Perché
odiate i comunisti?
Spett. le Editrice A
sono un iscritto a Rif. Comunista di Torino, ma ho dei dubbi,
ora che la sto frequentando di più, circa la sua ideologia
e le persone che la frequentano. Insomma, mi sembrano dei piccolo-borghesi.
Vorrei ricevere, se possibile, una copia, anche vecchia, della
vostra rivista, per capire meglio cos'è l'anarchia, dato
che ognuno (sia anarchici che non) mi dà la sua informazione,
che spesso è opposta a quella dell'altro, etc.
Aggiungendo che ho visto la vostra "pubblicità"
sul Manifesto, che sono anticapitalista e che cerco di
non diventare piccolo-borghese, anche se è molto dura,
vorrei capire meglio alcune cose, e cioè:
- come mai, dato che siete in pratica le due uniche forme anticapitaliste
rimaste, voi e i comunisti vi odiate così tanto?
- quali sono le editrici che pubblicano vostri libri, cioè
di scritti anarchici o filo-comunisti. Io, se ho capito bene,
penso che adesso la CLUP o la Bertani lo possono essere.
- ho letto un libro di un certo Manlio Cancogni sulla storia
degli anarchici Gli angeli neri, ma penso che sia però
un libro per "sputtanarli" che altro.
- i libri che preferisco sono in genere quelli della Scuola
di Francoforte (Marcuse, Frann, etc;) e di Pasolini, specie
Scritti Corsari.
Insomma, secondo me, per sconfiggere il dominio culturale borghese
bisogna (ri)partire dal popolo, nel senso di gente a cui il
messaggio borghese non è arrivato, o comunque non lo
adotta anche se penso che bisogna cercarli lontano dall'Europa
(c'è ancora il "popolo" in Europa?).
Spero, quando potrete, di ricevere una risposta sugli argomenti
che ho trattato qui molto in breve, per capire se c'è
un'organizzazione che la pensa più o meno come me, o
se invece devo fare da solo.
Grazie dell'attenzione e saluti
Salvatore B.
(Torino)
Risponde
Massimo Ortalli
Caro Stefano B.,
ti sono grato per la tua lettera. Lo sono perché, essendomi
stato chiesto di rispondere alle tue domande semplici e dirette,
mi fornisci l'occasione per tornare a riflettere e a ragionare
su alcune delle questioni fondamentali che riguardano l'identità
anarchica.
Vedi, a noi che abbiamo da tempo sedimentato le tematiche dell'anarchismo,
capita raramente di domandarci come ci differenziamo rispetto
ai principi socialisti di matrice marxista. Infatti fa ormai
parte del nostro "codice genetico" considerare in
termini di radicale separatezza le due scuole di pensiero socialiste,
quella cosiddetta autoritaria e quella cosiddetta antiautoritaria
o libertaria.
Eppure, non è sempre stato così, anzi: in Italia
e in molti altri paesi anarchismo e socialismo sono nati da
un ceppo comune e, a lungo, hanno marciato insieme senza drammatici
contrasti, sulla strada dell'emancipazione del proletariato.
Nel nostro paese, in particolare, il socialismo è nato
anarchico, vuoi per la diretta influenza di Michele Bakunin,
avversario di Marx e tenace assertore dei principi antiautoritari,
vuoi per le particolari condizioni sociali dell'Italia, in cui
il senso dello Stato e dell'appartenenza ai suoi valori da parte
dei ceti più deboli non era affatto un sentimento diffuso
come, al contrario, avveniva in Germania o in Inghilterra.
Penso che questa origine comune sia ciò che ha permesso
ad anarchici e socialisti di percorrere lunghi tratti di strada
affratellati da una ipotesi di società futura tutto sommato
coincidente: i primi confidando nei metodi rivoluzionari dell'azione
diretta e del rifiuto della delega, i secondi convinti della
possibilità di impadronirsi degli strumenti istituzionali
coi quali sovvertire le regole e i capisaldi della società
capitalista. A lungo i socialisti hanno sostenuto che, così
come per gli anarchici, il loro fine ultimo era l'edificazione
di una società senza stato e senza apparati di governo,
contando però di perseguire tale scopo utilizzando anche
quelle pratiche riformiste che il sistema capitalista concedeva
ai sovversivi.
Indubbiamente tale posizione, contraddittoria ma convincente,
fu oggetto di strumentalizzazioni e mistificazioni da parte
dei suoi assertori, eppure il vecchio partito socialista continuava
a propagandare e diffondere questi principi. Principi che nel
tempo risultavano sempre più annacquati e secondari,
ma che sostanzialmente non furono mai rinnegati in modo definitivo.
Appare chiaro che questa contraddizione era avvertita da tutti,
né si tacevano le inevitabili conseguenze che avrebbero
portato le due anime del socialismo su strade sempre più
lontane. Eppure, soprattutto fra i militanti di base, fra coloro
cioè che quotidianamente misuravano le loro aspirazioni,
i loro mezzi e le loro energie nella lotta comune contro il
padronato e contro uno stato opprimente e autoritario, permaneva
questo "comune sentire" che faceva emergere più
ciò che univa che non ciò che separava.
Questa situazione, fatta di rapporti spesso conflittuali ma
mai permeata di astio o addirittura - come dici - di odio, perdurò
fino a quando la rivoluzione bolscevica del 1917 non spazzò
definitivamente ogni possibilità di collaborazione paritaria
fra le diverse scuole del socialismo. Fra i tanti danni che
le concezioni autoritarie ed assolutiste dei comunisti russi
apportarono all'idea stessa di socialismo (nonostante l'apparente
edificazione di una società "socialista") vi
fu anche quello che determinò l'impossibilità
sostanziale di trovare una qualsiasi forma di accordo fra anarchici
e libertari da una parte e comunisti autoritari dall'altra.
