Io ho cercato di divertirmi, intendo
dire nel senso di Bertolt Brecht quando diceva che il teatro
deve essere divertente, cioè che è giusto avere
il piacere di vivere delle cose che si fanno. Può essere
il jazz, la musica popolare, Juliette Greco o Luciano Berio.
Io ho fatto poche cose nella vita di cui non ricordi unemozione
anche di piacere.
Lo poteva dire Roberto Leydi, una delle
figure più ragguardevoli della musicologia contemporanea,
interessato a tutta la buona musica, di qualunque genere fosse.
Un rendiconto della sua attività non è facile,
perché ha utilizzato i più diversi canali per
fornire fonti di riflessione agli studiosi e agli appassionati,
svolgendo una mole di attività che ha dellincredibile.
Ma larga parte di essa si è anche esplicata attraverso
le conversazioni, indimenticabilmente vivaci e intelligenti,
con decine e decine di lavoratori della musica, cui è
stato prodigo di consigli, di materiali del suo archivio e di
indicazioni di ricerca.
Con lui, ricorda Luciano Berio, non si riusciva a parlare
di cultura ma, piuttosto, di realtà specifiche, semplici
o complesse che fossero, come la struttura melodica di una canzone,
la struttura narrativa di un testo e da che cosa era abitata
lespressività di un canto. La moltitudine e la
molteplicità dei riferimenti era trattata da Roberto
con pragmatica e spesso con aneddotica trasparenza: non parlava
mai di realtà della cultura ma, piuttosto, di cultura
della realtà.
Formazione antiaccademica
Per capire lo spirito con cui Leydi ha operato, credo si debba
risalire alla sua formazione giovanile, tutta antiaccademica,
nella Milano del dopoguerra pervasa da afflati di genuina democrazia
e da grandi speranze di ricostruzione di un Italia ben diversa
da quella che ci ritroviamo oggi.
Milano allora come mi ricordava lui conteneva
una vitalità enorme, grandi illusioni e speranze. Ed
era il mio mondo. Noi eravamo Politecnico ed una
delle componenti della nostra cultura era lAmerica, che
però non piaceva per nulla a Togliatti. Io non credo
che Togliatti abbia quasi mai avuto ragione, ma in quel caso
forse un po di ragione laveva, perché forse
coglieva le nostre illusioni. Però non coglieva che terreno
fertile fosse per tutti noi quellambiente in cui tutti
noi guardavamo allAmerica. LAmerica a cui guardavamo
era quella del New Deal rooseveltiano, dei negri, dei poveri
del Sud, dei mandriani del West, dei boscaioli del Nord; era
lAmerica di Hemingway, dello Steinbeck di Furore,
di Caldwell, insomma di tutta la letteratura del New Deal. Una
delle facce del New Deal era stata quella di fare riscoprire
lAmerica dei poveri, dei disperati. Che cosera questa
America per noi? Era la disperata ricerca di una patria da parte
di un: generazione senza patria. Non potevamo riconoscerci nellItalia
di Vittorio Emanuele II o di Cavour, di Crispi o di Leonardo
da Vinci. Avevamo bisogno di una patria popolare, e il jazz
era questo: una patria popolare. Cioè era lesigenza
di riconoscerci dentro un mondo di lavoratori, di operai di
fabbrica contadini. Ciò avveniva intellettualisticamente,
perché in realtà ignoravamo che questo mondo esisteva
anche qui. Il mio passaggio allinteresse per il mondo
popolare si verifica quando ho cominciato a rendermi conto che
quella patria americana era unastrazione e che era possibile
trovarla qui. La mia coscienza politica è stata però
a lungo istintivo-retorica, mitologica, cosmopolita, tipicamente
radical-borghese, anche se colorata di rosso.
Nella Milano del dopoguerra Leydi è già una presenza
culturale di tutto rispetto. Critico musicale dellAvanti!,
la sua casa in via Solferino (poi in via Cappuccio) era il punto
di riferimento di molta intellettualità, dallarchitetto
Rogers a Umberto Eco, da Bruno Maderna a Luciano Berio, da Luigi
Pestalozza ai componenti della Original Lambro Jazz Band (quanti
sanno che quel nome lo inventò proprio Roberto Leydi?).
Ma a casa sua ci si sarebbe potuti imbattere anche in Alan Lomax
o in Big Bill Broonzy di passaggio da Milano. In quegli anni
Leydi pubblica anche Jazz time, una rivistina di
cui uscirono pochi numeri e che era caratterizzata della grafica
di Max Huber. E, più che tradurre, aveva allora riscritto
Il Jazz di Iain Lang, un libro che allora ebbe grande
successo perché invitava a riflettere sulle origini sociali
di quella musica, interpretata come espressione del proletariato
nero e bianco americano.
