L'insieme di brevi saggi e articoli
qui presentati dà forma a un libro veramente impegnato,
forse quello che, fra tutti i miei (e mi si potrà accusare
di quello che si vuole, salvo di essermi sottratto alle mie
responsabilità di fronte alle questioni contemporanee),
più enfaticamente merita questa qualifica esistenzialista.
E qui mi impegno nel doppio senso della parola, cioè
prendo partito e mi pongo con le spalle al muro. L'argomento
che ho la pretesa di abbordare è talmente scabroso che
a suo proposito di solito sono in disaccordo anche con chi mi
dà occasionalmente ragione sulle questioni sociali e
politiche. D'altra parte, si tratta della questione più
perniciosamente propensa al malinteso che conosco, e anche solo
osare occuparsene è un invito ad essere immediatamente
equivocati. Pertanto, credo opportuno far precedere queste riflessioni
da un discreto e spero sincero strip-tease ideologico
e biografico. Cosa che probabilmente non servirà ad altro
che a moltiplicare gli equivoci che già prevedo, ma che
almeno rimarranno così meglio documentati...
Le pagine che seguono studiano da diverse angolature la condizione
(sociale, politica, psicologica, simbolica...) delle identità
collettive e la loro relazione con il perpetuarsi e il legittimarsi
della violenza. Non si tratta di un'indagine erudita, impeccabilmente
scientifica, né naturalmente in alcun modo neutrale.
Il mio proposito è di combattere certe idee consolidate
che considero letali, e di propugnare altri approcci o anche
solo avanzare alcuni dubbi che mi paiono molto più salutari.
Non sono uno specialista del tema, né possiedo a questo
proposito una bibliografia più esaustiva di quella che
potrebbe avere qualsiasi "dilettante" attento, ma
incurabilmente disordinato e pigro. La maggior parte dei lavori
qui riprodotti sono articoli contingenti, scritti sotto la spinta
di qualche avvenimento politico e culturale e marchiati a fuoco
dall'appassionata fugacità della notizia. Questo sì:
sono tutti pensati in diretta. E non da qualunque parte
o per chiunque, ma in Euskadi e per i miei concittadini che
qui, e nel resto della Spagna, sono come me più o meno
vittime del patriottismo. Ho scritto queste cose nella prima
metà degli anni Ottanta, ma tenendo ben presente ciò
che è avvenuto nel decennio precedente, nonché
temendo o difendendo quello che ancora può succedere.
Uno dei temi che mi hanno tenuto occupato più a lungo
durante tutto il mio lavoro intellettuale è stato quello
della istituzionalizzazione di un potere separato - lo Stato
- in una collettività umana, e le rinunce e le sottomissioni
che questo impone a chi ne fa parte. Lo Stato pretende di monopolizzare
la violenza intrasociale, obbligando ciascuno degli "associati"
a rinunciare alla propria forza e tendendo a eguagliarli, in
negativo, in un Tutto omogeneo, nel quale non rimangano più
associazioni intermedie, caste privilegiate, né alcun'altra
fonte di energia politica che possa resistere o minacciare il
monopolio del potere statale. Di fronte agli altri Stati, tuttavia,
ciascuno Stato si pone come un individuo, ossia come affermazione
e conservazione prima di tutto di se stesso per mezzo della
negazione aggressiva degli altri, non sottomettendosi ad alcuna
considerazione superiore al proprio interesse immediato. Chiunque
fra di noi si senta in qualche modo legato ad una tradizione
politica libertaria, che ebbe il suo momento più alto
di espressione collettiva recente nella protesta studentesca
(Maggio '68, per semplificare), e per tanto accetti come effettivi
ideali a medio o lungo raggio l'autogestione sociale generalizzata,
l'intervento decisorio di ciascun cittadino nell'amministrazione
della cosa pubblica, nella maniera più diretta e permanente
possibile, l'abolizione della distinzione permanente fra governanti
e governati, la diversificazione sperimentale del "normale"
nella collettività, la reinvenzione delle strutture della
vita quotidiana, e così via, inciampa in questo caso
su un nodo complesso che nessuna spada alessandrina né
alcuna soluzione volontarista può sciogliere senza che
qualcosa vada perso. Da una parte, risulta perfettamente evidente
l'esigenza di appoggiare i gruppi minoritari, gli emarginati,
gli esclusi, chiunque resista alla omogeneizzazione coattiva
dell'astrazione statale per sesso, lingua, tradizioni nazionali
non rispettate, costumi, colore della pelle, facoltà
psichiche, e altro ancora..., in una parola, tutti quelli che
rappresentano la differenza socialmente e politicamente
rivendicata, opponendosi in questa maniera al Tutto vorace e
unanime. D'altra parte, ciascuno di questi gruppi o minoranze,
identificandosi come tale, adotta immediatamente tutte
le rigidità belliche di autoglorificazione e di denigrazione
polemica del contrario o del diverso, riproducendo così
in miniatura la totalizzazione statale. Da un lato, la differenza
è schiacciata dalla coazione statale; dall'altro, diventa
una fonte di violenza irrazionale che finisce per riaffermare
la struttura militare dello Stato.
