Rivista Anarchica Online


Contro tutti i nazionalismi
di Fernando Savater


Nella foto: una manifestazione per l'istituzione della scuola di lingua basca

Esce nelle librerie un nuovo libro di Fernando Savater.
Una lucida, appassionata denuncia delle follie dei nazionalismi.
Eccone la premessa.

L'insieme di brevi saggi e articoli qui presentati dà forma a un libro veramente impegnato, forse quello che, fra tutti i miei (e mi si potrà accusare di quello che si vuole, salvo di essermi sottratto alle mie responsabilità di fronte alle questioni contemporanee), più enfaticamente merita questa qualifica esistenzialista. E qui mi impegno nel doppio senso della parola, cioè prendo partito e mi pongo con le spalle al muro. L'argomento che ho la pretesa di abbordare è talmente scabroso che a suo proposito di solito sono in disaccordo anche con chi mi dà occasionalmente ragione sulle questioni sociali e politiche. D'altra parte, si tratta della questione più perniciosamente propensa al malinteso che conosco, e anche solo osare occuparsene è un invito ad essere immediatamente equivocati. Pertanto, credo opportuno far precedere queste riflessioni da un discreto e spero sincero strip-tease ideologico e biografico. Cosa che probabilmente non servirà ad altro che a moltiplicare gli equivoci che già prevedo, ma che almeno rimarranno così meglio documentati...
Le pagine che seguono studiano da diverse angolature la condizione (sociale, politica, psicologica, simbolica...) delle identità collettive e la loro relazione con il perpetuarsi e il legittimarsi della violenza. Non si tratta di un'indagine erudita, impeccabilmente scientifica, né naturalmente in alcun modo neutrale. Il mio proposito è di combattere certe idee consolidate che considero letali, e di propugnare altri approcci o anche solo avanzare alcuni dubbi che mi paiono molto più salutari. Non sono uno specialista del tema, né possiedo a questo proposito una bibliografia più esaustiva di quella che potrebbe avere qualsiasi "dilettante" attento, ma incurabilmente disordinato e pigro. La maggior parte dei lavori qui riprodotti sono articoli contingenti, scritti sotto la spinta di qualche avvenimento politico e culturale e marchiati a fuoco dall'appassionata fugacità della notizia. Questo sì: sono tutti pensati in diretta. E non da qualunque parte o per chiunque, ma in Euskadi e per i miei concittadini che qui, e nel resto della Spagna, sono come me più o meno vittime del patriottismo. Ho scritto queste cose nella prima metà degli anni Ottanta, ma tenendo ben presente ciò che è avvenuto nel decennio precedente, nonché temendo o difendendo quello che ancora può succedere.
Uno dei temi che mi hanno tenuto occupato più a lungo durante tutto il mio lavoro intellettuale è stato quello della istituzionalizzazione di un potere separato - lo Stato - in una collettività umana, e le rinunce e le sottomissioni che questo impone a chi ne fa parte. Lo Stato pretende di monopolizzare la violenza intrasociale, obbligando ciascuno degli "associati" a rinunciare alla propria forza e tendendo a eguagliarli, in negativo, in un Tutto omogeneo, nel quale non rimangano più associazioni intermedie, caste privilegiate, né alcun'altra fonte di energia politica che possa resistere o minacciare il monopolio del potere statale. Di fronte agli altri Stati, tuttavia, ciascuno Stato si pone come un individuo, ossia come affermazione e conservazione prima di tutto di se stesso per mezzo della negazione aggressiva degli altri, non sottomettendosi ad alcuna considerazione superiore al proprio interesse immediato. Chiunque fra di noi si senta in qualche modo legato ad una tradizione politica libertaria, che ebbe il suo momento più alto di espressione collettiva recente nella protesta studentesca (Maggio '68, per semplificare), e per tanto accetti come effettivi ideali a medio o lungo raggio l'autogestione sociale generalizzata, l'intervento decisorio di ciascun cittadino nell'amministrazione della cosa pubblica, nella maniera più diretta e permanente possibile, l'abolizione della distinzione permanente fra governanti e governati, la diversificazione sperimentale del "normale" nella collettività, la reinvenzione delle strutture della vita quotidiana, e così via, inciampa in questo caso su un nodo complesso che nessuna spada alessandrina né alcuna soluzione volontarista può sciogliere senza che qualcosa vada perso. Da una parte, risulta perfettamente evidente l'esigenza di appoggiare i gruppi minoritari, gli emarginati, gli esclusi, chiunque resista alla omogeneizzazione coattiva dell'astrazione statale per sesso, lingua, tradizioni nazionali non rispettate, costumi, colore della pelle, facoltà psichiche, e altro ancora..., in una parola, tutti quelli che rappresentano la differenza socialmente e politicamente rivendicata, opponendosi in questa maniera al Tutto vorace e unanime. D'altra parte, ciascuno di questi gruppi o minoranze, identificandosi come tale, adotta immediatamente tutte le rigidità belliche di autoglorificazione e di denigrazione polemica del contrario o del diverso, riproducendo così in miniatura la totalizzazione statale. Da un lato, la differenza è schiacciata dalla coazione statale; dall'altro, diventa una fonte di violenza irrazionale che finisce per riaffermare la struttura militare dello Stato.

