Rivista Anarchica Online


Lo sterminio dei Rom

Camminando, camminando
(Gelém Gelém)
abbiamo percorso cammini
sulla lunga strada
abbiamo incontrato Rom felici
Oh! Zingari
da dove venite
con i figli affamati?
Oh, Rom
Oh, figli.
Tutta la mia grande famiglia
la legione nera l’ha sterminata
Tutti hanno massacrato, uomini
e donne, fra loro anche
bambini inocenti.
(Inno transnazionale dei Rom)

Se riguardo l’olocausto degli Ebrei ad opera dei nazisti durante il periodo della seconda guerra mondiale si è ormai ampliamente a conoscenza grazie a ricerche, studi e soprattutto testimonianze dirette e indirette di sopravvissuti al massacro, la stessa sorte toccata ai Rom e ai Sinti penso non si possa definire nel senso di olocausto “dimenticato” - ci si può infatti dimenticare di qualcosa di cui si é a conoscenza - ma semplicemente di olocausto “sconosciuto”.
Sconosciuto, non perché non si sapesse, non perché gli storici, quelli che scrivono i libri, non fossero a conoscenza ma molto più semplicemente perché gli Zingari non fanno Storia, non contavano niente allora come non contano niente oggi quando si parla di loro solo per qualche fatto di cronaca nera (il furto di un motorino) criminalizzandoli a livello generale, o ipocritamente compiangendoli quando muoiono dei bambini nell’incendio della roulotte o della baracca dove vivono miseramente.
Da qualche tempo qualcosa è cambiato e alcuni studi e ricerche hanno portato alle luce l’olocausto zingaro e una cifra che per difetto è stata stabilita in mezzo milione di morti nei campi di sterminio nazisti e nei luoghi dove venivano rastrellati. Uno dei primi lavori in questo senso Il destino degli Zingari di Kenrik D. e Puxon G. è uscito in Italia per la Rizzoli nel 1975 e mai più ristampato.
Poche le testimonianze dirette, una di queste ci viene offerta dal sinto tedesco Otto Rosenberg nel libro, a cura di Ulrich Enzenberg, dal titolo La lente focale, Gli zingari nell’olocausto, uscito da poco in Italia per la Marsilio Editori.
Otto Rosenberg ha oggi 73 anni e vive a Berlino, è membro del consiglio direttivo della “Comunità di sinti e rom della Germania” ed è presidente dell’Associazione sinti e rom tedeschi del Berlino-Brandeburgo. Otto ha mantenuto il silenzio per oltre cinquant’anni, poi ha voluto che qualcuno trascrivesse la sua storia e ne è nato questo libro dove ripecorre l’onore da lui vissuto quando da bambino é stato portato con la sua famiglia nel campo di concentramento di Marzahn assieme ad altre migliaia di Zingari. Finirà, anni dopo, nello Zigeuner-Lager di Auschwitz-Birkenau, poi a Buchenwald e infinite a Bergen-Belsen dove sarà liberato. Unico sopravvissuto di tutta la sua famiglia.
Si legge nella prima nota che correda il libro: “Rosenberg” o “von Rosenberg” figura tra i nomi più antichi delle famiglie Sinti, la cui presenza in Germania è attestata a partire dal XV secolo”. E Otto si sentiva tedesco a tutti gli effetti. Ma evidentemente non bastava per essere considerati tedeschi ma solo zingari la cui piaga doveva essere cancellata dalla faccia dell’Europa.
Per Otto e tutti gli zingari sopravvissuti all’olocausto dei campi nazisti non ci sono stati risarcimenti di sorta né per loro né per i famigliari uccisi. Dei risarcimenti non dati ai Rom e Sinti scampati ai Lager si sta parlando solo oggi a distanza di 55 anni quando ormai i superstiti sono rimasti ben pochi.