Partendo da una concezione basata sul primato assoluto del partito
rispetto ad ogni altra istanza, sulla impossibilità di
un confronto con altre linee politiche ritenute "oggettivamente"
controrivoluzionarie, sulla necessità di costruire a
qualsiasi costo uno stato forte per far fronte all'accerchiamento
capitalista, sulla inopportunità dell'opposizione da
sinistra perché solo il partito deteneva il monopolio
della "linea", il partito bolscevico, basato sulla
ortodossia marxista irrigidita dal leninismo, diede vita a un
mostro: un mostro che costruì uno stato-caserma oppressore
ed autoritario come il regime zarista che aveva distrutto, un
mostro sociale che divorò i suoi stessi figli, i suoi
figli migliori, immolandoli sull'altare della ragion di stato.
E a mio parere lo stalinismo non fu la degenerazione imprevedibile
dell'altrimenti corretta linea marxista leninista, ma fu la
logica conseguenza del percorso brutalmente autoritario intrapreso
già da Lenin e da Trotzky. Un percorso che tollerava
l'esistenza di altre forze di sinistra quando motivi tattici
ne richiedevano l'alleanza, ma che le combatteva fino alla definitiva
soppressione fisica qualora le "circostanze" lo richiedessero
e i rapporti di forza lo permettessero. Mentre sul piano economico
il regime comunista si sostituiva al capitalismo nella proprietà
dei mezzi di produzione, impedendo al proletariato ogni ipotesi
autogestionaria, sul piano politico si eliminava qualsiasi espressione
di dissenso. E, dato che "le disgrazie non vengono mai
sole", tutto il movimento comunista internazionale, Pci
in testa, si adeguò a questa metodologia e prese a combattere,
con la ferocia del servo, chi si sottraeva alla tutela dell'URSS.
All'interno di questo scontro, come comprenderai, non poteva
non nascere un forte sentimento di disprezzo e di distacco da
parte anarchica e libertaria. Disprezzo e distacco che nasceva
dai massacri degli anarchici (sbrigativamente giudicati controrivoluzionari
perché contrari alla soffocante autorità dei comunisti)
compiuti prima in Russia e poi, massicciamente, in Spagna, e
che continuarono con la calunnia e la menzogna sistematica,
nel tentativo di cancellare anche dalla storia la presenza dell'anarchismo.
Del resto, questa durissima repressione era, dal punto di vista
dei comunisti, una ineludibile necessità. Avvolti nella
contraddizione di continuare a parlare di emancipazione del
proletariato e di protagonismo della classe operaia, mentre
dovevano sostenere (vedi il Lenin di Stato e Rivoluzione) l'ipotesi
dell'estinzione dello stato grazie alla graduale realizzazione
della società socialista, i partiti comunisti non potevano
accettare la costante presenza della coscienza critica dell'anarchismo.
Man mano che lo stato sovietico si andava ingigantendo soffocando
ogni prospettiva di autonomia, man mano che il regime andava
accentuando le proprie caratteristiche poliziesche e burocratiche,
i postulati anarchici basati sulla rinunzia alla delega, sull'autonomia
della classe lavoratrice all'interno del ciclo produttivo, sul
rifiuto di ogni costrizione delle potenzialità creative
del proletariato, apparivano chiaramente nella loro potenziale
pericolosità per la stabilità del regime. E che
non sia sbagliato quello che ti sto dicendo, lo dimostra il
fatto che gli storici di matrice marxista, di fronte al rovinoso
e indecoroso fallimento dell'esperienza sovietica, sono costretti
ad ammettere oggi quello che noi andiamo sostenendo dall'ormai
lontano 1918.
Tu parli di odio, e come vedi motivi per odiare chi ha inteso
il socialismo come l'imposizione forzata delle proprie teorie,
senza badare alla qualità etica dei mezzi impiegati e
ai danni che andavano producendo all'interno del socialismo
internazionale con l'imposizione violenta e forzata di metodi
autoritari, i motivi, dicevo, non mancherebbero. Eppure penso
che sia sbagliato parlare di odio. Per prima cosa non possiamo
dimenticare che le degenerazioni del comunismo autoritario,
nonostante tutto, erano rese possibili dalla convinzione di
agire negli interessi del proletariato, e come tali trovavano
la loro ragion d'essere in un "interesse superiore"
che poteva giustificare ogni barbarie; se a parer nostro questo
discorso è inaccettabile, non possiamo comunque ignorare
come, fra i militanti di base dei partiti comunisti, imbottiti
da una propaganda enfatica e soffocante, fosse comune questo
modo di ragionare. Del resto, ancora oggi, in parecchie occasioni
noi e i militanti del tuo partito ci veniamo a trovare dalla
stessa parte dello schieramento, di quello schieramento anticapitalista
che citi nella tua lettera. Naturalmente, beninteso, non si
tratta di schieramento politico, bensì di schieramento
sociale. Sui posti di lavoro, nelle scuole e all'università,
all'interno delle organizzazioni del sindacalismo di base, negli
scioperi, nelle manifestazioni pacifiste, anarchici, rifondatori
e libertari si ritrovano fianco a fianco a partecipare a una
lotta per tanti aspetti comune. Se davvero fosse l'odio il sentimento
dominante, tutto questo non potrebbe certo succedere. Piuttosto,
come dicevo più sopra, credo si debba parlare di distacco,
di un profondo e incolmabile distacco. Del distacco che non
può non esserci fra chi aspira ad un mondo migliore senza
pretese egemoniche e chi, al contrario, nonostante tutto e nonostante
tutti, è ancora profondamente convinto di possedere la
verità rivelata.