 

Il problema basco

Per me, tutte queste astrazioni sommariamente riassunte nel paragrafo precedente possiedono una loro concretizzazione biografica e sentimentale: l'Euskadi. Nell'amore verso la mia terra natale, nel rispetto verso le sue energiche e care virtù, e nel riconoscimento della sua lotta per recuperare una dignità perseguitata, ho visto la via, qualunque sia il nome che ciascuno voglia attribuirle, per collaborare alla interminabile trasformazione emancipatrice dell'ordine sociale. Ma, seguendo questa via, sono venuto a cozzare contro i paradossi e le schiavitù proprie alla lotta per la libertà. Hölderlin cantò, con una bella immagine, che là dove si trova il maggiore pericolo, cresce anche ciò che ci potrà salvare da esso; ma la mia esperienza a questo proposito mi ha dolorosamente convinto che laddove pare a portata di mano la salvezza, lì, si trova anche l'abisso più pericoloso. Sono una persona tanto appassionata e ostinata nella parzialità delle mie idee quanto forse nessun'altra. Tuttavia, sempre, anche nei miei maggiori impeti di fanatismo, conservo la capacità di comprendere e di valorizzare le due o più opinioni in conflitto. Forse da qui deriva la mia propensione finale verso uno scetticismo di fondo: credo nell'azione e nella necessità appassionata dell'azione, però quasi in null'altro... In qualsiasi caso, non posso mai essere del tutto "uno dei miei", e finisco sempre col rendermi sospetto di fronte agli occhi dei miei eventuali correligionari e irrimediabilmente contraddittorio con i miei stessi convincimenti. Non appena adotto un punto di vista con una certa determinazione, comincia a tentarmi con forza l'opzione opposta, e divento più sensibile che mai ai suoi incantesimi persuasivi. Questa propensione a incarnare la quinta colonna di me stesso non mi evita i furori della presa di partito, ma in cambio mi priva del dolce nirvana della affiliazione... È stata la questione dell'Euskadi, il "problema basco", la maggior fonte di perplessità immaginabile per la mia anima, eccessivamente polemica e incurabilmente discordante.
Ha detto Rainer Maria Rilke che "l'unica e autentica patria dell'uomo è la sua infanzia". Questo libro va contro tutte le patrie, ma rimane fedele a quest'unica patria che ci rivelò il poeta. E la mia infanzia è San Sebastián, Fuenterrabía, Pasajes, Lezo, la bella Guipúzcoa oppressa dal franchismo negli anni Cinquanta. Non ho sangue basco, salvo quello che mi può arrivare per trasfusione da un cognome Ecenarro piuttosto remoto. Mia madre è di Madrid, mio padre di Granada; fu però notaio a San Sebastián per quasi trenta anni: ambedue si considerarono sempre e gioiosamente donostiarras [cittadini di San Sebastián, dal nome basco della città: Donostia, N.d.T.]. Da piccolo ebbi a sperimentare i paradossi persecutori della differenza: nel collegio di San Sebastián ero solito essere oggetto di benevole burle per la mia dizione eccessivamente castigliana (difetto aggravato dalla mia pedante inclinazione, da lettore precoce, verso le parole ricercate), mentre invece, quando a tredici anni mi trasferii a Madrid, ebbi a soffrire fra i miei compagni di un'autentica emarginazione, e di veniali linciaggi per il mio accento eccessivamente basco. Nulla educa tanto come la frontiera e l'esilio... sebbene siano state da me sofferte su modestissima scala. Il grado di repressione che dovette a quei tempi soffrire tutto ciò che era basco potrebbe ora apparire umoristico tant'era esagerato, se non fosse stato anche drammatico: era separatista il txistu [strumento musicale basco simile al flauto, N.d.T.], la Real Sociedad [la squadra di calcio di San Sebastián, N.d.T.], lo sferisterio dove si gioca la pelota basca, l'euskera [la lingua basca, N.d.T.], la boina [il berretto tipico del luogo, in italiano il classico basco, N.d.T.]...
Posso raccontare un aneddoto personale che conferma una volta di più l'irrazionalità di tale persecuzione: quando si avvicinava il mese di agosto, numerosi clienti di mio padre - membri di quella borghesia industriale (industriali della carta, della plastica...) discretamente nazionalista - si presentavano nel suo ufficio per sveltire il più possibile i loro affari pendenti, dal momento che dovevano "partire per le vacanze"; questo eufemismo mascherava il fatto che venivano deportati, o condotti nel carcere di Martutene, per il periodo in cui durava la visita estiva di Franco e l'Azor, il panfilo di Hitler, rimaneva ancorato nella baia di La Concha. Non è strano se i figli di quei pacifici borghesi maltrattati formarono poi i quadri dell'ETA... Da quando ebbi la capacità di ragionare da me - cosa che, secondo quanto credo di ricordare, non avvenne troppo tardi, viste le circostanze - non ho mai dubitato del diritto dei baschi al pieno riconoscimento della loro lingua, dei loro costumi, delle loro particolarità e della loro autodeterminazione politica pluralista e democratica. Continuo senz'altro a pensare esattamente la stessa cosa. Però non ho neppure pensato che ci sia una sola ed autentica immagine del basco (io sono una prova vivente del contrario), né che la protezione e il rafforzamento della lingua basca debbano passare attraverso l'avversione al castigliano, e neppure che l'aver sofferto un'iniqua repressione autorizzi a qualsiasi vendicativa violenza, e altre cose del genere. Se a questo si unisce la mia mania di parlare e scrivere nella maniera più chiara e diretta possibile, si può ben capire l'origine della mia eretica impopolarità fra i "puri e duri" delle due patrie in conflitto.

 