Il
problema basco
Per me, tutte queste astrazioni sommariamente riassunte nel
paragrafo precedente possiedono una loro concretizzazione biografica
e sentimentale: l'Euskadi. Nell'amore verso la mia terra natale,
nel rispetto verso le sue energiche e care virtù, e nel
riconoscimento della sua lotta per recuperare una dignità
perseguitata, ho visto la via, qualunque sia il nome che ciascuno
voglia attribuirle, per collaborare alla interminabile trasformazione
emancipatrice dell'ordine sociale. Ma, seguendo questa via,
sono venuto a cozzare contro i paradossi e le schiavitù
proprie alla lotta per la libertà. Hölderlin cantò,
con una bella immagine, che là dove si trova il maggiore
pericolo, cresce anche ciò che ci potrà salvare
da esso; ma la mia esperienza a questo proposito mi ha dolorosamente
convinto che laddove pare a portata di mano la salvezza, lì,
si trova anche l'abisso più pericoloso. Sono una persona
tanto appassionata e ostinata nella parzialità delle
mie idee quanto forse nessun'altra. Tuttavia, sempre, anche
nei miei maggiori impeti di fanatismo, conservo la capacità
di comprendere e di valorizzare le due o più opinioni
in conflitto. Forse da qui deriva la mia propensione finale
verso uno scetticismo di fondo: credo nell'azione e nella
necessità appassionata dell'azione, però quasi
in null'altro... In qualsiasi caso, non posso mai essere del
tutto "uno dei miei", e finisco sempre col rendermi
sospetto di fronte agli occhi dei miei eventuali correligionari
e irrimediabilmente contraddittorio con i miei stessi convincimenti.
Non appena adotto un punto di vista con una certa determinazione,
comincia a tentarmi con forza l'opzione opposta, e divento più
sensibile che mai ai suoi incantesimi persuasivi. Questa propensione
a incarnare la quinta colonna di me stesso non mi evita i furori
della presa di partito, ma in cambio mi priva del dolce nirvana
della affiliazione... È stata la questione dell'Euskadi,
il "problema basco", la maggior fonte di perplessità
immaginabile per la mia anima, eccessivamente polemica e incurabilmente
discordante.
Ha detto Rainer Maria Rilke che "l'unica e autentica patria
dell'uomo è la sua infanzia". Questo libro va contro
tutte le patrie, ma rimane fedele a quest'unica patria che ci
rivelò il poeta. E la mia infanzia è San Sebastián,
Fuenterrabía, Pasajes, Lezo, la bella Guipúzcoa
oppressa dal franchismo negli anni Cinquanta. Non ho sangue
basco, salvo quello che mi può arrivare per trasfusione
da un cognome Ecenarro piuttosto remoto. Mia madre è
di Madrid, mio padre di Granada; fu però notaio a San
Sebastián per quasi trenta anni: ambedue si considerarono
sempre e gioiosamente donostiarras [cittadini di San
Sebastián, dal nome basco della città: Donostia,
N.d.T.]. Da piccolo ebbi a sperimentare i paradossi persecutori
della differenza: nel collegio di San Sebastián ero solito
essere oggetto di benevole burle per la mia dizione eccessivamente
castigliana (difetto aggravato dalla mia pedante inclinazione,
da lettore precoce, verso le parole ricercate), mentre invece,
quando a tredici anni mi trasferii a Madrid, ebbi a soffrire
fra i miei compagni di un'autentica emarginazione, e di veniali
linciaggi per il mio accento eccessivamente basco. Nulla educa
tanto come la frontiera e l'esilio... sebbene siano state da
me sofferte su modestissima scala. Il grado di repressione che
dovette a quei tempi soffrire tutto ciò che era basco
potrebbe ora apparire umoristico tant'era esagerato, se non
fosse stato anche drammatico: era separatista il txistu
[strumento musicale basco simile al flauto, N.d.T.], la Real
Sociedad [la squadra di calcio di San Sebastián,
N.d.T.], lo sferisterio dove si gioca la pelota basca, l'euskera
[la lingua basca, N.d.T.], la boina [il berretto tipico
del luogo, in italiano il classico basco, N.d.T.]...