Mi rendo conto di essermi molto dilungato su una parte della
tua lettera, quella che, a mio parere, richiedeva una risposta
più esauriente, e questo ha inevitabilmente tolto spazio
ad altre riflessioni che pure andrebbero fatte. Comunque voglio
almeno accennare ad altre tue osservazioni.
Come osservi giustamente, il libro di Cancogni, un giornalista
e scrittore che ha goduto di una certa fama, è sicuramente
un libro mediocre, spesso impreciso e superficiale, attento
più agli aspetti folcloristici e di costume che non ai
criteri della ricerca storica. Se sei interessato a capire meglio
la natura e la storia del movimento anarchico, i buoni libri
e le buone case editrici non mancano, e qui voglio segnalarti
qualche titolo e qualche indirizzo: Masini e Antonioli, Il
sol dell'avvenire; Masini, Storia degli anarchici in
due volumi; Berti, Un'idea esagerata di libertà;
Luce Fabbri, Luigi Fabbri storia di un uomo libero, Le
Edizioni Zero in Condotta (viale Monza, 255 - 20126 Milano),
Elèuthera (C.P. 17005 - 20170 Milano), Biblioteca Franco
Serantini (C.P. 247 - 56100 Pisa), Samizdat (c/o Paolo Natarfranchi,
via Milite Ignoto, 72 - 65100 Pescara), La Fiaccola (c/o Elisabetta
Medda, via Nicotera, 9 - 96017 Noto - Sr). Nelle pagine di questi
libri e nei cataloghi di questi editori potrai trovare la vita
di militanti straordinari e la storia di un movimento di emancipazione
sociale che ancora oggi riesce a contrapporre le proprie istanze
di liberazione ed emancipazione, basate sulla solidarietà
e la libera associazione, a quello che definisci il dominio
culturale borghese. Dominio che purtroppo non è solo
culturale, ma anche economico e politico. Fortunatamente, anche
in questa epoca di pensiero unico, la partita non si è
ancora chiusa, ma permangono gli spazi per far sentire, insieme,
la nostra irriducibile opposizione.
Un saluto fraterno
Massimo Ortalli
Sulla
critica letteraria
Caro Felice Accame,
salve! Mi presento. Mi chiamo Paolo Chiocchetti, ho 17 anni,
sono studente (al liceo classico, ahinoi) ed abito a Trento.
Tra le altre cose sono molto interessato al pensiero anarchico,
da un anno lettore di A-Rivista anarchica e, seppur senza
avere idee definite su tutti gli aspetti del problema, politicamente
socialista libertario.
Ti scrivo per chiederti chiarimenti su una questione che mi
ha molto incuriosito, da te affrontata sul n. 255 (Giugno) di
A.
Nel tuo articolo "Cavalli di Troia massmediatici"
polemizzi con l'accettazione culturale da parte delle riviste
"di opposizione" delle forme e degli schemi artistici
ed ideologici propri della cultura del sistema, borghese. Questa
tua riflessione mi ha molto colpito: quando noi cerchiamo di
sviluppare un discorso "alternativo", solitamente
compiamo l'errore di scendere sullo stesso piano dei nostri
avversari, implicitamente accettando la loro autorità
ed interiorizzando le loro categorie. "All'orizzonte c'è
il successo di intellettuali che replicheranno il mondo al quale
dicono di volersi ribellare". Sai, non ci avevo mai pensato
in termini così estesi. Ma mi rendo conto del carattere
apertamente anarchico di quello che dici: è la trasposizione
sul piano artistico-letterario della classica polemica contro
l'idea della "presa del potere" marxista.
Però mi sorgono alcuni dubbi. O meglio, mi piacerebbe
che tu approfondissi la tua analisi ed esponessi le tue opinioni
riguardo alla "funzione storica e sociale della critica
letteraria" e più in generale a come possano gli
scrittori ispirarsi (e "venir fuori") alla "cultura
proletaria".
Quest'ultimo aspetto colpisce particolarmente la mia attenzione,
perché nel tempo libero spesso scrivo articoli o racconti
(sono anche un redattore del giornalino scolastico del nostro
maligno istituto). E parecchie volte mi sono fermato a riflettere
sul tipo di linguaggio da utilizzare (preciso ma elitario o
popolare da povero), sul pubblico (l'utilità di uno scritto
di critica sociale, se poi i lettori non sono quasi mai "veri"
proletari, quelli che dovrebbero essere i soggetti principali
del cambiamento), su certi caratteri alienati e patriarcali
della lingua (vedi Avere o essere? di Fromm o il plurale
al maschile...), sulla figura dell'autore (i letterati sono
sempre borghesi...).
Mi pare ovvio che la cultura dovrà risultare vivificata
dall'apporto del popolo, e non impoverita... Ma non sono mai
riuscito a risolvere i miei dubbi, continuando a scrivere "normalmente",
secondo i canoni usuali.
Perciò, ti sarei grato (se ne hai il tempo, ovviamente)
se mi esponessi le tue riflessioni su queste tematiche (a me
direttamente su A, rimandandomi ad eventuali tuoi scritti pubblicati...)
Grazie mille!
Saluti libertari
Paolo Chiocchetti
(Trento)
Risponde
Felice Accame
Ringrazio Chiocchetti per essersi soffermato su quanto scrivevo:
nel fare checchessia, foss'anche con le più rivoluzionarie
intenzioni, troppo spesso ci modelliamo sull'esistente. E l'esistente
è l'esito di idee, interessi e pratiche di chi comanda
ferma restando la sua volontà di continuare a comandare.
