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Le due figure a fianco (sopra
in questa versione online. N.d.W.) presentano
la stessa cittadina tedesca. Immagini, come tante, di grandi
trasformazioni urbane: una strada sostituisce un corso d'acqua,
un sovrappasso sostituisce un ponte, nuove costruzioni sostituiscono
il precedente tessuto edilizio.
Nulla di particolare in questo. Vi sono però alcuni elementi
riscontrabili nelle immagini che meritano una attenzione: il
primo è la velocità con cui è stata attuata
la trasformazione (tre anni), il secondo la prossimità
nel tempo di tali trasformazioni (sono state completate nel
1986), il terzo l'abitudine diffusa a registrare senza sgomento
tali situazioni.
La velocità è indice della mobilità della
nostra società e della sua grande potenzialità
strumentale; essa matura esigenze in tempi ridotti, non riesce
a contenerle e le soddisfa attraverso una progettualità
locale, specifica e settoriale avendo la possibilità
di realizzare opere di notevoli dimensioni senza un particolare
impegno da parte della collettività.
La prossimità è indice di quanto, nonostante i
propositi dichiarati dai governi ed espressi dai tecnici, la
quotidianità non è permeata dalla considerazione
dell'ambiente.
L'abitudine, la mancanza di stupore, dinanzi a tali aberranti
interventi è indice della grande capacità di assuefazione
che caratterizza la specie umana: tali trasformazioni non sono
osteggiate perché non suscitano nella collettività
nessuna sensazione di sconvolgimento. Queste tre condizioni
sono la dimostrazione e la ragione delle difficoltà a
percorrere un cammino verso la sostenibilità.
Le
dimensioni del problema
In un calcolo indicativo, dividendo il consumo totale per
il numero degli abitanti del pianeta, ogni persona consuma ogni
anno 9,5 t di materia di cui 2,6 t rimangono nella "tecno-sfera",
1,2 t divengono rifiuti gassosi, 1,7 t divengono rifiuti liquidi.
A tali quantità vanno aggiunte le quantità di
acqua (solo quella potabile è pari a circa 18 t/a pro
capite).
È noto che i consumi non sono equamente distribuiti tra
i paesi né, tantomeno, tra gli abitanti dei singoli paesi;
al 20% della popolazione mondiale sono addebitabili l'86% del
totale dei consumi, mentre l'80% della popolazione consuma il
14%.
Per 1.000.000 di abitanti, che si possono localizzare anche
in 20 kmq, vi sono indicativamente ogni anno 9.500.000 t di
materia in entrata e altrettante tonnellate in uscita a meno
di quanto rimane trasformato nell'area: un bilancio sicuramente
approssimativo ma che rende bene le dimensioni del problema
e la grande intensità dei processi che si attuano all'interno
degli insediamenti. Se nella società contemporanea l'azione
più ripetuta dai cittadini è quella di acquisire
merci e di acquisire merci e di consumarle, ovvero di renderle
rifiuto, nel minor tempo possibile, le città si presentano
come un'enorme opificio in cui la produttività si misura
nella quantità di materia trasformata.
Il mercato stimola la produzione e la vendita di merci; l'iniziativa
individuale scarica i costi ambientali e sociali di tale produzione
sulla collettività e la società condivide e partecipa
tanto che la forma e l'organizzazione degli insediamenti diviene
motore primario per l'aumento dei consumi confermando l'efficienza
del modello a trarre ambiti di commercio proprio dalla conflittualità
degli elementi.
Il mercato delle auto è uno dei maggiori; la produzione
di auto ha un fatturato indicativamente vicino a 1.500.000.000.000.000
di lire annue. Il mercato del petrolio è quasi sicuramente
il più grande con un fatturato tra prelievo, raffinazione
e vendita di prodotti petroliferi ipotizzabile di oltre 3.000.000.000.000.000
di lire annue. Ambedue producono margini molto significativi
e i produttori fanno di tutto per consolidare il mercato così
come attualmente strutturato.