Posso raccontare un aneddoto personale che conferma una volta
di più l'irrazionalità di tale persecuzione: quando
si avvicinava il mese di agosto, numerosi clienti di mio padre
- membri di quella borghesia industriale (industriali della
carta, della plastica...) discretamente nazionalista - si presentavano
nel suo ufficio per sveltire il più possibile i loro
affari pendenti, dal momento che dovevano "partire per
le vacanze"; questo eufemismo mascherava il fatto che venivano
deportati, o condotti nel carcere di Martutene, per il periodo
in cui durava la visita estiva di Franco e l'Azor, il panfilo
di Hitler, rimaneva ancorato nella baia di La Concha. Non è
strano se i figli di quei pacifici borghesi maltrattati formarono
poi i quadri dell'ETA... Da quando ebbi la capacità di
ragionare da me - cosa che, secondo quanto credo di ricordare,
non avvenne troppo tardi, viste le circostanze - non ho mai
dubitato del diritto dei baschi al pieno riconoscimento della
loro lingua, dei loro costumi, delle loro particolarità
e della loro autodeterminazione politica pluralista e democratica.
Continuo senz'altro a pensare esattamente la stessa cosa. Però
non ho neppure pensato che ci sia una sola ed autentica immagine
del basco (io sono una prova vivente del contrario), né
che la protezione e il rafforzamento della lingua basca debbano
passare attraverso l'avversione al castigliano, e neppure che
l'aver sofferto un'iniqua repressione autorizzi a qualsiasi
vendicativa violenza, e altre cose del genere. Se a questo si
unisce la mia mania di parlare e scrivere nella maniera più
chiara e diretta possibile, si può ben capire l'origine
della mia eretica impopolarità fra i "puri e duri"
delle due patrie in conflitto.
Una
cagnara provinciale
Tutte le anime possiedono uno o più punti ciechi, zone
dello spirito che non rispondono agli stimoli simbolici abituali.
Il patriottismo è il più notevole degli angoli
renitenti della mia. Ciò non vuole dire che io sia insensibile
allo spettacolo della lealtà, delle bandiere o della
gloria. Tutt'altro: qualsiasi cosa che esalti e tonifichi l'uomo
mi pare immediatamente degna di commozione. Facilmente vengo
toccato da un sentimento di simpatia collettiva, soprattutto
quando è rivestita da un'aura eroica. Posso versare lacrime
ascoltando una marcia di cornamuse scozzesi o la Marsigliese,
vedendo in un film intonare l'Internazionale o contemplando
la sconfitta di Rommel nel deserto africano; a Venezia, mi entusiasmo
per gli orgogliosi trionfi del Leone di San Marco, e sono capace
tanto di commuovermi di fronte all'estasi dei grattacieli di
New York quanto di ammirare la tenacia dei guerriglieri centroamericani.
In una parola, parteggio per tutti i patriottismi, non per uno
solo, non per uno che possa chiamare mio. Sento le peculiarità
della mia terra, ma amo anche con versatile ingenuità
quelle di qualsiasi altra. E, senza ombra di dubbio, detesto
i patrioti d'ufficio e per convenienza, i maniaci dell'unilateralità,
i professionisti della glorificazione di ciò che è
"della casa", coloro che si pavoneggiano vantando
il vino del loro paese natale o il nome celebre di un concittadino
come si trattasse di una medaglia vinta per merito proprio.