Non è questione limitabile di ambito, perché l'artistico-letterario
attiene al politico tanto quanto una legge, un consiglio per
gli acquisti del mentecatto televisivo di turno e l'unghia laccata
di verde dell'ultima pornostar (o della nostra mamma). Montalban
fa dire al suo detective Pepe Carvalho (in Storie di fantasmi,
Feltrinelli, Milano 1999) che la critica letteraria è
un fenomeno parassitario. Lo fa dire ad un personaggio, perché
lui direttamente, come persona, non può dirlo, visto
che del sistema editoriale - che include chi scrive, chi pubblica,
chi legge, chi vive del plus valore artificioso fatto scaturire
dal rapporto fra costoro - fa parte. Non volendo rimanere al
livello della mera arguzia intellettuale, della critica letteraria
e attività similari sarebbe opportuno segnalare altresì
la mancanza di metodo - di un metodo esplicitato, ripetibile
- non disgiunta dall'ineliminabile protervia di istituire gerarchie
di valori i cui criteri, per la maggior parte, rimangono impudicamente
inespressi. E occorrerebbe chiedersi pure il perché di
tutto ciò: come mai un'istituzione così conciata,
al mondo - a questo mondo - , vada bene lo stesso. Perché
se della medesima attrezzatura si dovessero servire l'idraulico
o il falegname, per fare soltanto due esempi di sapere, è
certo che il loro successo sociale tenderebbe allo zero, mettendone
presto in forse la riproduzione.
È grazie a queste considerazioni, dunque, che mi guardo
bene, a mia volta, dall'assumere atteggiamenti normativi - e
nei confronti del bello estetico, e nei confronti dei linguaggi
che dovrebbero veicolarlo. Il linguaggio designa pensiero. La
comunicazione umana è tale allorché si mette qualcosa
"in comune", ovvero quando si riesce a far condividere
all'altro almeno qualcosa del proprio operare mentale. Di questo
- innanzitutto di questo - mi sembra opportuno preoccuparsi.
Felice Accame
No
Muccioli
Al sindaco del Comune di Rimini dott. Alberto Ravaioli
La proposta del Comune di Rimini di dedicare una via a Vincenzo
Muccioli ci trova del tutto in disaccordo. Muccioli con la sua
morte ha portato via con se tutta una serie di misteri sui danni
provocati dai suoi "metodi di recupero" adottati nella
comunità terapeutica di S. Patrignano sui tossicodipendenti.
Metodi basati fortemente sulla coercizione, non sottoposti a
nessun tipo di controllo, non supportati da statistiche sulla
loro effettiva efficacia, ma soprattutto causa di numerosi soprusi,
su tutti quelli che hanno portato alla morte di Roberto Maranzano
ucciso a calci e pugni all'interno di quel luogo verso il quale
nutriva forti speranze di ricostruirsi una vita.
Crediamo che dedicargli una via sia un atto fortemente lesivo
nei confronti di Roberto e delle altre persone vittime delle
stesse violenze, nonché nei confronti di chi si occupa
di determinate problematiche nel pieno rispetto della dignità
umana e delle comuni regole di convivenza.
Per questo chiediamo che quella via venga dedicata alla memoria
di Roberto Maranzano.
Luca Santarelli
(Rimini)
Noi
e gli animali
Rispondo a Luca Bini, che sullo scorso numero si è
arrabbiato perché ho definito (su "A" 255,
giugno '99) "sciocchezza piccolo borghese" e "perdita
di tempo" l'animalismo (e anche il liberalismo, per completezza
di cronaca). Vorrei ricordare che questo è avvenuto all'interno
di una mia lettera sulla guerra in Jugoslavia (o meglio in ciò
che rimaneva) che era più che altro uno sfogo, e che,
tra l'altro, non pensavo neanche venisse pubblicato.
Questo non per "scaricare il barile" sulla gentile
redazione di "A" ma per onor del vero. Mi rendo conto
che quanto da me scritto poteva suonare offensivo, e se qualcuno
si è offeso mi scuso, ma credo anche che estrapolare
frasi dal contesto (e dallo stato d'animo) sia un'operazione
non del tutto corretta.
Questo per la precisione, come direbbe un noto personaggio televisivo.
Dopodiché, visto che mi si chiede di motivare la mia
frase, confermo nella sostanza quello che ho scritto. Per quanto
mi riguarda non riesco a vedere nell'animalismo alcunché
di filosoficamente interessante, di scientificamente valido,
e di ideologicamente rivoluzionario. E neanche di eticamente
condivisibile.
Purtroppo mettere sullo stesso piano un cavallo, una zecca e
un essere umano, non mi sembra motivato né giusto, sia
per la zecca, sia per il cavallo, sia per l'essere umano. Le
differenze ci sono, e risalgono ad alcune decine di migliaia
d'anni fa, quando un nostro progenitore è sceso dall'albero
e ha iniziato a manipolare l'ambiente. A costruire villaggi,
ponti città castelli fabbriche ferrovie. Cose che un
cavallo non mi risulta sappia fare. Anche se può aiutare
a fare. Ma perché è diretto dall'uomo. Il contrario
non mi risulta, ahimè.
