nessuno dica un giorno di non aver saputo, di non
aver visto, di non aver immaginato.
Maria Matteo
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