Solo chi non vale nulla per se stesso può credere di
aver qualche merito per l'esser nato in un determinato posto
o sotto una determinata bandiera.
D'altro canto, sin da molto giovane considerai i nazionalismi
come una grave disgrazia collettiva, come la principale nemica
della pace fra i Paesi e dell'emancipazione degli individui.
L'unica tessera di un'associazione politica che abbia mai posseduto
in vita mia è stata quella di mondialista, un
gruppo cosmopolita che aveva la pretesa di abolire gli Stati
nazionali per formare un'universale "assemblea dei popoli".
I suoi promotori erano, fra gli altri, Bertrand Russell, lord
Boyd Orr, Alfred Kastler e il sindaco di Hiroshima; in Spagna
credo che il suo principale rappresentante a quell'epoca (fine
anni Sessanta) fosse il padre gesuita José María
Llanos. Più tardi, confesso di aver sviluppato un certo
sciovinismo europeista, che col tempo è finito per affinarsi
dentro di me in un'opzione politica razionale: provo un'emozione
verso l'Europa, e vedo nell'unione continentale la migliore
alternativa ai due grandi imperi che ci schiacciano. All'infuori
di questa ampia federazione tutto mi sembra solo una provinciale
cagnara...¹
Nella foto: Bayanne, le lapidi ai caduti dell'ETA
Delirio
patriottico-criminale
Se dall'inizio della transizione democratica ho appoggiato
con decisione le autonomie storiche in Spagna, non è
stato certamente per il più remoto sentimento di nazionalismo
basco o catalano, ma per una profonda nausea verso il patriottismo
nazionalista spagnolo. Come dicevo nel mio saggio El nacionalismo
performativo, pubblicato nel 1977, c'è un uso antistatale
del nazionalismo, proprio della seconda metà di questo
secolo, per mezzo del quale i membri delle collettività
istituite cercano una partecipazione più diretta e "sentita"
nella gestione dei loro affari che quella propinata dall'astrazione
uniformatrice dello Stato centralizzatore. Ma, già allora,
insistetti abbondantemente sul fatto che "non è
la stessa cosa rendersi indipendenti dallo Stato e fondare uno
Stato indipendente"; non si curano i mali dello Stato facendone
uno più piccolino e poi mettendogli sopra il cappello...
Certamente, il movimento autonomista ridestò immediatamente
le meschinità burocratiche del centralismo, le ire dei
paladini della "sacra unità della Spagna" e
le sospettose proteste di coloro che vedono sempre nell'altrui
particolarità - rispettata soltanto a parole - voglie
più o meno dichiarate di dar fastidio a qualcuno. Abbondano
gli esempi a questo proposito, incluso il famoso e penoso manifesto
degli intellettuali anticatalanisti, le cui esagerazioni inopportune
non riuscirono a raggiungere altro risultato che impedire una
discussione serena su quelle due o tre denuncie di veri e propri
abusi che riportava il loro testo.
Non ho mai appoggiato alcuna di queste posizioni restrittive
e neo-spagnoliste, né mai le appoggerò in futuro.
Ma nemmeno starò mai al fianco di coloro che concepiscono
la rivendicazione delle culture emarginate come folclorismo
a buon mercato e come negazione risentita della funzione cosmopolita
dell'arte, della letteratura e della scienza. Né mi pare
più difendibile il delirio patriottico-criminale di coloro
che fanno del nazionalismo radicale la bandiera di una lotta
armata che può rovinare non solo il popolo che si dichiara
di voler difendere, ma perfino la democrazia in tutto lo Stato.