Questo non vuol dire che non bisogna rispettare gli animali,
ma da qui a metterli sullo stesso piano con gli uomini, ce ne
passa. E poi scusa perché bisogna rispettare gli animali
e le piante no? Non ho mai capito perché i vegetariani,
contrari a nutrirsi di esseri viventi (animali) si nutrano di
altri esseri viventi (vegetali) che nascono e muoiono. Magari
nella pancia di un animalista convinto. E sì perché
una necessità biologica, non ha nulla a che vedere con
un dominio sociale. Mi sembra cosa assolutamente ovvia. Fa parte
della natura di una zanzara suggermi il sangue e lasciarmi dei
fastidiosi bozzi per dei giorni, e fa parte della mia natura
schiacciarla con uno di quei periodici che sono pieni di cazzate
ma sono utili alla bisogna. Né più né meno.
Purtroppo fa parte della natura che ci siano i carnivori e gli
erbivori. Si chiama equilibrio naturale. Se ci fossero solo
gli uni o gli altri ci sarebbe un bel disastro ecologico. E
poi, anche se diventassimo tutti vegetariani, e nessuno cacciasse
più, per ciò solo elimineremmo il dominio tra
gli uomini? Non credo proprio, d'altro canto Hitler era vegetariano
e in America si sono commossi tutti per due balenotteri che
rischiavano di morire. I condannati a morte non commuovono invece
nessuno, pare.
Naturalmente anch'io non comprerei pellicce vere (finte si può,
vero?) e sono contrario alla vivisezione, però. Però
non posso che allibire di fronte a concetti come quelli che
ho trovato proprio su "A" un paio di anni fa , in
cui, un compagno di cui, per sua fortuna, non ricordo il nome
scrisse una frase del genere " preferisco morire che essere
curato da una cura trovata grazie al sacrificio anche di un
singolo animale". Ora, per me uno può pure buttarsi
al fiume, come suol dirsi, se crede, e se lo trova eticamente
giusto, ma perché condannare alla morte anche milioni
di persone che non condividono tali discutibilissime concezioni
etiche? Come si fa a mettere sullo stesso piano vite di esseri
umani e di animali? Se quel compagno avesse una persona cara
gravemente malata, penso proprio che non direbbe simili, e stavolta
ci sta tutto, sciocchezze. Sulla caccia poi, vi dico, ero contrarissimo,
poi ho parlato con un cacciatore, una persona seria e intelligente
(e sì ne esistono) e mi fece notare che è molto
più dannoso per la natura e la salute l'inquinamento
che causa tumori e malattie che non la caccia. Purché
venga fatta nel rispetto delle norme e della natura. Infine,
per chiudere, io sono francamente spaventato dal dogmatismo
e fanatismo che spesso ho potuto vedere in certi settori dell'Animalismo.
A me va bene tutto, mangiate quel che vi pare mettetevi le scarpe
di gomma e tutto quanto, basta che non si spacci una moda per
una rivoluzione e che non si avveleni qualcuno per una causa
che forse non è la più importante del mondo. E
a proposito della tua ultima notazione sull'uso dell'epiteto"
"piccolo borghese" mi rendo conto che ciò che
ho scritto fa molto "marxista-leninista" ma mi rendo
anche conto che, come si dice a Roma, non me ne può fregà
de meno. Anche perché 1) l'uso della parola da parte
mia si riferisce all'aspetto culturale, cioè è
piccolo borghese dare importanza spropositata a cose relativamente
importanti.
2) Mi sembra proprio che questo tipo di problematiche riguardano
i paesi ricchi e straricchi del capitalismo avanzato, non certo
dove hanno altri tipi di problemi più "terra terra".
Dove sono meno borghesi appunto.
E d'altro canto mi sembra che l'animalismo abbia notevoli seguaci
fra i rappresentanti del jet-set internazionale (vedi modelle,
Duchesse ecc,ecc).
So anche che scrivere tutto ciò mi renderà antipatico
a molti lettori, ma come diceva G. Orwell "la libertà
è dire quello che la gente non vuole sentire"
Paolo Scarioni
(Milano)
Noi
anarchici di Belgrado
I problemi nei Balcani sono sempre stati provocati dall'esterno,
nella gran parte dei casi dalle cosiddette grandi potenze o
da un intervento straniero. Hanno raggiunto i limiti estremi
nelle invasioni, per esempio in quelle dell'impero ottomano,
dell'impero austro-ungarico, degli eserciti nazista e fascista
tedesco e italiano e, come succede oggi, con l'aggressione della
NATO contro la Jugoslavia. La disintegrazione della cosiddetta
seconda Jugoslavia (1945-1992) è venuta anche in seguito
alle pressioni esterne coniugate a un occulto o palese sostegno
diplomatico, economico e militare a vari movimenti nazionalisti
e secessionisti. La crisi attuale nel Kosmet (Kosovo e Metohija)
o Kosovo è il frutto di una insistita strumentalizzazione
della minoranza etnica albanese presente in Jugoslavia. Dal
tardo medioevo all'inizio del XX secolo, gli albanesi sono stati
spinti, dalla pressione del governo turco, a popolare la regione
del Kosmet, per sbarazzarsi o sradicare i serbi che vivevano
lì da secoli. Il Kosmet è sempre stato un territorio
sacro per i serbi, la sede dei loro regni medioevali e, fino
ai nostri giorni, del patriarcato ortodosso. Per questo tutte
le forze di occupazione in Serbia hanno cercato di cancellare
la presenza serba e l'eredità culturale serba nella regione.
Durante la Seconda Guerra mondiale, il governo di occupazione
italiano aveva portato una nuova ondata di albanesi a insediarsi
nel Kosmet e aveva fatto di tutto per creare un movimento nazionalista
albanese antiserbo e filofascista, il Balli Kombetër.