Una cagnara provinciale

Tutte le anime possiedono uno o più punti ciechi, zone dello spirito che non rispondono agli stimoli simbolici abituali.
Il patriottismo è il più notevole degli angoli renitenti della mia. Ciò non vuole dire che io sia insensibile allo spettacolo della lealtà, delle bandiere o della gloria. Tutt'altro: qualsiasi cosa che esalti e tonifichi l'uomo mi pare immediatamente degna di commozione. Facilmente vengo toccato da un sentimento di simpatia collettiva, soprattutto quando è rivestita da un'aura eroica. Posso versare lacrime ascoltando una marcia di cornamuse scozzesi o la Marsigliese, vedendo in un film intonare l'Internazionale o contemplando la sconfitta di Rommel nel deserto africano; a Venezia, mi entusiasmo per gli orgogliosi trionfi del Leone di San Marco, e sono capace tanto di commuovermi di fronte all'estasi dei grattacieli di New York quanto di ammirare la tenacia dei guerriglieri centroamericani. In una parola, parteggio per tutti i patriottismi, non per uno solo, non per uno che possa chiamare mio. Sento le peculiarità della mia terra, ma amo anche con versatile ingenuità quelle di qualsiasi altra. E, senza ombra di dubbio, detesto i patrioti d'ufficio e per convenienza, i maniaci dell'unilateralità, i professionisti della glorificazione di ciò che è "della casa", coloro che si pavoneggiano vantando il vino del loro paese natale o il nome celebre di un concittadino come si trattasse di una medaglia vinta per merito proprio. Solo chi non vale nulla per se stesso può credere di aver qualche merito per l'esser nato in un determinato posto o sotto una determinata bandiera.
D'altro canto, sin da molto giovane considerai i nazionalismi come una grave disgrazia collettiva, come la principale nemica della pace fra i Paesi e dell'emancipazione degli individui. L'unica tessera di un'associazione politica che abbia mai posseduto in vita mia è stata quella di mondialista, un gruppo cosmopolita che aveva la pretesa di abolire gli Stati nazionali per formare un'universale "assemblea dei popoli". I suoi promotori erano, fra gli altri, Bertrand Russell, lord Boyd Orr, Alfred Kastler e il sindaco di Hiroshima; in Spagna credo che il suo principale rappresentante a quell'epoca (fine anni Sessanta) fosse il padre gesuita José María Llanos. Più tardi, confesso di aver sviluppato un certo sciovinismo europeista, che col tempo è finito per affinarsi dentro di me in un'opzione politica razionale: provo un'emozione verso l'Europa, e vedo nell'unione continentale la migliore alternativa ai due grandi imperi che ci schiacciano. All'infuori di questa ampia federazione tutto mi sembra solo una provinciale cagnara...¹


Nella foto: Bayanne, le lapidi ai caduti dell'ETA

 

Delirio patriottico-criminale

