Premessa: da molto tempo coltivo lambizione
di raccogliere materiale sufficiente per scrivere un libro sulla
Resistenza nel Vicentino e in particolare sui Colli Berici sperando
di contribuire alla conoscenza di episodi, personaggi, situazioni
finora trascurati, soprattutto per larea collinare dove
operò la Brigata Silva. Esiste, infatti,
una discreta documentazione sulla Resistenza operante sui monti
vicentini (dal Pasubio allAltopiano di Asiago, dalla Val
dAstico al Grappa), grazie anche alla diffusione dei libri
di Meneghello (v. Piccoli maestri) ma molto poco
sui Berici, le colline a sud-est di Vicenza.
Intanto il tempo passa e il materiale si accumula invano, rischiando
anche di disperdersi ad ogni trasloco.
Ho deciso quindi di scrivere qualche articolo, senza alcuna
pretesa di fare la Storia delegando ad altri leventuale
realizzazione di unopera sistematica.
Dato che finora la mia fonte principale è costituita
da familiari (genitori, zii
) alla fine il racconto peccherà
inevitabilmente di personalismo. Chiedo venia in
anticipo agli addetti ai lavori ma ritengo che comunque anche
queste testimonianze, per quanto parziali, contribuiscano a
ridare un volto ad alcuni di quei combattenti per la Libertà
che, con le armi o semplicemente rifiutandosi di collaborare,
contribuirono a sconfiggere la peste bruna e nera.
Leone
Sartori Marcello
I bombardamenti: unoccasione per salvarsi la vita
Fin da piccolo avevo spesso sentito parlare dei devastanti
bombardamenti subiti da Vicenza dato che mio padre, Leone Sartori
detto Marcello, classe 1925, aveva vissuto di persona
i tristissimi momenti. Quei fatti avevano di certo contribuito
alla sua scelta di non arruolarsi nelle fila dellesercito
di Graziani e Mussolini, di rendersi latitante e alla fine di
entrare in contatto con i partigiani della brigata Silva
(dal nome di un partigiano caduto) che operava sui Colli Berici.
«Durante uno dei tanti allarmi aerei mi trovavo al distretto
militare di Vicenza precisa Marcello non
senza una piccola reticenza dovuta al suo carattere schietto
e schivo e sicuramente il distretto poteva essere uno
dei tanti obiettivi. Per questo i comandanti avevano fatto uscire
al primo suono della sirena dallarme un gruppo di 60-70
soldati che si diresse verso la zona della stradella dei
nani. Io uscii con il secondo gruppo ma non riuscimmo
a percorrere molta strada. Quando cominciarono a cadere le bombe
ero proprio davanti allo stabilimento del Lanificio Rossi (a
Porta Monte N.d.A.). Mi buttai a terra calcandomi in testa il
berretto.
Approfittando di una breve pausa cercai di raggiungere il ponte
sospeso sul Bacchiglione che era stato danneggiato e penzolava
sostenuto da una sola delle due corde sul fiume. Lo attraversai
aiutandomi a forza di braccia sperando nella sorte. Sapevo che
seguendo il Bacchiglione sarei potuto arrivare a casa mia potendo
usufruire della rigogliosa vegetazione. Mi fermai solo dopo
qualche chilometro, ormai in aperta campagna, e guardai verso
Vicenza.
Il bombardamento era cessato, si distinguevano alte colonne
di fumo sopra la città. Ripresi a correre lungo la riva
sino alla corte dei Dalmaso. Il tempo di far sapere a mia madre
che ero vivo e poi subito a campi. Cominciò così
la mia latitanza di renitente. In zona ero il primo ma presto
diventammo numerosi. Di giorno stavo nascosto nei campi o tra
gli alberi della riva del Bacchiglione. Di notte, col buio,
raggiungevo la tesa (fienile) dei Dalmaso per dormire.
Quale fosse il mio abituale rifugio notturno, oltre ai miei,
lo sapeva solo Bepi, il più anziano dei fratelli Dalmaso.
Non lo sapeva nemmeno Toni Sgarabotto, il mio futuro suocero.