Per parte sua Hitler aveva formato la divisione Skender Bey
formata da albanesi del Kosmet, che fu mandata a combattere
i russi a Stalingrado nel 1942. La politica di espulsione dei
serbi autoctoni dal Kosmet era proseguita anche dopo la guerra
quando Josip Broz Tito (un croato) salì al potere in
Jugoslavia come capo del Partito Comunista, con l'ambizione
di formare una federazione balcanica che doveva comprendere
anche l'Albania. Sotto il regime di Tito la Serbia era stata
divisa in tre unità amministrative (la Vojvodina, la
Serbia vera e propria e il Kosmet) e, in seguito alla costituzione
federale del 1974, il Kosmet e la Vojvodina avevano ottenuto
prerogative in pratica di stati indipendenti all'interno della
Serbia stessa. Il piano di Tito prevedeva fra l'altro di mantenere
la Serbia e il popolo serbo (in quanto principale gruppo etnico
della Jugoslavia) sotto stretto controllo e privato del diritto
di un proprio stato nazionale. Ai serbi era consentito vivere
in Croazia, Bosnia Erzegovina, Macedonia e Montenegro.
Gli albanesi del Kosmet non si lasciarono sfuggire l'occasione
e sotto il regime di Tito svilupparono un movimento nazionalista
e separatista molto forte che in seguito (dopo la morte di Tito,
nei primi anni ottanta) fece proprio il programma della cosiddetta
Grande Albania.
La verità è che la minoranza albanese in Serbia
ha goduto di tutti i diritti politici, civili e culturali e
non è mai stata discriminata in alcun modo. Le storie
della discriminazione e delle minacce all'identità culturale
e la leggenda della supposta pulizia etnica degli albanesi in
Serbia sono pura propaganda di chi voleva destabilizzare la
Jugoslavia, creare una Grande Albania o semplicemente avere
un pretesto per mettere piede nei Balcani, soggiogarne la popolazione,
approfittare della situazione geopolitica ed economica e delle
risorse naturali. I separatisti albanesi nella provincia del
Kosmet hanno creato proprie istituzioni parallele (sistema scolastico,
parlamento, governo, sindacati ecc.) rifiutandosi accettare
le leggi e le istituzioni jugoslave di autogoverno, che offrivano
loro criteri di totale autonomia molto più ampi di quelli
ammessi dalla legislazione dell'Unione Europea.
I loro amici della NATO li hanno spinti a formare l'Esercito
di Liberazione del Kosovo (KLA) per attuare il piano di creazione
della Grande Albania. Non dimentichiamoci che il KLA è
stato finanziato da fondamentalisti islamici come Osama bin
Ladan, e dalla narcomafia albanese, che partecipano in modo
non marginale al gioco di potere e di denaro che ruota intorno
al Kosovo. Per favorire l'opera del KLA, i capi e i padroni
della NATO hanno inventato la "pulizia etnica" in
Serbia e hanno cominciato a bombardare i serbi e le altre popolazioni
jugoslave. Perché non hanno bombardato la Turchia, che
esercita una purga sistematica del popolo curdo da decenni e
che è intervenuta militarmente a Cipro? Perché
la Turchia è una di loro, uno stato membro della NATO,
con compiti precisi rispetto alle nazioni confinanti, e uno
dei migliori clienti dell'industria bellica degli Stati Uniti.
Quello della produzione bellica è il principale settore
industriale degli USA e la spesa militare del Presidente Clinton
ha dimensioni sterminate. La NATO è qualche cosa di più
di questo bilancio: è il braccio destro degli Stati Uniti
in Europa, lo strumento dell'egemonia di Washington dall'Oceano
Pacifico al Kazakistan. Per conservare la sua egemonia a Clinton
servono più soldi e più risorse naturali, più
potere e il monopolio nella gestione delle faccende mondiali.
Delle Nazioni Unite e del diritto internazionale non gl'importa
un bel niente. La sola politica del governo americano consiste
nel fare i propri interessi. Qualcun altro pagherà.
La guerra in corso contro la Jugoslavia non è intrapresa
dai paesi della nato a scopi difensivi né è autorizzata
dalle Nazioni Unite. Non è affatto una "guerra umanitaria"
e le motivazioni vanno ricercate in tutt'altra direzione. Siamo
certi che si tratti esclusivamente di un'aggressione degli USA,
per i propri interessi, nei confronti dell'Europa, contro la
forte e prospera Unione Europea, contro tutti quelli che credono
di poter essere liberi e indipendenti. Noi ci opponiamo all'aggressione
della NATO contro la Jugoslavia in quanto è un crimine
contro l'umanità, contro il diritto internazionale ,
contro la carta dell'ONU. L'aggressione della NATO ha provocato
l'esodo dei rifugiati albanesi e le sofferenze, le morti e la
devastazione del Kosmet. Ci sono centomila albanesi del Kosmet
che hanno cercato scampo a Belgrado e noi li accogliamo come
fratelli e sorelle. Migliaia di civili sono stati uccisi, centinaia
di scuole e di asili sono distrutti, ponti e chiese bombardati.
L'economia è allo sfascio ed è in corso una gigantesca
catastrofe ecologica. Non vediamo come la giudice Louise Arbour
all'Aia possa inquisire Milosevic e Karadzic e non Bill Clinton,
Solana, Tony Blair, Chirac, Chretien, Schröder, Josef Fischer,
Aznar, D'Alema e gli altri della tribù NATO.
La guerra contro la Jugoslavia ha messo in piena luce il carattere
aggressivo della NATO (già emerso in Croazia e in Bosnia
nel 1994-95, nel corso dell'aggressione contro la comunità
etnica serba in queste repubbliche ex-jugoslave). La NATO ha
perso ogni credibilità come organizzazione difensiva
e si dimostra incapace di rispettare regole e principi del diritto
internazionale. Questo potere arrogante, bruto, ci riporta indietro,
ai tempi della Guerra Fredda, provocando l'emarginazione della
Russia dalla politica europea e una nuova corsa agli armamenti.