Se dall'inizio della transizione democratica ho appoggiato con decisione le autonomie storiche in Spagna, non è stato certamente per il più remoto sentimento di nazionalismo basco o catalano, ma per una profonda nausea verso il patriottismo nazionalista spagnolo. Come dicevo nel mio saggio El nacionalismo performativo, pubblicato nel 1977, c'è un uso antistatale del nazionalismo, proprio della seconda metà di questo secolo, per mezzo del quale i membri delle collettività istituite cercano una partecipazione più diretta e "sentita" nella gestione dei loro affari che quella propinata dall'astrazione uniformatrice dello Stato centralizzatore. Ma, già allora, insistetti abbondantemente sul fatto che "non è la stessa cosa rendersi indipendenti dallo Stato e fondare uno Stato indipendente"; non si curano i mali dello Stato facendone uno più piccolino e poi mettendogli sopra il cappello... Certamente, il movimento autonomista ridestò immediatamente le meschinità burocratiche del centralismo, le ire dei paladini della "sacra unità della Spagna" e le sospettose proteste di coloro che vedono sempre nell'altrui particolarità - rispettata soltanto a parole - voglie più o meno dichiarate di dar fastidio a qualcuno. Abbondano gli esempi a questo proposito, incluso il famoso e penoso manifesto degli intellettuali anticatalanisti, le cui esagerazioni inopportune non riuscirono a raggiungere altro risultato che impedire una discussione serena su quelle due o tre denuncie di veri e propri abusi che riportava il loro testo.
Non ho mai appoggiato alcuna di queste posizioni restrittive e neo-spagnoliste, né mai le appoggerò in futuro. Ma nemmeno starò mai al fianco di coloro che concepiscono la rivendicazione delle culture emarginate come folclorismo a buon mercato e come negazione risentita della funzione cosmopolita dell'arte, della letteratura e della scienza. Né mi pare più difendibile il delirio patriottico-criminale di coloro che fanno del nazionalismo radicale la bandiera di una lotta armata che può rovinare non solo il popolo che si dichiara di voler difendere, ma perfino la democrazia in tutto lo Stato. Rispetto a ciò, ho sempre difeso i medesimi punti di vista: chi lo dubita può consultare, se lo desidera, il mio sopraccitato El nacionalismo performativo e Nacionalismo y violencia en Euskadi (ambedue inclusi nel mio libro Impertinencias y desafíos, Legasa, 1979) e ancora Del terror y la violencia (in Para la anarquía, Tusquets, 1977). Al proposito, quando presentai questo ultimo testo ad una tavola rotonda sullo Stato, condotta dal cordiale e saggio François Châtelet all'Università di Vincennes, ebbi un piccolo scontro dialettico con J. F. Lyotard riguardo all'attentato nel quale perse la vita Carrero Blanco: allora, come sempre, mi mostrai contrario - per ragioni non solo etiche ma anche politiche - alla pedagogia della violenza e all'utilità del sic semper tyrannis.