Ritratto di città
Nel 1954, quando Bruno Maderna e Luciano Berio fondano lo Studio
di fonologia della Rai di Milano, Roberto Leydi è della
partita. Scrive il testo di Ritratto di città,
musicato dai due. Ci si muove in un paesaggio sonoro e mentale
che propone una musica elettronica priva di limiti, in un interrelazione
del nastro con qualsiasi altro mezzo di produzione di suoni.
Tra Colonia (Karlheinz Stockhausen) e Parigi (Pierre Schaeffer)
si è insomma scelto Parigi.
Tra i suoi dischi degli anni Cinquanta va anzitutto ricordato
Kurt Weill 1933-1950, cantato da Laura Betti, diretto
da Bruno Maderna e presentato da lui, che forse raccoglie le
migliori interpretazioni italiane dei songs del musicista tedesco.
Uomo di teatro, firmerà con Filippo Crivelli Milanin
Milanon, che farà conoscere Jannacci e rilancerà
quella grande cantante da cabaret che è stata Milly.
Nel 1962, per merito di Roberto Leydi e Gianni Bosio, decollano
il Nuovo Canzoniere Italiano e I Dischi del
Sole, attività che darà un ampio corpus
di canto sociale al nostro paese. Tra laltro proprio le
loro ricerche assieme ad Alfonso Failla permetteranno di fissare
su nastro quei canti anarchici, in larga parte dimenticati o
poco conosciuti, che verranno poi fatti conoscere al vasto pubblico
da I Dischi del Sole e degli spettacoli del Nuovo canzoniere
Italiano.
Lincontro con Bosio fa maturare ulteriormente lessere
a sinistra di Leydi: Nella vicinanza di Gianni Bosio
quello che era un fatto astratto e mitologico diventa un fatto
concreto, è lacquisizione che la Rivoluzione dOttobre
cè stata davvero; è attraverso Bosio che
ho acquisito la coscienza dellesistenza di un mondo contadino
e una certa metodologia dellanalisi politica.
Dentro a quella vicenda Leydi si rivelò allora uno straordinario
organizzatore. Fu lui a scoprire Giovanna Marini e Maria Teresa
Bulciolu al Folkstudio di Roma e a portare Caterina Bueno nel
nostro sparuto gruppetto. E, a proposito del Nuovo Canzoniere
Italiano, andrà qui almeno accennato che un ruolo di
primissimo piano rivestì pure Sandra Mantovani, compagna
di tutta la sua vita, una delle voci prescelte da Luciano Berio
per il suo Questo vuol dire che
per voci e nastro
(1969).
Ma suo merito fu soprattutto quello di avere motivato al lavoro
di ricerca, e in modo duraturo, i primi ricercatori di canto
sociale. Posso testimoniare che mi ha messo un magnetofono in
mano nel 1962 e che non me lo sono più staccato di dosso.
Perché Leydi, forse senza rendersene conto sino in fondo,
ha dato anche a noi una patria e ci ha quindi fatto fare delle
scelte di vita.
In quel decollo dattività del gruppo, Leydi ha
legato il suo nome a importanti spettacoli come Pietà
lè morta (firmato con Giovanni Pirelli e Filippo
Crivelli) e Bella ciao (firmato con Franco Fortini e
Filippo Crivelli). Nel 1967 curerà Sentite buona gente.
Prima rappresentazione di canti, balli e spettacoli popolari
italiani, con messa in scena di Alberto Negrin e consulenza
di Diego Carpitella.
Lacerazione profonda
Quando nel 1965 il nostro sparuto gruppetto si ruppe fu per
molti di noi una lacerazione emotiva profonda.
Le ragioni di quella rottura ho provato a raccontarle in Una
storia cantata. Molti di noi e Bosio in testa ritennero
che la teorizzazione dello specifico stilistico
e la propensione ad appaiare il repertorio popolare a quello
colto potesse divenire una causa di integrazione del lavoro
del gruppo. Da parte sua Leydi denunciava a ragione che i gruppi
del Nuovo Canzoniere Italiano, dentro la forsennata attività
politica di quegli anni, stavano perdendo non poco di qualità.