Per questo il parco circolante di autoveicoli nel mondo è
aumentato da 53.000.000 di automobili nel 1950 a 496.000.000
nel 1996 (pari a una superficie coperta dalle sole auto di 45.000
kmq), per questo ogni anno si producono 36.000.000 di autoveicoli,
per questo la vendita dei prodotti petroliferi è in aumento,
per questo le cilindrate delle auto sono sempre maggiori, per
questo i consumi mai ridotti. E tutto ciò nonostante
le emissioni di carbonio siano 6,25 milioni di tonnellate anno
(200.000 t più del 1995 e 1.000.000 di t più del
1985).
Il grande mercato delle auto e del petrolio è gestito
da un ristretto numero di operatori ma l'automobile è
oggetto di desiderio, componente fondamentale della quotidianità
e il modello di vita che l'accompagna è modello sociale
e insediativo.
La struttura insediativa si modifica abusando della mobilità
e così le città assumono una forma atta a consumare
le auto e le auto hanno performance tali da consumare petrolio.
Ma un altro interesse più diffuso guida l'organizzazione
degli insediamenti: il reddito sia fondiario che immobiliare.
Un ettaro a vite rende intorno ai 20.000.000 di lire l'anno;
un ettaro edificato a palazzine 65.000.000.000: un confronto
insostenibile la cui differenza non rende plausibile l'ipotesi
di un controllo delle trasformazioni. Per questa ragione si
occupano ogni anno 180.000.000 di mc. di fabbricati; nonostante
il 15% delle abitazioni non siano occupate, nonostante la popolazione
sia stabile, nonostante vi sia un patrimonio di fabbricati non
residenziali non utilizzati.
L'urbanistica
e la città
Di fronte all'entità di questi problemi l'urbanistica
si comporta in maniera a dir poco esilarante. Si è rinchiusa
in un tecnicismo autistico definendo parametri e linguaggi,
cercando uno spazio di scientificità per dimostrare la
congruità delle scelte e la necessità del mestiere.
Ha limitato il suo raggio di azione presupponendo che alcune
variabili siano esterne alla competenza dell'urbanistica e dunque
che costituiscano il dato di fatto immodificabile da cui partire
per cercare le soluzioni.
Se l'obiettivo è migliorare le condizioni della qualità
della vita (e l'obiettivo è questo) non si può
essere soddisfatti nell'aver mediato la domanda di costruzione,
qualificato gli interventi o definito un sistema di utilizzo
che garantisce qualità funzionale all'insediamento. E'
necessario discernere quello che è possibile fare da
quello che è giusto fare (non solo e non tutto quello
che è possibile è giusto e, a parità di
condizioni, non tutto quello che è giusto è possibile)
rammentando che funzionalizzare un sistema spesso porta al consolidamento
del sistema stesso anche quando esso si fondi su presupposti
errati. Ciò non significa che i temi trattati dall'attuale
urbanistica non siano importanti, ma la loro incisività
aumenta proprio quando essi siano inseriti all'interno di un
quadro in cui la produzione di un nuovo modello di automobile
può comportare una modificazione della forma urbana molto
più significativa di quanto non possa fare un piano.
I
segnali di cambiamento
La constatazione del problema urbano nei termini complessivi
e ambientali con cui oggi è trattato si può fare
risalire agli anni ottanta; tra la fine degli anni Ottanta e
l'inizio del Novanta molti paesi hanno recepito nei loro programmi
l'obiettivo di migliorare le condizioni urbane. Visto come il
problema è stato recepito a livello internazionale, e
la gravità della situazione riscontrata, ci si sarebbe
attesa una significativa inversione di tendenza e il raggiungimento
di risultati tangibili. Ma non è così; i governi
hanno delegato alle amministrazioni locali la risoluzione delle
problematiche come se le scelte complessive riguardo mobilità,
trasporti, reddito dei suoli, aumento dei consumi, necessità
fittizie non incidessero sulla forma e sulla struttura urbana,
come se non sussistessero interessi economici e politici nel
mantenere i trend di sviluppo esistenti, come se la struttura
economica, così connessa alla necessità di continua
crescita, non incidesse nella organizzazione insediativa. I
governi non hanno esercitato un'azione regolamentativa; si sono
limitati a definire delle norme "leggere" e hanno
demandato in sede locale. In questa maniera si è assistito
ad una profonda separazione tra le argomentazioni tecnico-scientifiche
e le azioni attuate: da un lato dichiarazioni e ricerche, dall'altra
misure che, non volendo incidere sulla struttura, migliorano
gli spazi marginali per i quali gli imprenditori e il mercato
sono disponibili a compromessi. Il cuore del sistema, responsabile
delle condizioni ambientali, rimane immutato: i consumi aumentano,
la mobilità aumenta, gli insediamenti si espandono e
occupano terreni.