 

Mafia terrorista

Quattro anni fa ho avuto la cattedra nella Facoltà di Filosofia di Zorroaga, a San Sebastián, che fa parte dell'Università dei Paesi Baschi. Mi è parsa una posizione più onorevole e stimolante che non continuare ad essere un "abertzale da salotto" a Madrid [abertzale nell'ambito dell'indipendentismo basco significa patriota, N.d.T.], come tanti altri che per nostra disgrazia conosciamo. Inoltre, spiegare che l'etica è la ricerca della comunicazione razionale e il rifiuto della violenza mi pareva un lavoro più necessario e pressante nella mia terra piuttosto che altrove, poiché la perdizione o la rigenerazione dell'Euskadi dipende proprio da questa gioventù sempre più desiderosa di sapere e sempre più stufa di parole d'ordine. Questa permanenza in terra basca mi ha permesso di provare sulla mia pelle alcune cose. In primo luogo, ho visto come la vitalità comunitaria, ludica, e il desiderio di cambiare le tante cattive abitudini quotidiane che caratterizzano il popolo basco dagli inizi degli anni Settanta hanno sofferto in certa misura di un corto circuito per la polarizzazione del "violenza sì/violenza no" che oggi predomina in Euskadi. Rispetto a ciò, credo più che mai nell'assioma di Bart de Ligt, esposto nel suo The Conquest of Violence (1937): "Quanta più violenza, tanto meno rivoluzione". Quanta ragione ha avuto, ha ed avrà questo detto! In secondo luogo, ho provato sul terreno che la semplice e stupida repressione, il mantenimento vergognoso o spudorato della tortura, la guerra sporca (ossia l'assassinio eseguito in nome di una difesa illegale della legalità) non servono ad altro che a generare e poi rafforzare la mafia terrorista e quel confuso accecamento patriottico che le fornisce un alibi. Ho constatato inoltre le grottesche limitazioni dell'idea nazionalista nella cultura universitaria. Il dipartimento di Filosofia di Zorroaga è stato ed è ancora mentre sto scrivendo queste righe - ma non so purtroppo per quanto tempo ancora - uno degli esperimenti di docenza e di intellettualità più stimolanti all'interno dell'intera università spagnola negli ultimi anni: fra le sue fila si contano professori del calibro di Jacques Derrida e Félix de Azúa, Rafael Sánchez Ferlosio e Pierre Aubenque, Víctor Gómez Pin, Miguel Sánchez Mazas, Tomás Pollán, Victor Sánchez de Zabala, Javier Fernández de Castro, Javier Echeverría, Vicente Molina Foix, poeti, biologi, fisici, romanzieri, critici d'arte, eccetera. Abbiamo avuto fra i nostri professori catalani, leonesi, valenziani, castigliani, andalusi e naturalmente baschi. Siamo stati dei pionieri nello sforzo di convertire la lingua basca in un linguaggio filosofico di uso universitario. Però non siamo stati né partigiani né folclorici, e non abbiamo fomentato a nessun livello la mitologia del kaiku [tipico indumento basco: una giacchetta di panno per le cerimonie, N.d.T.]. Per questo siamo risultati "sospetti", ci siamo trovati di fronte a mille difficoltà burocratiche risibili o irritanti, e soprattutto non abbiamo ricevuto un solo gesto positivo di riconoscimento e di incoraggiamento da parte delle autorità accademiche o dal ministero della Cultura del governo basco. È penoso constatare come quest'ultimo abbia continuato a dar più ascolto ai gesuiti dell'Università di Deusto che a noi. Recentemente con il motivo di omaggiare l'appena scomparso Xavier Zubiri - convertito nell'Aristotele del xx secolo da una sempre ben informata autorità locale - in una commemorazione cui il nostro dipartimento non è stato nemmeno invitato, si è parlato della "scarso radicamento della Facoltà di Filosofia nella realtà dei Paesi Baschi". Fare settimane di studi su Goethe, Marx, Gerarchia, Potere e così via, che hanno attirato un numerosissimo pubblico, è pertanto una cosa senza interesse, a quanto pare, soprattutto se paragonata ad una qualsiasi sessione beatificatrice di catecumeni aranisti [seguaci di Sabino Arana Goiri, fondatore nel 1894 del pnv, il Partido Nacionalista Vasco, N.d.T.]. E allora, porca miseria... [in italiano nel testo, N.d.T.].