Franco Pasello

Gli scienziati dell'immigrazione

Indispensabile, ai fini dello sfruttamento di coloro che migrano alla ricerca di condizioni migliori rispetto a quelle dei Paesi da cui essi partono, è la loro classificazione come pericolosi nemici dei valori altrui. Georg Simmel, che da studioso “ebreo” cui nella Germania guglielmina era preclusa la carriera accademica qualcosa del razzismo ne sapeva, scrisse che, mentre “l’uguaglianza rassicura” le “differenze sono di stimolo” (Georg Simmel, Sociologia, Torino, 1998, edizione originale del 1908). Uno stimolo, tuttavia, non determina quasi mai univocamente una risposta, e per qualcuno serve solo a scatenare la voglia di trasmettere quella che Canetti definiva la “spina del comando”.
Lo vediamo tutti i giorni. Chi cerca di approdare ai lidi italici, prima ancora di arrivarci, per la stampa è un “clandestino”: parola con cui si usava designare qualcuno che s’imbarcasse senza biglietto, usata metaforicamente per suggerire che sulla “barca” Italia (o Europa, o mondo ricco), qualcuno cerca di salire di nascosto, per nascondersi nella cambusa rubacchiando cibo e scroccando un passaggio a noi che faticosamente stiamo sudandoci il nostro meraviglioso viaggio verso i lidi del Progresso, o magari per provocare un ammutinamento.
Nelle retoriche dell’immigrazione, il posto d’onore spetta all’allarmismo dei confronti delle ipotetiche basse intenzioni, che, mettendoci tutti in pericolo, legittimerebbero i provvedimenti che sono stati presi configurando un regime giuridico di serie B che ricorda quello degli ebrei nel Medioevo.
Al suddetto allarmismo contribuiscono gli scienziati, che del resto fanno per il regime di turno quello che gli ecclesiastici facevano nel Medioevo (e che oggi continuano a fare anche se con meno costanza di successi).
Alessandro Dal Lago ne ha segnalate alcune in un suo recente libro molto esauriente nell’individuare ed argomentare il punto cruciale della questione; e, cioè, che “contrariamente all’opinione pubblica prevalente, le vere vittime dell’impatto fra i migranti e la società italiana sono i migranti” (A. Dal Lago, Non persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano, 1999).
Si tratta di scemenze grossomodo ben note, del tipo “i veri discriminati siamo noi italiani”, “gli immigrati fanno tanti figli che sottometteranno i nostri che sono pochi”, o “se vogliono venire qui devono obbedire alle nostre regole d’igiene e cortesia”. Scemenze che, tuttavia, riempiono gli editoriali che noti e riveriti scienziati scrivono per i maggiori quotidiani, influenzando con il loro prestigio l’opinione pubblica.
Per esempio, facendo impressione con calcoli demografici, che, come nota Dal Lago, partono sempre dal presupposto che “gli altri”, a differenza di noi persone intelligenti, non dispongano della possibilità di compiere una “libera scelta” in merito ai propri comportamenti futuri, riproduttivi o migratori o d’altro tipo che siano.
Per fare un altro esempio, occupandosi dei reati commessi dagli immigrati e non di quelli da loro subiti; al fine, poi, di legittimare come “scientifica” la misurazione di una loro presunta “propensione a delinquere” - che, ovviamente, nessuno si sognerebbe di “misurare” negli italiani, nei pescatori islandesi, nei calciatori cinesi, o nei professori universitari.
Ovviamente, è del tutto arbitrario isolare una categoria di persone in base ad un criterio X (o due, X, Y), contare il numero di reati che queste persone hanno commesso, e considerare il criterio selettivo (non so, pescatore belga, o immigrato in Italia) come la “causa” dei reati commessi. Sarebbe come sostenere che i baristi sono più rispettosi delle leggi, rispetto ai giornalai, che, invece, avrebbero una maggior “propensione a delinquere”, basandosi sul fatto che, in un anno, 100.000 baristi hanno commesso 800 reati e altrettanti giornalai, invece, 1.700 (o viceversa, naturalmente). Per cui dovremmo stare attenti quando ci rechiamo al bar piuttosto che a comprare il giornale. Può sembrare strano, ma, invece, proprio così ragionano, o dicono di ragionare, gli scienziati, i sociologi in questo caso, anche se non proprio tutti. In questo modo, con trucchi che di scientifico nulla possono avere, ratificano e rinfocolano il razzismo dominante. Quello stesso razzismo che i giornalisti non menzionano, o negano, quando ci raccontano di un poliziotto o di un concittadino che usa violenza nei confronti di qualcuno di “quelli là”, o di un imprenditore italiano che sfrutta vergognosamente delle operaie albanesi, in Albania, protetto dalla nostra benemerita “forza di pace”.
Fra queste retoriche, funzionali all’applicazione freddamente alternata del bastone (tu devi tornare a casa tua) e della carota (ci servono operai), è particolarmente subdola quella che considera l’immigrazione come un “problema etnico”.
Si parla di una “società multietnica” come della soluzione democratica al problema, ma in questo modo si introduce l’idea di “culture” chiuse le une alle altre e determinanti i comportamenti individuali, e, ipostatizzando le differenze (a livello collettivo, sulla base di nozioni generiche e vaghe), si scava un solco fra un “noi” ed un “loro”. Dal Lago fa notare giustamente come tutto ciò sia il risultato di un “processo di costruzione e di etichettamento “operato dalle agenzie sociali dei Paesi ospitanti “nella misura in cui vogliono identificare, stratificare, e controllare” i migranti. Non tenendo conto che ogni persona ha una sua storia, e che se decide di lasciare il suo Paese opera una scissione con il patrimonio di reti di relazioni, usi e costumi da cui proviene, per stabilire nuovi legami ed iniziare un nuovo percorso di acculturazione nel Paese dove va a stabilirsi.
Nessun italiano si sente a suo agio nello stereotipo dell’italiano che trova in altri Paesi, e non si vede perché le cose dovrebbero stare diversamente nel caso di coloro che da tanti altri posti vengono in Italia. In questa retorica permane un’asimmetria, implicita ma non per questo meno rigida, fra “noi” e “loro”, secondo cui, al limite, la loro cucina è “etnica” e la nostra, invece, no. Come ha fatto notare da tempo Silvio Ceccato (S. Ceccato, Il linguaggio con la Tabella di Ceccatieff, Parigi, 1951), uguaglianze e differenze sono rilevabili da parte di un osservatore solo in merito ad operazioni mentali che egli svolge, fissando un termine di confronto, riferendo ad esso qualcosa d’altro, e utilizzando, altresì, un criterio di confronto: due oggetti, per esempio, possono essere considerati, secondo le loro forme, uguali, mentre, prendendo in esame il colore, il materiale di cui sono fatti, la grandezza, etc., possono essere ritenuti diversi, o viceversa. E la diversità può essere attribuita all’uno nei confronti dell’altro, o viceversa. Che tutto ciò avvenga senza che, di norma, se ne abbia alcuna consapevolezza è evidente, ma non è un buon motivo in per evitare di occuparsene (come si è spesso fatto in passato, e si continua a fare), equivocando su parole come “informazione” e bollando esplicitamente o implicitamente la nozione di “operazione mentale” come “non scientifica”. Rendersi consapevoli delle attività mentali, al contrario, è il presupposto della propria responsabilità.

