Un posto strano, adesso ancora più strano
“Dov'è Milano? In ogni luogo
nascosto agli occhi di chi non vuol guardare.”
(Giacomo Spazio)
Per chi come me viene da fuori, è un posto strano forte:
Milano è una città complicata che ha una luce,
un rumore, un'aria e una velocità tutte sue. Sembra che
la vita qui sia sotto pressione e prenda un gusto diverso rispetto
a come si usa da noi a nordest, come dire, è tutto più
complicato, più viscoso, più nervoso. Dico per
me, almeno.
La prima volta che ci sono stato mi avevano colpito soprattutto
le distanze dilatate e i tempi esagerati: Milano rispetto a
Venezia è un posto grandissimo dove per andare da qualsiasi
altra parte sempre restando in città c'è bisogno
di un sacco di tempo. Allora non avevo un'auto o una moto o
almeno una bici e mi sono accorto che era praticamente impossibile
andare in giro a piedi e basta, serviva per forza muoversi con
l'autobus o col tram o la metro addirittura.
La metro, ecco. Se si è abituati all'orizzontalità
del piano delle calli (lo saprete, vero, che nonostante Indiana
Jones spergiuri il contrario a Venezia non ci sono catacombe
né sotterranei) e all'inconsistenza liquida del dislivello
fra pontile e vaporetto, mette addosso una certa ansia essere
costretti a scendere giù sottoterra e muoversi poi là
sotto. Mi succede anche adesso di sentirmi un po' così,
tipo bisogna proprio, mezzo preoccupato mezzo indeciso davanti
a quelle scale che vanno giù dabbasso, dopo anni e anni
di metropolitana londinese parigina romana oltre che milanese
e di altrove cui non ho onestamente mai fatto l'abitudine e
che un po' mi impensieriscono ancora.
Dunque, la metro e la metropoli. La prima volta che ci sono
stato avevo vent'anni: ero partito per Milano una mattina sul
presto in autostop con un amico scavalcando la rete della tangenziale
di Mestre che passava proprio a fianco a casa nostra. Un viaggio
precario e fatto a rate, un paio di passaggi fino a una stazione
di servizio da qualche parte poi a un'altra più avanti
e infine mollati giù a una rotonda piazzata in una qualche
periferia senza nome che sembrava inspiegabilmente simile alla
zona industriale di Marghera. Pensavamo che Milano fosse chissà
che, invece avevamo sprecato quasi una giornata di viaggio per
ritrovarci in un posto che somigliava troppo a casa nostra.
Ad andare duecentocinquanta chilometri a ovest ci spingeva un
misto di inettitudine e curiosità, non saprei in che
percentuale l'una e l'altra: s'era sentito in giro di un concerto
in un teatro milanese, notizie vaghe, voci, niente di scritto.
Forse l'avevamo saputo dalla radio. Il mio amico ed io avevamo
un paio di giorni liberi dal lavoro e così abbiamo deciso
– sì dai, si va. Eravamo partiti col bel tempo,
siamo arrivati che pioveva.
Una volta là abbiamo trovato il teatro chiuso, luci spente
porte sbarrate e un cartello scritto a mano dietro il vetro:
il concerto era stato annullato. Il peggio era che si stava
facendo buio. Nelle nostre tasche il buio già ci abitava,
penso arrivassimo a rastrellare neanche diecimila lire in due.
Ma gli spiriti che proteggono i poveri sbarbi sfigati avevano
organizzato per noi un piano B: dopo una mezz'oretta che stavamo
lì fuori, persi come possono esserlo due foresti senza
ombrello che cercano di ripararsi alla meglio dalla pioggia,
arriva un furgone. Scendono dei tipi, due tre, è gente
un po' più vecchia di noi – poco – che ha
un aspetto rassicurante (barba lunga, capelli lunghi, jeans
e sigaretta incollata alle labbra).
Insomma questi hanno le chiavi e aprono il teatro e cominciano
a scaricare strumenti e roba e amplificatori. Ci guardano, noi
due ebeti lì sulla porta che li guardiamo, ci chiedono
cosa fate qua, gli raccontiamo del viaggio in autostop da Mestre
e del concerto annullato. E loro subito: dai forza, dateci una
mano – viene fuori che erano lì per preparare la
sala per un altro concerto previsto l'indomani, l'annullamento
a sorpresa di quella sera gli permetteva di anticipare il lavoro
che avrebbero dovuto fare la notte. Così io e il mio
amico siamo rimasti, i tipi abbiamo imparato velocemente che
erano tecnici del suono e facchini ma anche musicisti con dei
giri loro, abbiamo mangiato insieme poi ci hanno sistemato a
dormire in un posto che conoscevano e invitato il giorno dopo
a mangiare e poi al soundcheck e pure a restare la sera al concerto.
Penso che gli facessimo un'enorme pena, tipo i cani abbandonati
in autostrada. A cose finite, gli abbiamo dato ancora una mano
a ricaricare tutto sul furgone, con loro siamo saliti anche
noi – tanto in mezzo alle casse e ai cavi chi vuoi che
ti veda – e ci hanno accompagnato alla stazione Centrale,
ciao grazie ci si rivede strette di mano abbracci scambio di
indirizzi e numeri di telefono, e io e il mio amico che restiamo
lì ad aspettare il primo treno verso est e loro via sotto
la pioggia sulla strada in direzione Torino.