Ma non è solo quello che oggi, ora, sta avvenendo ma
i desideri espressi che peggiorano lo scenario futuro. In una
recente inchiesta sul "Sogno americano" (Shor 1998,
in UNDP Rapporto 1998) finalizzata alla definizione delle esigenze
di consumo, sono state ripetute ad un consistente numero di
cittadini statunitensi le stesse domande fatte anni prima in
una simile ricerca. Alla domanda "Cosa rende una vita felice?"
le variazioni percentuali tra le risposte del 1975 e quelle
del 1995 hanno mostrato un aumento dell'84% per "Casa di
villeggiatura", del 36% per "Piscina" e una riduzione
dell'8% per "Matrimonio felice", mentre nessuna variazione
vi è stata per "Lavoro interessante".
Sempre nella stessa inchiesta alla domanda "Cosa rappresenta
una necessità" la differenza in percentuale delle
risposte tra il 1973 e il 1996 è stata un aumento del
233% per "Seconda televisione", del 96% per "Aria
condizionata".
Una società dove la richiesta di oggetti è aumentata
dell'85% e quella di condizioni sociali diverse si è
ridotta dell'8% è una società materiale che ha
per il futuro consolidati desideri e aspettative di merci.
Che
cosa succede in Italia
L'amministrazione nello svolgimento della sua funzione media,
in una strategia, interessi diversi e spesso opposti. Nel momento
in cui le organizzazioni che rappresentano l'una o l'altra delle
posizioni, a seguito delle elezioni, confluiscono nelle amministrazioni
queste non sono più in condizioni di mediare tra le parti,
ma divengono propositrici esse stesse di un percorso indebolendo
la pozione da mediare in quanto già mediata dall'amministrazione
medesima nel suo procedere.
Quando per anni la rappresentanza è stata più
gradita della partecipazione diretta, quando vi è stata
una delega integrale sui temi ambientali e della salute a tecnici
ed eletti è difficile ipotizzare da parte della popolazione
una coscienza dei processi e delle misure che ciascun cittadino
deve accollarsi per migliorare le condizioni dell'ambiente urbano.
Le amministrazioni si trovano quindi nella condizione di proporre
o azioni non condivise in quanto innovative o azioni condivise
ma indifferenti in quanto prossime alle necessità minimali
e quotidiane dei singoli cittadini. Il nodo dunque è
culturale in quanto la popolazione non conosce gli argomenti,
non li relaziona ai propri comportamenti, non individua propri
percorsi.
Inoltre le amministrazioni tentano di conservarsi supponendo
che già la loro sussistenza sia garanzia di qualità
e possa portare ad un miglioramento delle condizioni urbane;
ma per conservarsi conserva i caratteri del sistema consolidato
aumentandone l'efficienza e gestendo la città "correttamente"
rispetto ai suoi criteri. Così, migliorando l'efficienza
senza modificare il modello, continuano i finanziamenti per
le strade (rilanciate da una campagna per la sicurezza), per
le infrastrutture (rilanciate da una campagna per lo sviluppo
del mezzogiorno), continua la promozione del consumo di energia
(anche attraverso l'ipotesi di riduzione del prezzo), si stabilizza
la spesa ambientale intorno al 3% (di cui il 74% sono infrastrutture)
e così via senza alcuna inversione di tendenza.
Contemporaneamente parte dei cittadini sperimenta modelli differenti:
la popolazione è stabile nonostante le campagne di informazione
allarmistiche sul decremento, sviluppa "consumi critici"
e "scambi solidali" nonostante le pressioni della
società dei consumi, cerca modalità di trasporto
alternative nonostante le difficoltà connesse al loro
uso, sperimenta abitazioni ecologiche nonostante i costi aggiuntivi
che il mercato impone.