Toni arrivava ogni mattina prestissimo per guernare
la stalla e le mucche. Alla sera dalla tesa recuperavo la scala
che, al mattino, rimettevo al suo posto per scendere. A volte
capitava che Toni arrivasse troppo presto e, mentre andava in
giro brontolando in cerca della scala, la calavo giù
e filavo via. Anni dopo mi ha detto di aver avuto qualche sospetto
ma di non averne mai fatto parola con nessuno. Quando poteva
mia madre mi portava da mangiare, badando bene a non dare nellocchio.
Qualche volta nascondeva il cibo in fondo alla secchia e veniva
a lavare al fiume.
Altre volte arrivava con la traversa (grembiule
N.d.A.) piena di erba raccolta per i conigli e, sotto, qualcosa
da mangiare.
Non si può dire che in famiglia fossimo consapevolmente
antifascisti ma di sicuro la notizia della morte di mio fratello
Danilo in Grecia mi aveva fatto capire molte cose.
Comunque cera stato qualche precedente. Mio padre, Augusto,
era obbligato, una specie di bracciante. Durante
una lotta contro i proprietari, parecchi anni prima della guerra,
lui e i suoi compagni avevano nottetempo aperto le stalle e
fatto scappare le mucche per la campagna (e in questo, se permettete,
oltre che un momento della lotta di classe vedo un preannuncio
della mia militanza animalista N.d.A.). Per rappresaglia, il
giorno dopo, ricevette la visita di tre squadristi. Lo avevano
già immobilizzato e stavano per fargli bere lolio
di ricino quando mia mamma (mia nonna, Evoli Marta, detta Pina
N.d.A.) arrivò con la forca e ne infilzò un paio.
Se non ricordo male uno alla gamba e laltro ad una chiappa.
Se ne andarono di corsa, nonostante le ferite, senza farsi più
rivedere».
Purtroppo le cose andarono diversamente per un mio zio (marito
di Marcella Sgarabotto, sorella maggiore di mia madre) Tilio
(Attilio) Fasolato, operaio allo stabilimento Rossi di Debba
(prima canapificio poi cotonificio, da non confondere con laltro
cotonificio Rossi di Porta Monte, in città), principale
industria della zona. Qui andarono a lavorare anche mia zia
e poi mia madre, Rosa Sgarabotto, alletà di tredici-quattordici
anni. Tilio, socialista e sindacalista, venne aggredito
dai fascisti che evidentemente non apprezzavano i suoi tentativi
di organizzare i compagni di lavoro; subì lonta
di dover ingurgitare a forza lolio di ricino e rischiò
di morirne. Un altro operaio dello stabilimento che subì
angherie e persecuzioni (anche dopo la fine della guerra) fu
il mitico Battistella, comunista e agitatore, ma anche grande
amico personale dellaltrettanto mitico Don Camillo, parroco
di Debba, laureato in ingegneria e assai energico, anche se
viveva con un solo polmone. Durante la Resistenza divenne una
sorta di cappellano militare dei partigiani della
Brigata Silva. Scoperto dai nazifascisti era già
stato messo al muro per essere fucilato; venne salvato in extremis
dallintervento di un ufficiale tedesco. Don Camillo ebbe
poi modo di ricambiare alla fine della guerra.
Quanto alla violenza fascista nei confronti dei lavoratori,
operai o contadini, essa non esprimeva altro che quella intrinseca
ai rapporti sociali del tempo. Cè un episodio nellinfanzia
di mio padre che, a mio avviso, potrebbe trovare posto in Novecento
o anche tra le pagine di Ragazzo negro. A Longara
cè ancora una villa padronale, allepoca (inizio
degli anni trenta) provvista anche di campo da tennis, dove
i rampolli del signor ricco si dilettavano con i loro amici
e ospiti.
Capitò a Leone (che abitava allora poco lontano, al Tormeno),
mentre rientrava con una fascina di legna raccolta nel bosco,
di vedere una palla fuoriuscire e rotolare tra le stoppie. La
raccolse prontamente, come un bene prezioso data labituale
indigenza in cui versava la sua famiglia, dandosi alla fuga.
Venne raggiunto da grida e minacce ma non si fermò. A
questo punto si ritrovò inseguito da alcuni cani di grossa
taglia che i signori avevano liberato, non tollerando evidentemente
latto di scortesia, se non proprio di ribellione, del
bambino.