La tesi della "tutela dei diritti umani" e dell'"intervento
militare umanitario" serve solo a coprire gli interessi
geopolitici degli Stati Uniti.
Che Clinton e i falchi del Pentagono si occupino dei diritti
umani e facciano interventi umanitari nel loro paese, dove milioni
di Neri, d'Ispanici, di Indiani autoctoni, di Asiatici, sono
privati dei più elementari diritti come cittadini e addirittura
del diritto alla sopravvivenza! Quando verrà il giorno
in cui la comunità ispanofona della California manifesterà
la propria volontà di ricongiungersi al Messico, in nome
del diritto di autodeterminazione, speriamo che il governo americano
sia d'accordo.
La politica mondiale della NATO e degli USA è fondata
sul delitto contro la verità. I mezzi di comunicazione,
le reti televisive e radiofoniche mondiali, come la CNN, la
CBS, la BBC, SkyNews ecc. Sono in mano dei dirigenti e dei manipolatori
della NATO e del Pentagono. La verità è la prima
a cadere in guerra, e l'aggressione in corso contro la Jugoslavia
ne è una prova in più. Siamo ben consapevoli del
fatto che il regime di Milosevic è tutt'altro che angelico
e democratico, ma volgiamo combatterlo in modo corretto, in
tempo di pace, con tutti i mezzi democratici, e risolvere questo
problema come un problema interno della Jugoslavia, a modo nostro,
non con le bombe della NATO. Per questo ripetiamo: "NATO
GO HOME": non ce ne facciamo niente di una democrazia che
ci arriva con le bombe e le cannonate. Vogliamo lottare liberamente
per la libertà, con la verità per una maggiore
verità, con la dignità umana per la dignità.
Le grandi potenze se ne devono andare dai Balcani e lasciar
stare le popolazioni balcaniche, che sanno come comporre i propri
dissidi attraverso il dialogo, la comprensione reciproca e la
tolleranza.
Comunità libertaria belgradese e Centro
Studi Libertari
(Belgrado)
Risponde
Claudio Venza
Scrivo con un certo imbarazzo alla lettera della Comunità
Libertaria Belgradese, anche se mi pare necessario rispondere.
Penso infatti di conoscere uno dei componenti di questo circolo,
un compagno verso il quale ho avuto stima e affetto anche per
il legame personale che aveva con Umberto Tommasini. Ugualmente
ho polemizzato con lui quando ha collaborato con il governo
sedicente democratico di un certo Panic, un fugace rivale di
Milosevic di qualche anno fa.
Da Belgrado questo compagno e, mi pare, qualche altro, venne
al convegno tenuto a Trieste nell'aprile del 1990 e intitolato
ottimisticamente "Est, laboratorio di libertà".
In quella occasione una quindicina di jugoslavi presenziarono
ai lavori, intensi e promettenti, di varie centinaia di compagni,
tra cui una settantina quasi tutti giovani, provenienti dai
paesi dell'Est appena usciti dal socialismo da caserma.
A dire il vero, si poteva notare che fra i numerosi compagni
di Zagabria e quelli di Belgrado non vi era quella intesa e
solidarietà che ci si poteva aspettare fra anarchici.
In qualche modo le tensioni nazionali esistenti si ripercuotevano
nelle discussioni sull'atteggiamento da assumere nel prossimo
futuro e, cosa terribile ma reale, sembrava che alcuni fossero
prima serbi o croati e poi libertari. In effetti, da lì
a poco lo scoppio della guerra in Croazia pose questo problema
in tutta la sua gravità. La drammaticità degli
eventi spinse alcuni giovani compagni a vestire la divisa e
a combattere per "difendere il proprio popolo dall'aggressione
esterna". Con ciò si concludeva, come abbiamo dovuto
rilevare sul "Germinal" nei primi anni '90, un'esperienza
libertaria abbastanza diffusa negli ambienti universitari umanistici
di Zagabria.
L'imbarazzo personale, a cui accennavo, è dovuto anche
al fatto che nel rivolgere delle critiche a dei compagni bisogna
tener conto delle condizioni nelle quali vivono e operano. Ma
l'essere stati vittime dei bombardamenti della NATO non spiega
l'accettazione di posizioni che appaiono strettamente legate
ad una visione nazionalistica della realtà.
Ricordo, se ce ne fosse bisogno, che dalle nostre parti questa
primavera si sono svolte numerose manifestazioni antimilitariste
contro la base di Aviano dalla quale partivano buona parte dei
bombardieri. Tra i promotori, vi sono stati (quasi sempre) gli
anarchici della regione, sia come tali sia come partecipanti
a movimenti locali di tipo antibellicista.
Tra le affermazioni che intendo contestare ai compagni belgradesi
vorrei distinguere quelle di impronta più storica e quelle
piuttosto legate all'attualità politica. Sul piano del
racconto del passato non mi pare fondato collegare la politica
di Tito, che era comunque un comunista e con un progetto politico
terzomondista, per lo meno sul piano ufficiale, con il fatto
che egli fosse nato in Croazia. Dal luogo di nascita si vorrebbe
dedurre che il titoismo avrebbe limitato le prerogative dei
serbi, ma al contrario durante il suo regime settori importanti
degli apparati amministrativi, e militari in particolare, erano
occupati proprio da esponenti serbi.