Francesco Ranci

 

Il tritacarne ovvero Sistemi repressivi in azione

Il Tritacarne è il titolo di un libro, presentato a Terni alcune settimane fa grazie all’impegno degli attivisti del Comitato “Gli altri siamo noi”. Karl Louis Guillien, l’autore, è ospite del carcere di Florence, in Arizona. Rischia di essere condannato a morte. I fondi raccolti con la vendita del libro dovrebbero servire a pagargli un avvocato decente. Non si tratta, tuttavia, di un libro sulla pena di morte - anche se la sua diffusione è parte di una campagna contro la pena capitale - non è una denuncia contro una mostruosità lontana.
Karl Louis Guillen descrive una sistema penale e carcerario ormai governato da meccanismi propri, interni, privi di rispondenza con una qualche esigenza sociale o politica che non sia la sopravvivenza del sistema repressivo stesso. Un universo kafkiano separato che appare nella vita reale - sotto la specie di loschi figuri, poliziotti e procuratori - solo per procacciarsi vittime. La realtà, nel libro, appare invertita: non la forza della repressione al servizio della legge e dell’ordine, ma la legge stessa ridotta a strumento per ampliare l’arbitrio dei pubblici ufficiali del sistema repressivo e giustificarne l’esistenza, law and (dis)order.
Con un’osservazione acuta Karl ricollega l’ampliarsi della sfera di condotte penalmente rilevanti - fenomeno cui va aggiunto l’inasprimento delle sanzioni penali - con l’esigenza del sistema repressivo di trovare nuove giustificazioni per investimenti crescenti nelle forze di polizia, in prigioni, in programmi correzionali: insomma per depredare i cittadini con una tassazione crescente volta a mantenere un’amministrazione parassitaria, sostenuta da una propaganda di massa che diffonde il terrore verso il crimine, visto come minaccia disgregatrice e pervasiva. Ed ecco le varie guerre al crimine: alla cocaina, al crack, alla cannabis, al terrorismo, alla violenza in famiglia, alla pedofilia... Non vi ricorda niente?
Il libro ci parla di un meccanismo che si riproduce quotidianamente sotto i nostri occhi, segno di un progressivo imbarbarimento delle coscienze anche in Italia, imbarbarimento che coincide con la perdita di amore per la libertà. Paure - accuratamente eccitate dalla stampa - di fantomatici ed incontrollabili pericoli sociali (il drogato, l’emigrato, il mafioso, lo scippatore, il pervertito sessuale) trovano un sedativo nella scoperta del capro espiatorio rituale, una vittima sacrificale che purga la collettività restituendole una tranquillità impossibile; il nostro sistema penale pare stia riscoprendo questa sua funzione primitiva.
A fronte della inutilità - oggidì manifesta - della repressione quale strumento di controllo sociale, il magistrato si carica di una funzione sacerdotale: colpendo ora questo ora quello dà l’illusione che tutti i mali possano essere riportati sotto controllo, purché si affidi al buon giudice la spada adatta da porre accanto alla bilancia. In un paese, quale l’Italia, in cui il dogma dell’obbligatorietà dell’azione penale ha cancellato ogni traccia di politica criminale, la repressione del crimine si è trasformata da laico problema politico in sacra questione, sottratta alle discussioni dei profani, dimorante nei sacerdotali palagi dei Giudici. Anche qui un universo parallelo, un meccanismo autoreferenziale, un sistema di giustizia repressiva nutrita di leggi eccezionali che, con l’alibi di dover combattere draghi feroci - pedofili, mafiosi, trafficanti - è sempre più vorace, erode progressivamente gli spazi di libertà del cittadino, per alimentare il clima d’emergenza che solo può giustificarlo.
Il Tritacarne di Guillen non è tanto lontano da noi, se solo sappiamo guardare anche solo oltre la punta del nostro naso.

