Colui che, non avendo null'altro da
fare e viaggiando dunque sull'autostrada Milano-Gravellona Toce,
decidesse di entrare nella città di Arona s'imbatterebbe
presto in un cartello che segnala, sulla destra, l'esistenza
di un Maglificio San Carlo. Costui saprebbe di trovarsi di fronte
ad una solerte impostura e ad un vile sopruso della Storia.
Lo saprebbe, se qualcuno - con memoria lunga e cuore puro -
gliela raccontasse, questa Storia.
Carlo Borromeo nacque nel 1538 ad Arona baciato in fronte -
come assicura la bolla papale della sua canonizzazione, ottenuta
nel 1610 a suon di diecimila scudi d'oro - da un raggio luminosissimo
con cui l'Onnipotente ed Onnisciente - sapendo già della
prossima offerta cospicua e, quindi, scommettendo sul sicuro
- "preannunciò lo splendore della futura eccelsa
santità". Con uno zio Papa - Giovanni Medego, in
arte Pio IV, fratello del tagliaborse Medeghino - la sua carriera
era assicurata, come l'agiatezza per la famiglia e le successive
sue generazioni. Cardinale, dunque, a 23 anni, prima ancora
di esser fatto prete, va a Roma e comincia a darsi da fare.
In breve eccelle nell'arte della persecuzione, della tortura
e dell'arrostire esseri umani sulle pubbliche piazze. Odia in
particolare luterani, valdesi e altri eretici, nonché,
ovviamente, le donne. Nel 1566 - l'anno dopo del suo arrivo,
con tanto di scorta armata, a Milano come legato pontificio
-, muore lo zio, ma Carlo non vacilla e riesce a far eleggere
un suo caro amico, il domenicano Michele Ghislieri, già
Inquisitore Generale della Chiesa, assassino sanguinario, feroce
antisemita - e, come Pio V, santo anch'esso. La sua è
la biografia tipica dei potenti: stragi, sopraffazioni, accumulo
di ricchezze altrui indossando la maschera dell'intransigenza
morale.
Fra i miracoli che gli vengono ascritti - alcuni davvero quisquilie
e pinzillacchere dubbie e di dubbio gusto, come quello che l'avrebbe
visto ridonare il sollievo alla fanciulla succhiandole la mammella
dolorante - ce n'è perfino uno autoriflessivo, perché
il miracolato è, ma guarda un po', lui stesso. E qui
ci avviciniamo alla questione del maglificio.
Nella notte del 26 ottobre 1569, tal Gerolamo Donato detto "il
Farina", un frate dell'antico Ordine degli Umiliati, entra
in Arcivescovado nascondendo un archibugio e un archibugetto,
coglie Carlo assorto in preghiera, in una cappella, circondato
da un centinaia di famigli: sfodera l'archibugio, prende la
mira ed esplode il colpo. L'archibugio era carico di "palla
e di quadretti", la mira era buona, ma, forse, la distanza
eccessiva. Oppure, la mira non era affatto buona o l'archibugio
era da buttare. Fatto sta che il Santo sentì "all'improvviso
una percossa in un osso del filo della schiena" e che,
fidandosi delle cronache interessate, al massimo l'archibugiata
gli procurò un lieve gonfiore. Miracolo balistico.
Più miracoloso è il fatto che il Donato, approfittando
dello stupore dei presenti, riuscì momentaneamente a
dileguarsi. Momentaneamente, perché nell'aprile successivo,
dopo lunghe indagini e grazie ai pentiti di turno, venne preso
e tradotto a Milano, rinchiuso nelle carceri vescovili e tormentato
fino al 2 agosto, quando, soddisfatta la sete di vendetta di
Carlo Borromeo, dopo avergli tagliato la mano destra, venne
impiccato in piazza Santo Stefano con altri compagni di sventura.
Tutta la vicenda è raccontata con scrupolo storico e
grande onestà intellettuale da Oreste Clizio in Gerolamo
Donato detto il Farina l'uomo che sparò a San Carlo
(Edizioni La Baronata di Lugano e La Cooperativa Tipolitografica
Editrice di Carrara, 1998) nonché, con qualche imperdonabile
superficialità liberalborghese e brillantezza letteraria
da Piero Chiara in Sotto la sua mano (Mondadori, Milano
1974) e in Sale e tabacchi (Mondadori, Milano 1989).
Indagando sui motivi che potrebbero aver spinto il Donato allo
sfortunato attentato, viene alla luce che l'Ordine degli Umiliati,
di cui Carlo Borromeo si era fatto nominare "protettore",
costituiva non solo un pericoloso concorrente di prestigio sulla
piazza di Milano - e un concorrente riottoso alla disciplina
e poco addomesticabile -, ma anche un ghiotto impero economico
da espropriare. Un impero economico, peraltro, fatto essenzialmente
di lana - lana pregiata che, una volta confiscata per ordine
superiore, prenderà la forma di mantelle e di berrette
che, come fa ironicamente notare Clizio, "da allora saranno
universalmente reclamizzate col nome di borromee". Gerolamo
Donato, dunque, cercava di fermare una rapina in corso e, fallendo,
non ha fatto altro che accelerarla conferendole dignità
di atto dovuto. L'Ordine degli Umiliati, "ormai decaduto
e tralignato" - come ha il coraggio di recitare tuttora
il Dizionario dei santi (TEA, Milano 1989) -, fu infatti
soppresso e i suoi beni, come di prammatica, incamerati.
Una mano rispettosa delle vicende umane, allora, farebbe bene
ad arricchire quel cartello, in Arona: "Maglificio San
Carlo - Alla faccia degli Umiliati".
Felice Accame
P.S.: Nel Duomo di Milano, nel mese di novembre,
si dovrebbe esporre un dipinto, attribuito a Gio Batta Crespi
detto il Cerano, che rappresenta la scena dell'attentato. Dal
1698, sull'altura di Arona, domina, invece, il cosiddetto San
Carlone, in nulla, peraltro, somigliante all'originale. Si tratta
di una enorme statua alta ventitré metri e quaranta centimetri,
posta su un basamento di granito di undici metri e settanta
centimetri - meta quotidiana di pellegrini felici di credere
che il Santo abbia fatto del Bene. In Sotto la sua mano, Piero
Chiara, con una malizia che, non dicendo le cose come stanno,
rischia di risultare mera benevolenza, sostiene la remota tesi
che il materiale occorrente alla statua sia stato ottenuto fondendo
il membro virilissimo del Colosso di Rodi. Papa Giovanni Paolo
II dice spesso che la Chiesa deve chiedere perdono di qualcosa
a qualcuno. Non al Donato, né alle migliaia di vittime
di San Carlo, comunque, di cui, anzi, nel 1984, nel quattrocentesimo
anniversario della morte, ha lodato la figura e omaggiato il
sarcofago. Potere che si perpetua.
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