Rispetto a ciò, ho sempre difeso i medesimi punti di
vista: chi lo dubita può consultare, se lo desidera,
il mio sopraccitato El nacionalismo performativo e Nacionalismo
y violencia en Euskadi (ambedue inclusi nel mio libro Impertinencias
y desafíos, Legasa, 1979) e ancora Del terror
y la violencia (in Para la anarquía, Tusquets,
1977). Al proposito, quando presentai questo ultimo testo ad
una tavola rotonda sullo Stato, condotta dal cordiale e saggio
François Châtelet all'Università di Vincennes,
ebbi un piccolo scontro dialettico con J. F. Lyotard riguardo
all'attentato nel quale perse la vita Carrero Blanco: allora,
come sempre, mi mostrai contrario - per ragioni non solo etiche
ma anche politiche - alla pedagogia della violenza e all'utilità
del sic semper tyrannis.
Mafia
terrorista
Quattro anni fa ho avuto la cattedra nella Facoltà di
Filosofia di Zorroaga, a San Sebastián, che fa parte
dell'Università dei Paesi Baschi. Mi è parsa una
posizione più onorevole e stimolante che non continuare
ad essere un "abertzale da salotto" a Madrid
[abertzale nell'ambito dell'indipendentismo basco significa
patriota, N.d.T.], come tanti altri che per nostra disgrazia
conosciamo. Inoltre, spiegare che l'etica è la ricerca
della comunicazione razionale e il rifiuto della violenza mi
pareva un lavoro più necessario e pressante nella mia
terra piuttosto che altrove, poiché la perdizione o la
rigenerazione dell'Euskadi dipende proprio da questa gioventù
sempre più desiderosa di sapere e sempre più stufa
di parole d'ordine. Questa permanenza in terra basca mi ha permesso
di provare sulla mia pelle alcune cose. In primo luogo, ho visto
come la vitalità comunitaria, ludica, e il desiderio
di cambiare le tante cattive abitudini quotidiane che caratterizzano
il popolo basco dagli inizi degli anni Settanta hanno sofferto
in certa misura di un corto circuito per la polarizzazione del
"violenza sì/violenza no" che oggi predomina
in Euskadi. Rispetto a ciò, credo più che mai
nell'assioma di Bart de Ligt, esposto nel suo The Conquest
of Violence (1937): "Quanta più violenza, tanto
meno rivoluzione". Quanta ragione ha avuto, ha ed avrà
questo detto! In secondo luogo, ho provato sul terreno che la
semplice e stupida repressione, il mantenimento vergognoso o
spudorato della tortura, la guerra sporca (ossia l'assassinio
eseguito in nome di una difesa illegale della legalità)
non servono ad altro che a generare e poi rafforzare la mafia
terrorista e quel confuso accecamento patriottico che le fornisce
un alibi. Ho constatato inoltre le grottesche limitazioni dell'idea
nazionalista nella cultura universitaria. Il dipartimento di
Filosofia di Zorroaga è stato ed è ancora mentre
sto scrivendo queste righe - ma non so purtroppo per quanto
tempo ancora - uno degli esperimenti di docenza e di intellettualità
più stimolanti all'interno dell'intera università
spagnola negli ultimi anni: fra le sue fila si contano professori
del calibro di Jacques Derrida e Félix de Azúa,
Rafael Sánchez Ferlosio e Pierre Aubenque, Víctor
Gómez Pin, Miguel Sánchez Mazas, Tomás
Pollán, Victor Sánchez de Zabala, Javier Fernández
de Castro, Javier Echeverría, Vicente Molina Foix, poeti,
biologi, fisici, romanzieri, critici d'arte, eccetera. Abbiamo
avuto fra i nostri professori catalani, leonesi, valenziani,
castigliani, andalusi e naturalmente baschi. Siamo stati dei
pionieri nello sforzo di convertire la lingua basca in un linguaggio
filosofico di uso universitario. Però non siamo stati
né partigiani né folclorici, e non abbiamo fomentato
a nessun livello la mitologia del kaiku [tipico indumento
basco: una giacchetta di panno per le cerimonie, N.d.T.]. Per
questo siamo risultati "sospetti", ci siamo trovati
di fronte a mille difficoltà burocratiche risibili o
irritanti, e soprattutto non abbiamo ricevuto un solo gesto
positivo di riconoscimento e di incoraggiamento da parte
delle autorità accademiche o dal ministero della Cultura
del governo basco. È penoso constatare come quest'ultimo
abbia continuato a dar più ascolto ai gesuiti dell'Università
di Deusto che a noi. Recentemente con il motivo di omaggiare
l'appena scomparso Xavier Zubiri - convertito nell'Aristotele
del xx secolo da una sempre ben informata autorità locale
- in una commemorazione cui il nostro dipartimento non è
stato nemmeno invitato, si è parlato della "scarso
radicamento della Facoltà di Filosofia nella realtà
dei Paesi Baschi". Fare settimane di studi su Goethe, Marx,
Gerarchia, Potere e così via, che hanno attirato un numerosissimo
pubblico, è pertanto una cosa senza interesse, a quanto
pare, soprattutto se paragonata ad una qualsiasi sessione beatificatrice
di catecumeni aranisti [seguaci di Sabino Arana Goiri, fondatore
nel 1894 del pnv, il Partido Nacionalista Vasco, N.d.T.]. E
allora, porca miseria... [in italiano nel testo, N.d.T.].