Solo
la partecipazione...
Quindi per una città sostenibile non è sufficiente
l'aumento di efficienza; non è possibile limitare l'urbanistica
alla gestione della destinazione d'uso dei terreni; non è
possibile delegare ai tecnici né agli eletti l'esclusivo
compito di gestire. È necessario interessare e considerare
il sistema sociale e ambientale; è necessario gestire
una città per una società, una città politica;
è necessario ipotizzare e perseguire una città
rappresentativa di un modello sostenibile; è necessario
attuare misure tangibili, chiare; è necessario dare segnali
di un avvio di percorso. E in questo contesto gli indicatori
debbono essere almeno parzialmente semplici, verificabili dal
comune cittadino, evidenti: ridurre la quantità di costruito,
organizzare una forma della città rispondente alla richiesta
di qualità, recuperare spazi inutilizzati, conservare
la morfologia, aumentare il livello di naturalità, ridurre
la mobilità, sperimentare...
Ogni azione che modifichi l'attuale modello è osteggiata
da interessi consolidati. Se non vi sono difficoltà l'azione
intrapresa non è significativa per la sostenibilità.
Solo la partecipazione e la condivisione della proposta da parte
della popolazione può sostenere scelte così difficili:
ogni città sarà diversa in quanto prodotto della
propria collettività e non del mercato.
Il cammino della città verso la sostenibilità
è un cammino politico contro i modelli imperanti, gli
interessi consolidati, lo sviluppo iniquo.
Adriano Paolella
Inizia da questo numero a collaborare
con la nostra rivista Adriano Paolella. Nato a Napoli nel
1955, architetto, anarchico, si interessa di pianificazione
e progettazione ambientale. Autore di numerosi saggi e libri,
è docente presso la facoltà di Architettura
di Reggio Calabria, responsabile Piano e Programma del WWF
Italia e segretario generale dello IAED (International Association
for Environmental Design), associazione di progettazione ambientale.
Il testo pubblicato in queste pagine è la relazione
presentata da Paolella al 2° congresso dello IAED (Isernia,
3-5 dicembre '98), i cui atti ("Città sostenibile.
Obiettivi, progetti, indicatori") sono stati pubblicati
dalle Edizioni Papageno (Palermo, 1999).
Le
condizioni mondiali:
5.000.000
di ettari consumati per urbanizzazione
La popolazione mondiale residente in ambiti urbani è
il 45% del totale, con un incremento tra il 1950 e il
1995 del 250%, a fronte di un aumento nelle zone rurali
del 76% e si prevede che superi il 55% del totale entro
il 2005, con punte di crescita, attualmente già
riscontrate in alcune aree urbane africane e asiatiche,
fino al 4% annuo.
Negli Stati Uniti fra il 1982 e il 1992 sono stati edificati
5.000.000 di ettari, di cui 2.085.945 ettari su aree
che erano state di foreste, 1.525.314 ettari di coltivi,
943.598 ettari di pascoli. In Cina, nel corso degli
ultimi sei anni, 2,6 milioni di ettari sono stati ceduti
all'urbanizzazione, con la perdita annua di 433.000
ettari di terreno agricolo; lo spazio destinato agli
uffici a Giakarta è aumentato di 19 volte tra
il 1978 e il 1992, passando da una superficie di suoli
urbanizzati di 21 milioni di ettari del 1982 a 26 milioni
di ettari nel 1992, con un incremento, nel decennio,
pari ad un'area superiore alla superficie della Liguria;
San Paolo del Brasile aveva una superficie urbanizzata
di 180 kmq nel 1930 e una superficie di 900 kmq nel
1988.
In Asia e in Africa ci sono regioni in cui la popolazione
urbana aumenta del 4% annuo e si stima che entro il
prossimo decennio quasi la metà della popolazione
mondiale, pari a circa 3,3 miliardi di persone, vivrà
all'interno di aree urbane. In una stima effettuata
recentemente, circa 220 milioni di individui non hanno
accesso ad acqua realmente potabile e circa 420 milioni
di individui non dispongono di impianti igienici, nemmeno
pubblici. Lo stato di sofferenza evidenziato è
dovuto in buona parte alla rapidità dei fenomeni
di inurbamento e alle deprecabili condizioni economiche
in cui vive gran parte della popolazione mondiale.