S. V.

Intrisi di ideologia

La parola è una potente signora, che con corpo piccolissimo ed invisibilissimo, divinissime opere può compiere, affermava nel quinto secolo avanti Cristo il grande pensatore greco Gorgia da Lentini, sofista, scettico, retore e fine conoscitore del linguaggio e delle sue potenzialità.
Queste argute parole, non smentite dallo scorrere dei secoli (non passa giorno in cui non si debba constatare l’ormai titanica influenza dei mass-media e della pubblicità), potrebbero bene illustrare il punto di partenza delle riflessioni di Felice Accame, curatore su A della rubrica “A nous la libertè” e acuto linguista, i cui ultimi pensieri sono stati da poco raccolti dalla casa editrice Odradek nell’antologia “Dire e Condire - scampoli di ideologia nel linguaggio e nella comunicazione”(p. 199, lire 20.000). Questi consistono in brevi racconti, aneddoti, stralci di vita quotidiana, attraverso i quali Accame ci mostra come la nostra esistenza sia intrisa di ideologia, che spesso non riusciamo a controllare perchè non ne percepiamo nemmeno l’esistenza. Cento piccoli cammei - rielaborazioni di puntate della fortunata trasmissione “Caccia all’ideologico quotidiano” condotta con Carlo Oliva su Radio Popolare di Milano - che disvelano il potere profondo delle parole, dei gesti e degli oggetti, apparentemente neutri ma in realtà efficaci veicoli che condizionano le nostre idee, i nostri comportamenti, la nostra stessa percezione della realtà.
Il pregio maggiore di questo agile volume è il riuscire a combinare brillantemente quotidianità ed cultura “alta” (semiologia, prossemica, critica della scienza e del linguaggio, etologia umana), passando sotto il proprio vaglio una gamma di luoghi della comunicazione che vanno dalle vetrine dei negozi all’ascensore, dallo scompartimento ferroviario al lettino dello psicoanalista, dal sesso alla storia della filosofia e riuscendo a rendere manifesta con leggera ed agrodolce ironia la fitta trama mistificatoria che noi stessi tessiamo e che altri ci tessono costantemente attorno.
Accame non vuole qui scrivere un trattato compiuto di critica dell’ideologia; vuole soltanto spingerci a riflettere, aiutarci attraverso esempi concreti ad osservare sotto un’angolatura diversa parti di mondo che siamo abituati ad accettare passivamente e a dare per scontate. Abbozza cioè una sorta di manuale pratico di autodifesa mentale. In un mondo dove le idee sono veicolate dalle merci e sono esse stesse prodotti da vendere ed acquistare, il difficile esercizio del pensiero critico può permetterci di salvaguardare i brandelli residui della nostra libertà, evitandoci una subalternità ancora peggiore di quella economica e sociale: l’asservimento della mente.

Paolo Chiocchetti