Nella foto: la moglie di un militante dell'ETA ucciso
in un attentato
Esplicita
testimonianza
Infine, la più dolorosa e allarmante delle mie constatazioni
è stata quella della paura imperante in Euskadi
di dire chiaramente quello che si pensa quando si pensa veramente.
Non semplice paura che ti sparino addosso o che ti considerino
un apologeta del terrorismo (non c'è nulla di più
facile che correre ambedue i rischi simultaneamente), ma la
paura che ci si faccia il vuoto attorno, che si perdano gli
amici, che ci chiudano le loro pagine i giornali locali o che
la gente si allontani dal nostro fianco all'ora del poteo [espressione
basca che indica la consuetudine conviviale di passare di bar
in bar, fermandosi in ognuno a bere almeno un bicchiere, N.d.T.].
Se qualcosa di elogiabile hanno le considerazioni che seguono
- limitate per tante ragioni ma soprattutto per le evidenti
insufficienze dell'autore - è che sono state scritte
con rispetto e con appassionata onestà, ma senza paura.
A tutti quelli che in Euskadi pensano ma ancora tacciono, "perché
siamo fra due fuochi e non vogliamo fare il gioco di nessuno",
io ricordo questo passo del maestro messicano Alfonso Reyes:
"E, tuttavia, diciamo ancora con Saint-Beuve che ci sono
momenti in cui tutti i cittadini devono leggere, notte dopo
notte, una pagina di Montaigne. Nell'atteg-giamento di Montaigne
di fronte al suo secolo non scopriremo alcuna debolezza, né
alcunché che ce ne dia il diritto: rimanere sereni di
fronte alle follie popolari è infatti il più grande
eroismo. I capi della politica sono generalmente uomini sciocchi
e letterati falliti. Nobiltà d'animo è non darsi
a loro, anche quando i ghibellini ci prendono per guelfi, e
i guelfi per ghibellini". E non si dimentichi nemmeno che
a volte, fra gli impegni di un lucido e sereno scetticismo,
vi è anche quello, sempre delicato, di convertirsi in
un'esplicita testimonianza.
Fernando Savater
(Traduzione dal castigliano
di Nicola Del Corno)
|
Nato
San Sebastian (Paesi Baschi), Fernando Savater è
attualmente docente di Filosofia nell'Università
di Madrid. Autore di numerosi libri (non solo saggi
ma anche romanzi ed opere teatrali), ricordiamo
tra le sue opere più recenti apparse in edizione
italiana: Politica per un figlio (Laterza,
1995), Dizionario filosofico (Laterza, 1995),
A mia madre, mia prima maestra (Laterza,
1997), Etica per un figlio (Laterza, 1997),
Etica come amor proprio (Laterza, 1998).
Savater ha partecipato più volte ad iniziative
culturali promosse dal movimento libertario spagnolo,
a volte in occasione dei congressi della CNT - il
sindacato di ispirazione anarcosindacalista.
Il volume ora pubblicato da Eleuthera (pagg. 180,
lire 25.000) è originariamente apparso in
Spagna nel 1984 e ripubblicato, con una nuova introduzione,
nel '96. Questa prima edizione italiana si apre
con una prefazione di José Angel Gonzàlez
Sainz, docente di Letteratura spagnola nel Dipartimento
di Iberistica dell'Università di Venezia.
|
|
|