Considerando il continuo incremento delle superfici
pro-capite abitative, infrastrutturali e di servizio
dei paesi ricchi, e che al miglioramento delle condizioni
di vita, anche nei paesi "in via di sviluppo",
corrisponde un incremento degli standard insediativi,
si può ragionevolmente ipotizzare un aumento
delle superfici insediate di poco meno di 10 mq procapite
all'anno. Alla luce di questa riduttiva ipotesi il consumo
di suoli annuo mondiale per gli insediamenti si aggirerebbe
intorno ai 5.000.000 di ettari.
Questa quantità, sommata ai circa 6.000.000 di
ettari l'anno che si sono desertificati in relazione
al cambiamento climatico e agli errori nell'uso agricolo,
indicherebbe la verosimile misura di 11.000.000 di ettari
l'anno effettivamente "desertificati".
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La
situazione italiana:
meno
popolazione, maggior consumo di aree costruite
La situazione italiana, più o meno omogenea a
quella europea, evidenzia maggior lentezza nei fenomeni
di inurbamento, unita ad una crescita molto contenuta
della popolazione: nel nostro paese il tasso di crescita
della popolazione è pari a +1,1%; le previsioni
indicano che la popolazione dovrebbe avere un leggero
incremento fino al 2005 (57,7 milioni di abitanti contro
i 56,7 del 1990) per poi ridursi progressivamente (lentamente
fino al 2020, quando raggiungerà i 56,1 milioni,
e più consistentemente nei trenta anni successivi,
fino a raggiungere i 46,3 milioni nel 2050).
Nei 12 comuni più popolati, tra il 1981 e il
1991, c'è stato un incremento del costruito che
va dal minimo di Torino (+1,5%) al massimo di Bari (+9,9%).
E' interessante notare che nei comuni dove si è
maggiormente costruito si riscontra la maggiore percentuale
di abitazioni non occupate: Roma 13% di abitazioni non
occupate e 7,5% nuove costruzioni; Palermo 16% e 9,5%;
Bari 13,8 e 9,9%.
Sui 30.133.079 ettari di superficie totale del paese,
1.321.798 ettari sono coperti di fabbricati; 632.319
ettari sono costruiti in pianura e occupano complessivamente
l'11% della superficie pianeggiante del paese, 503.488
sono costruiti in collina e occupano il 6% della superficie
collinare del paese e solo 186.030 sono costruiti in
montagna. Il sistema insediativo italiano è caratterizzato
da un consistente fenomeno di accrescimento che interessa
praticamente tutti i comuni costieri e da un'aggregazione
unica pedemontana che attraversa l'intera pianura padana
dalla Lombardia al Veneto.
Un recente studio sulle aree industriali periurbane
ha evidenziato che, su 1500 ettari presi in esame, lo
sviluppo dell'edificato ha ridotto la superficie di
suolo libero dal 73% del 1969 al 56% nel 1980 fino al
44% del 1994, con un incremento di 22 ettari l'anno
tra il 1969 e il 1980 e di tredici ettari l'anno tra
il 1981 e il 1994. L'occupazione di terreni non è
direttamente connessa allo sviluppo di iniziative produttive,
tantoché su cinque milioni di metri cubi di costruito
quasi un milione risulta inutilizzato. E' evidente che
gli aspetti speculativi hanno avuto un ruolo prevalente
nello sviluppo di queste aree. Nel corso del 1996 sono
stati dati in concessione 67 milioni di mc di fabbricati
residenziali e 83,2 milioni di mc di fabbricati non
residenziali, ovvero sono state rilasciate in un anno
concessioni pari alla cubatura edificata del comune
di Torino, la quarta città italiana.
L'andamento delle concessioni di fabbricati residenziali
dal '90 al '96 si rivela praticamente costante in tutte
le regioni, e mostra un leggero decremento complessivo
(da 84,4 ml di mc nel 1990 a 67 ml di mc nel 1996),
un totale pari a 554,3 ml di mc in sette anni; mentre
l'andamento delle concessioni per fabbricati non residenziali,
per un totale leggermente superiore (586 ml di mc in
sette anni) ha un calo da '92 al '94.