Poi non mi risulta che il movimento di resistenza albanese degli
anni '80 e '90 fosse favorevole alla strategia della Grande
Albania. Quello che fu, almeno fino a un anno fa, l'esponente
più importante degli albanesi, Ibrahim Rugova, aveva
più volte rilasciato dichiarazioni contrarie a un progetto
di espansione dello stato di Tirana, verso cui i kosovari esprimevano
piuttosto diffidenza e addirittura un senso di superiorità.
Non mi pare inoltre credibile, sul piano dei fatti nudi e crudi,
sostenere che gli albanesi nel Kosovo non fossero mai stati
discriminati in alcun modo. Vorrei solo ricordare la chiusura
dell'Università a Pristina e la sostituzione di tutti
i professori albanesi con docenti provenienti da Belgrado. Non
va poi dimenticato che un'occupazione militare antialbanese,
con tanto di schieramento di carri armati venne messa in atto
già nel 1980. L'oppressione culturale e politica si trasformò
in vera e propria repressione violenta quando giunsero le bande
paramilitari serbe con licenza di uccidere, rubare, stuprare
che scorrazzarono in lungo e in largo per la "terra dei
merli" : l'esodo degli albanesi non si può far risalire
solo ai bombardamenti NATO, che certamente lo hanno aggravato.
Analogamente è da condannare l'attuale vendetta etnica
di cui ora è vittima la scarsa popolazione serba rimasta
nel Kosovo.
Sul piano delle opzioni politiche, se tra queste possiamo considerare
le posizioni di tipo antistatale e antiautoritarie tipiche dell'anarchismo,
devo rilevare che il discorso dei compagni belgradesi presenta
un'ottica fortemente influenzata da ragioni nazionali e assai
poco da considerazioni anarchiche in senso stretto. Sembra quasi,
e vorrei essere smentito, che ancora una volta gli scriventi
si riconoscano prima nel dato etnico e dopo in quello di un
movimento realmente indipendente dalla logica istituzionale.
Anche i riferimenti espliciti al diritto internazionale e agli
strumenti democratici nella lotta contro Milosevic si collocano
piuttosto in una mentalità democratica ed elettorale
che all'interno di un programma di azioni autogestite e autonome
da tutti i partiti esistenti.
Mentre esprimo questo tipo di critiche fraterne, ritengo sia
importante fornire ai compagni di tutta la ex Jugoslavia quell'aiuto
solidale che possa migliorare l'efficacia delle iniziative libertarie
in questo territorio tormentato dai nazionalismi, dalle guerre
e dalle politiche delle grandi potenze. Purtroppo mi pare difficile
che dopo un conflitto feroce, che dura ormai da diversi anni,
si possa prevedere la ricostruzione, in tempi brevi, di rapporti
di collaborazione fra gruppi libertari e antiautoritari di varie
etnie. L'unica via rimasta alquanto estranea all'etnocentrismo
sembra quella avviata delle donne pacifiste che in questi mesi
stanno tessendo nuovamente la rete dei contatti personali e
collettivi.
Non mi pare comunque convincente attribuire la causa di tutto
l'odio e di tutte le violenze e distruzioni alle manovre internazionali
di potenti gruppi economici e politici esterni ai Balcani. Sono
convinto invece del fatto che queste potenze abbiano utilizzato
rivendicazioni nazionaliste, già esistenti e, malgrado
le apparenze, ben radicate anche ai tempi della Jugoslavia di
Tito.
Sul fronte delle mobilitazioni belliche hanno svolto un ruolo
pesante pure gli apparati religiosi (cattolici, ortodossi, musulmani)
secondo la logica del "Gott mit Uns" di nefasta memoria.
Non mi è chiaro quindi il senso della rievocazione del
carattere "sacro" per gli ortodossi del suolo del
Kosovo. Da una prospettiva anarchica mi aspetterei la denuncia
delle gravi responsabilità di tutte le istituzioni politiche,
militari, culturali, ecclesiastiche che hanno incrementato il
disprezzo per l'Altro al fine di disporre di un "nemico
criminale" verso il quale dirigere frustrazioni e vendette
del gregge militarizzato. Una simile cornice teorica (forse
insufficiente e talvolta persino schematica) tipica delle analisi
libertarie non compare nella lettera, nemmeno in modo implicito.
In sostanza, a parte la firma, il contenuto di questa lettera
potrebbe restare all'interno di ambienti poco sensibili ai valori
antiautoritari.
Claudio Venza
I
nostri fondi neri
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Sottoscrizioni Marco Pandin e famiglia (Montegrotto
Terme) ricordando Marina Padovese, 50.000; Giuseppe
Lusciano (Castellammare di Stabia), 1.600; Franco
Leggio (Ragusa), 200.000; Oscar Greco (Rende), 50.000;
Aurora e Paolo (Milano) ricordando Alfonso Failla,
1.000.000; Antonio Cecchi (Pisa), 10.000; Ermanno
Gaiardelli (Novara), 60.000; Maurizio Barsella (Firenze),
10.000; Carolina Tobia (Rensselaer - USA), 250.000;
Alberto Procaccini (Porto Sant'Elpidio), 30.000; a/m
Aurora e Gemma, parte ricavato dalla vendita dei libri
non/anarchici di Alfonso Failla (Carrara), 700.000;
Marco breschi (Prato) ricordando Aurelio Chessa, 200.000.
Totale lire 2.591.600.
Abbonamenti sostenitori Arnaldo Panzeri (Lecco),
150.000; Gianni Pasqualotto (Crespano del Grappa),
200.000; Laura Fossetti (Montemagno di Calci), 150.000.
Totale lire 500.000.
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