Ma quello che fece precipitare la situazione furono i tentativi
di forzare Leydi ad assumere la direzione del nascente Istituto
Ernesto De Martino con un lavoro a tempo pieno, certo poco retribuito
e palesemente poco garantito. Leydi, che allepoca lavorava
a LEuropeo, rifiutò quello che gli
parve un salto nel buio e unattività meno consona
ai suoi obbiettivi, che solo parzialmente coincidevano con i
nostri. Secondo me, fu un grosso errore di valutazione da parte
di Bosio quello di offrirgli un incarico che questi non si sentiva
di assumere.
In seguito Leydi si è impegnato in altre importanti imprese
di organizzazione della cultura che hanno fortemente contribuito
a modificare il panorama della nostra musica orale.
Ricordo anzitutto lattività del Servizio per la
Cultura del Mondo popolare della Regione Lombardia, che promosse
ricerche sulla cultura e sulla musica popolare provincia per
provincia, sfociato nella monumentale opera in 15 volumi Mondo
popolare in Lombardia e nella collana discografica documenti
della cultura popolare, cui hanno collaborato decine di studiosi.
Nella sua attività di titolare della cattedra di etnomusicologia
al Dams di Bologna alla cui fondazione contribuì
non poco è riuscito a creare un buon gruppo di
ricercatori preparati, che hanno portato letnomusicologia
italiana al riconoscimento mondiale. La sua cattedra, segnata
da quella visione aperta dai fatti sonori che è stato
il leitmotiv di tutta la sua vita, ha alimentato in molti giovani
linteresse non solo per letnomusicologia ma anche
per canto sociale, la popular music, il jazz.
Tra le imprese editoriali che ha promosso mi pare siano da ricordare
in questa sede soprattutto lopera collettiva in due volumi
Guida alla musica popolare in Italia e, curata con
Febo Guizzi, Gli strumenti musicali e letnografia
italiana (1881-1911).
Fondamentali resteranno le sue ricerche sulla canzone narrativa
e sulla musica di Creta.
Processo di svecchiamento
Ma, per capire lo spirito di Leydi, il volume chiave è
Laltra musica, dove la tradizione colta è
vista una volta tanto come altra e per una volta
sono i bianchi a essere gli altri; e
dove si nota che è stata la crisi dei modi tradizionali
di fare la storia o di occuparsi del folklore ad aprire la strada
al processo di svecchiamento delletnomusicologia italiana.
Questa crisi è nata prevalentemente per lattività
di storici e folkloristi fuori dalle istituzioni accademiche
o tenuti a lungo ai suoi margini e informa Leydi
non diversamente sono andate le cose in ambito etnomusicologico:
Se il processo di adeguamento e di rinnovamento delle
scienze del folklore in generale fu in quegli anni del secondo
dopoguerra affidato alla presenza di una forte sensibilità
sociale non tanto alle istituzioni accademiche, quanto (e in
parte notevole) a fasce di ricerca e di studio escluse dalle
istituzioni accademiche o, se in esse pur collocate, viste come
marginali o addirittura pericolose, questo destino fu particolarmente
riservato allo studio delle musiche popolari. È così
che letnomusicologia si sviluppa e si definisce, in Italia,
fuori dalle Università.
A Leydi non sfuggiva che la proposta avanzata oggi da parte
delletnomusicologia italiana perché si guardi alla
musica con una mentalità diversa da quella legata alla
scrittura era in realtà un aspetto di una più
ampia contestazione che aveva investito in misura maggiore o
minore tutte le scienze delluomo, a partire dagli anni
Sessanta, ed era parallela a quella sostenuta in storiografia
da quegli studiosi formatisi allinterno o a latere del
Nuovo Canzoniere Italiano. Questo gruppo di storici rappresenta
oggi gran parte della oral history italiana, che
gode anchessa di riconoscimenti unanimi a livello mondiale.
Non ultimo merito di Roberto Leydi è stato quello di
raccogliere per tutta la vita le fonti del suo lavoro: ha lasciato
una importantissima raccolta di strumenti musicali popolari
(oltre 650), 1.045 nastri con oltre 3.000 inchieste sul campo,
circa 10.000 dischi e una biblioteca specializzata di oltre
6.000 volumi al Centro di dialettologia e di etnografia della
Svizzera italiana, con sede a Bellinzona.
Un modo di salvare un patrimonio di cultura e memoria, lasciatoci
da tanti contadini e operai per preservarlo e farlo conoscere,
da un paese come il nostro che non sa che distruggere questi
suoi beni culturali (non attrezzarsi per conservarli significa
di fatto distruggerli).
Credo che questa sia stata la sua ultima proposta culturale:
per salvare la memoria della classe è necessario andarsene
da questo nostro paese a Lugano (recentemente là sono
finiti i materiali raccolti da Polotti), a Bellinzona o ad Amsterdam
Cesare Bermani
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