Rivista Anarchica Online


Lapsus e malafede

 

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a cura di Carlo E. Menga

La notizia è del giornale di qualche settimana fa. Un non meglio identificato gruppo di ricercatori britannici avrebbe scoperto che farsi la barba quotidianamente garantisce una maggiore durata di vita. La ricerca, condotta su un campione di un non meglio precisato numero di persone, evidenzierebbe una correlazione pari al 70% in più dei decessi per ictus tra chi non si rade almeno una volta al giorno e chi invece lo fa, e del 30% in più quanto ai decessi per infarto.
Lì per lì decido immediatamente di cominciare a radermi due volte al giorno, liberalizzando al contempo la ormai desueta pratica di una dieta a base di “birra e salsicce”, rassicurando così le mie coronarie, con la garanzia della protezione di schiuma e bilama, che la loro durata poteva ben sperare di assestarsi fino intorno al compimento dei miei novant’anni, pur se immerse in una deliziosa e continua trasgressione lipo-alcolica.
Proseguendo la lettura, viene data una possibile spiegazione della scientifica scoperta: sembra che, poiché chi di rado si rade denota un’incuria generalizzata a tutte le abitudini di vita, il dato sarebbe rafforzato nella correlazione in quanto sintomo di circostanze concorrenti alla diminuzione della speranza di vita. Ovvero infrequenti rasature non sarebbero altro che lo specchio da barbiere di un’anima dedita all’abuso di alcolici e trigliceridi, e a un’alimentazione disordinata e sbagliata, e insomma a uno stile di vita a dir poco accidioso. E questo, grazie, lo sapevamo già. Casso la mia delibera appena nata e continuo a leggere. Le sorprese, o “scoperte”, non sono finite.
I lungimiranti ricercatori di Sua Maestà la Regina Elisabetta hanno perfino preso in considerazione la possibilità che chi non si rade ogni giorno faccia ciò per il banale motivo che di barba gliene cresce poca e lentamente. E, certo, la correlazione vale altresì per costoro, facenti parte anch’essi del campione analizzato. La spiegazione è semplice: basta postulare una predisposizione genetico-ormonale che provocherebbe oltre ovviamente alla scarsa proliferazione pilifera quell’incuria indotta e ineluttabile conducente a morte prematura gli uomini glabri, nonostante tutti i loro sforzi di tenere in ordine la stanza da letto e di praticare la dieta mediterranea, la posizione del missionario, la sveglia al canto del gallo, e il voto ai conservatori.
Ogni delibera è vana. Io sono tra quei dannati, proprietari del gene accidioso. Mi torna in mente il mio unico zio materno, molto più glabro di me, morto di Alzheimer. La correlazione ha margini di estensione micidiali. Sono spacciato.
L’articolo si chiude con l’annotazione che chi non si rade affatto giacché la barba se la fa crescere, non sarebbe coinvolto nella correlazione. Non ci viene detto il perché, anche se un lettore attento lo può evincere dall’ipotesi genetica. Né ci viene detto su che campione quantitativo sia stato condotto l’esame. Né le modalità della ricerca stessa. Forse quei luminari avranno indagato sulle abitudini di persone già defunte, raccogliendo le testimonianze orali di parenti e conoscenti. O avranno invaso i reparti di terapia intensiva degli ospedali di Sua Maestà, intervistando i degenti e redigendone una tricografia in articulo mortis. O avranno piazzato per oltre cinquant’anni telecamere nascoste dietro gli specchi del bagno di migliaia di famiglie britanniche per verificarne le frequenze di rasatura dei componenti maschi, purificando i dati con l’eliminazione di spremiture di brufoli e sputacchi di colluttorio. Che gran mistero è la scienza.
Mi sovviene, come principio ispiratore più probabile di tale ricerca, una formula scaramantica goliardica: “tres quaterque, testiculis tactis, pilo detracto usque ad sanguinem, omnia mala fugata sunt (tre volte e ancora quattro, toccandosi i testicoli, e strappatovi un pelo alla radice, tutti i mali scompaiono)”. Forse gli scienziati, correlando le proprie teste coi testiculis tactis, hanno ricevuto l’illuminazione della rasatura taumaturgica o della barba salvifica, verificando poi in vivo (o in morto: non sappiamo) la bontà di tale paradigma, secondo i preziosi criteri statistici per i quali dell’intero pollo che mangi tu è come se ne avessi mangiato mezzo anch’io.
Correlazioni così, ne può fare chiunque. A volte sono l’inverso delle profezie che si autorealizzano. Pii desideri che si vorrebbero veder realizzati. Io pure, in età giovanile, avevo ipotizzato, chissà perché, che la mia quotidiana assunzione di antistaminici per prevenire i disturbi del raffreddore poteva essere brillantemente correlata col fatto che non sarei mai morto di tumore. E sono certo che se avessi avuto il tempo e i mezzi per condurre la ricerca, avrei certamente dimostrato, restringendo o allargando il campione alla bisogna e a mio piacimento, la validità dell’ipotesi. Pensate: in tempi non sospetti collegavo la reazione istaminica del sistema immunitario alla proliferazione di cellule tumorali. Sono un genio: perché mio padre non me l’ha mai detto?
Provateci anche voi. Potete correlare la salsa di pomodoro all’ernia del disco o l’uso della maglia interna alla riduzione del visus. La masturbazione alla cecità e alla tabe dorsale è già stata correlata da precettori e prelati. Novelli Newton! Perché limitarsi a usare la mela e la testa per dimostrare solo la gravitazione? Con tutta la frutta e le parti del corpo che abbiamo sotto mano potremo dare finalmente risposta ai più insondabili misteri dell’universo.
Correlate, dunque, senza timore! In questa notte in cui tutte le vacche sono nere, se troviamo una vacca bianca affermiamo pure che la notte è bianca. Nessuno ce ne farà un torto. Riceveremo il Nobel non per la poesia, ma per la medicina. E forse anche, chissà, il titolo di baronetto dalle mani di Sua Maestà. Come i Beatles.

Carlo E. Menga