Poi, negli anni, con la scusa dei concerti (fare i tecnici e
accompagnare in giro i musicisti era il loro lavoro) per un
po' ci si è rivisti spesso. Spero stiano tutti bene,
non li ho mai dimenticati – Marco, l'altro Marco (che
mi ha dato un disco del suo gruppo) e Libero (che mi ha firmato
il disco ficcando un'a cerchiata dentro al suo nome). Quel disco
non l'ho mai dato via.
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La cover di “Milano” degli Sparkle in Grey |
Poi a Milano sono tornato altre volte, per studio, per lavoro,
per altri concerti, riunioni, incontri – ma alla sua luce,
al suo rumore, all'aria e alla velocità proprio non mi
ci sono mai saputo abituare, ogni volta che scendo alla stazione
Centrale mi prende un certo mal stare. Sento che potrei però
ritrovarmi a cambiare radicalmente idea e atteggiamento dopo
aver ascoltato “Milano” degli Sparkle in Grey. Chiamarlo
un disco strano è riduttivo, dai. Più lo metto
su e più mi sento spaesato – dico spaesato io che
sto seduto comodo da questa parte degli altoparlanti, immaginatevi
loro che l'hanno pensato organizzato suonato e realizzato. Non
me la sento proprio di raccontarvelo come un atto d'amore alla
città: c'è sparso ovunque un certo affetto, questo
mi sembra sì, ma ho il sospetto sia più un sinonimo
dell'abitudine all'ambiente trasformata in normalità
con poco zucchero. Quella normalità della nebbia, del
riflesso livido in cielo delle luci degli stabilimenti, la polvere
tossica che esce dal culo delle auto in coda sulle strade.
Il gruppo ha una storia che comincia nel secolo/millennio scorso
e una formazione instabile, anzi direi meglio irrequieta, raccolta
attorno a Matteo Uggeri – lui è uno smanettone,
uno che usa il computer per suonare e i pennarelli per disegnare.
I suoi compagni sono Alberto Carozzi chitarrista bravo bravo
che ho incontrato a Valdapozzo, Cristiano Lupo che dategli qualcosa
un sassofono un basso una batteria e lui li suona, e Franz Krostopovic
violinista nomefalso. Il difficile viene adesso, cioè
provare a raccontare le musiche che il gruppo ha ficcato dentro
al cd. Proprio come Milano è, anche quest'album è
un'opera complicata, contorta, stratificata, composita. Le “canzoni”
hanno obbligatoriamente delle virgolette prima e dopo e durante,
anzi mi viene da dire che più che canzoni sono ordigni
da disinnescare, sembrano petardi già con la miccia accesa,
chiodi e pezzi di vetro che il Matteo & compagni hanno ben
nascosti in quelle buste morbide e bianche e standard, un esoscheletro
dalla superficie candida e rassicurante che ha nella pancia
invece roba pericolosa da maneggiare senza una qualche precauzione.
Non ce la faccio proprio a mettere non dico ordine, ma almeno
a tracciare un itinerario ipotetico che passi attraverso a queste
canzoni campo minato e ne esca fuori integro: ciascuna è
pericolosa a modo suo, vuoi per l'ispirazione o per scelta di
frequenze, sonorità, consistenza, arrangiamento. È
un po' come ritrovarsi di sera in un bar d'alluminio che si
affaccia su quella rotonda anonima dove hanno scaricato me e
il mio amico quarant'anni e passa fa: un posto misto di vecchi
neon e led intermittenti, vetri sporchi fuori di smog e dentro
di fumo e vapore e menefreghismo, un tavolo due con intorno
gente che gioca a carte oppure sta a guardare e sprecare il
tempo – uno pare proprio Bob Corn, quei due che stanno
vincendo somigliano uno a Enzo Jannacci, pensa un po', l'altro
al professor Vecchioni. Dietro al banco una da altrove che mastica
gomma e chatta pollici veloci sullo smartphone, attaccato al
muro un megaschermo col volume a zero che passa un'intervista
concitata a vecchi amministratori locali – ehi, quelli
lì dentro stanno proprio litigando – più
sotto un blaster di sotto-sottomarca che spara fuori nientepopodimeno
che i Throbbing Gristle, suono che sembra cosa viva e invece
no è plastica – colonna sonora assolutamente perfetta.
Fuori piove, e oggi c'è sciopero dei mezzi.
Contatti: fatevi un giro turistico su www.sparkleingrey.com.
Distribuzione sotterranea, come la metro, “Milano”
lo si trova 1. nel catalogo di ADN (storica etichetta ultraindipendente
e superrecalcitrante agli ingabbiamenti stilistici) raggiungibile
su Discogs, 2. sugli scaffali di Moving Records www.movingrecords.it
e 3. tramite stella*nera (in offerta libera che come già
sapete andrà a finire male – tutti spesi in spritz
artificiali a quel bar d'alluminio) all'indirizzo appena qui
sotto.
Marco Pandin
stella_nera@tin.it
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