Il totale della popolazione in Italia negli ultimi sette
anni è diminuito dello 0,4%, mentre le concessioni
per fabbricati sono aumentate di 1140,3 ml di mc, cioè
circa 20 mc ad abitante, il che equivale a dire che
ogni famiglia italiana, di media composta di tre individui,
ha ottenuto in sette anni una stanza in più,
e che la quantità di metri cubi di abitazione
pro-capite è in continuo aumento: nei dodici
maggiori comuni fino al 1945 c'erano 44 mc di costruito,
e nel '91 erano diventati 127 mc. Mentre i metri quadrati
di superficie abitativa occupata pro-capite ha dato
il minimo a Napoli con 24 mq/ab e il massimo a Milano
con 34 mq/ab.
50.000
ettari urbanizzatie 15.000 occupati da edifici
In Italia, al 1990, vi erano 1.321.199 ettari occupati
da fabbricati, pari a circa il 4,5% della superficie
totale del paese. A questo va aggiunto che la cartografia
non rileva le case sparse, i piccoli nuclei e le infrastrutture
extraurbane, che, se considerate insieme all'incremento
di edificato nel periodo '90-'97 danno complessivamente
un ammontare di 2.114.150 ettari, e regionalmente variano
da un minimo di 4.749 ettari della Val d'Aosta ai 356.726
ettari della Lombardia e, in percentuale sul totale
della superficie regionale, dal 1,2% del Molise al 14,9%
della Lombardia. Se agli ettari di urbanizzazione si
aggiungono i terreni inclusi dalle infrastrutture, i
"terreni in attesa", gli "sfridi", le aree inglobate
nei perimetri urbani, l'urbanizzazione può arrivare
a 50.000 ettari all'anno.
il
turismo è ancora sinonimo di costruzione
Nel
1991 il 29% della popolazione che risiedeva lungo le
zone costiere abitava nel 14% della superficie complessiva
del paese, con una densità di popolazione pari a 4 ab/ha,
rispetto a 1,9 ab/ha di quella nazionale.
Il numero complessivo delle abitazioni presenti nei
comuni costieri è pari a 7.765.172, che corrisponde
al 32% del totale nazionale, ovvero circa 3.150.000.000
mc. Volendo ipotizzare lo sviluppo di questo costruito
distribuito omogeneamente lungo tutte le coste si otterrebbe
un edificio continuo lungo 8.000 km, largo 10 metri
e alto 15 piani.
350.000ettari
consumati da strade
Tra
le voci che hanno una significativa incidenza nella
occupazione di suolo vi sono sicuramente le superfici
occupate da infrastrutture stradali ed extraurbane.
Partendo dallo sviluppo della rete stradale nazionale
e provinciale, senza quindi considerare il reticolo
altrettanto sviluppato della piccola viabilità,
e dando una dimensione media alla sezione stradale a
seconda della loro tipologia, 359.000 ettari sono occupati
dalla viabilità, con una forte incidenza sulla
superficie territoriale delle regioni. Questo valore
è di poco superiore alla superficie territoriale
della intera regione Valle d'Aosta. La superficie totale
di strade è dell'1,2% sul totale della superficie
nazionale.
Nel nostro paese ci sono 52.160 km di autostrade e strade
statali extraurbane, e 253.870 km di strade comunali
e provinciali sempre extraurbane. A livello regionale,
sommando i dati relativi alla superficie occupata da
aree urbane alla superficie occupata da infrastrutture
extraurbane, la regione che raggiunge il valore più
elevato è la Lombardia, con il 16,3% della superficie
territoriale occupata, seguita dalla Campania con il
12,6% e dal Veneto con l''1,4% di superficie totale
occupata, il Lazio 10,5% e l'Emilia Romagna 10,3%.
In uno studio fatto per l'area romana è stato
evidenziato come in quarantasette anni la superficie
occupata da edificato è aumentata complessivamente
di 18 volte, occupando così 19.270 ettari dei
territori comunali a popolazione stabile.
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