 


Nella foto: la moglie di un militante dell'ETA ucciso in un attentato

 

Esplicita testimonianza

Infine, la più dolorosa e allarmante delle mie constatazioni è stata quella della paura imperante in Euskadi di dire chiaramente quello che si pensa quando si pensa veramente. Non semplice paura che ti sparino addosso o che ti considerino un apologeta del terrorismo (non c'è nulla di più facile che correre ambedue i rischi simultaneamente), ma la paura che ci si faccia il vuoto attorno, che si perdano gli amici, che ci chiudano le loro pagine i giornali locali o che la gente si allontani dal nostro fianco all'ora del poteo [espressione basca che indica la consuetudine conviviale di passare di bar in bar, fermandosi in ognuno a bere almeno un bicchiere, N.d.T.]. Se qualcosa di elogiabile hanno le considerazioni che seguono - limitate per tante ragioni ma soprattutto per le evidenti insufficienze dell'autore - è che sono state scritte con rispetto e con appassionata onestà, ma senza paura. A tutti quelli che in Euskadi pensano ma ancora tacciono, "perché siamo fra due fuochi e non vogliamo fare il gioco di nessuno", io ricordo questo passo del maestro messicano Alfonso Reyes: "E, tuttavia, diciamo ancora con Saint-Beuve che ci sono momenti in cui tutti i cittadini devono leggere, notte dopo notte, una pagina di Montaigne. Nell'atteg-giamento di Montaigne di fronte al suo secolo non scopriremo alcuna debolezza, né alcunché che ce ne dia il diritto: rimanere sereni di fronte alle follie popolari è infatti il più grande eroismo. I capi della politica sono generalmente uomini sciocchi e letterati falliti. Nobiltà d'animo è non darsi a loro, anche quando i ghibellini ci prendono per guelfi, e i guelfi per ghibellini". E non si dimentichi nemmeno che a volte, fra gli impegni di un lucido e sereno scetticismo, vi è anche quello, sempre delicato, di convertirsi in un'esplicita testimonianza.

Fernando Savater
(Traduzione dal castigliano
di Nicola Del Corno)

 

Nato San Sebastian (Paesi Baschi), Fernando Savater è attualmente docente di Filosofia nell'Università di Madrid. Autore di numerosi libri (non solo saggi ma anche romanzi ed opere teatrali), ricordiamo tra le sue opere più recenti apparse in edizione italiana: Politica per un figlio (Laterza, 1995), Dizionario filosofico (Laterza, 1995), A mia madre, mia prima maestra (Laterza, 1997), Etica per un figlio (Laterza, 1997), Etica come amor proprio (Laterza, 1998). Savater ha partecipato più volte ad iniziative culturali promosse dal movimento libertario spagnolo, a volte in occasione dei congressi della CNT - il sindacato di ispirazione anarcosindacalista.

Il volume ora pubblicato da Eleuthera (pagg. 180, lire 25.000) è originariamente apparso in Spagna nel 1984 e ripubblicato, con una nuova introduzione, nel '96. Questa prima edizione italiana si apre con una prefazione di José Angel Gonzàlez Sainz, docente di Letteratura spagnola nel Dipartimento di Iberistica dell'Università di Venezia.