Un mondo ai margini
Ma torniamo al tempo di guerra. La terra di mezzo,
compresa tra la strada che da Vicenza, passando per Casale,
porta a San Piero Intrigogna e le anse del Bacchiglione, era
quindi diventata il rifugio temporaneo di Leone Sartori e altri
renitenti. Solo unesigua striscia di terra in prossimità
dei Colli Berici, che allepoca però offriva diversi
ripari naturali, sia di giorno che di notte. In particolare
le rive coperte di alberi, le piantà e le
siese. Senza dimenticare il rilievo del monteseo,
detto dei Dalmaso, ricoperto dalla vegetazione di
un rocolo e in cui si apriva anche una piccola cavità
naturale, il classico buso della Stria. Una sorta
di terra di nessuno, costituita da interstizi marginali
e sconosciuti che furono anche i luoghi prediletti delle mie
scorribande infantili negli anni cinquanta. Luoghi che ora nella
mia memoria ritrovo avvolti in una atmosfera un po magica,
forse per il fatto di essere legati allacqua, alle grotte,
alla vegetazione
Percorsi ignoti ai foresti
(in senso lato, intendendo sia i tedeschi che la gente di città)
che intersecavano quelli normali (ufficiali) dando
vita quasi ad una realtà parallela, offrendo vie di fuga
e rifugi. Tutto ciò però non poteva accadere se
non ci fosse stata la robusta e tacita complicità degli
abitanti della zona. Si sapeva tutto e nessuno sarebbe sfuggito
alla cattura se le notizie fossero arrivate alle orecchie sbagliate.
«Qualche volta continua Leone mi arrischiai
anche a dormire a casa. Avevo tagliato una delle inferriate
che chiudevano la finestrella in alto (in granaro,
dove negli anni cinquanta ricavò la stanzetta in cui
trascorsi la mia infanzia N.d.A.), così da potermici
infilare. Oltre alla comoda tesa dei Dalmaso avevo
altri rifugi demergenza. Me ne scavai qualcuno lungo la
sponda dei fossi, in particolare alle pendici del monteseo.
Scavavo via la terra della riva e mettevo dentro un gabbiotto
per i conigli, di quelli lunghi. Poi ricoprivo con zolle ed
erba. Ma ci dormivo il meno possibile, temendo di venir preso
come un topo in gabbia.
Dopo qualche tempo dalla mia fuga dal distretto furono in parecchi
a trovarsi nella mia stessa situazione. Chi dormiva nei campi,
chi in qualche rifugio, chi nelle tese. A quel punto
la gente della zona di Casale, Casaletto, San Piero Intrigogna
sapeva bene che eravamo fuggiti dalle caserme. Che eravamo alla
macchia. Sbandati, come si diceva allora. Nessuno
però fece la spia.
Una volta partecipai addirittura alla sesola; per
dieci-quindici giorni raccolsi il frumento insieme a tutta la
gente della mia contrada, che mi conosceva benissimo ma che
mi proteggeva con il suo silenzio. Ricordo che a quella sesola
partecipò anche il Moro, Luigi Sgarabotto.
Era appena ritornato dal fronte, ferito ad una gamba. Della
guerra, diceva, ne aveva avuto abbastanza. Anche mio fratello
Vittorio lavorava con noi, aveva un figlio a cui avevamo insegnato
di chiamarmi con un altro nome. Un giorno dovetti restare nascosto
in mezzo al grano (che allepoca cresceva più alto
N.d.A.) perché i brigatisti neri facevano il bagno lì
vicino, nel Bacchiglione. Prima che decidessero di tornare a
riva (dalla parte opposta, verso Longara, dove avevano la caserma)
trascorsero delle lunghe ore».
Gianni
Sartori in una foto degli anni 70 con sua nonna "Pina"
(Marta Evoli) che durante la Resistenza cacciò i fascisti
con il forcone
Tra rastrellamenti e furti campestri...
Successivamente Leone Sartori si rifugiò per qualche
giorno dalle parti di Montegalda, in una fattoria. Poi però
dovette ritornare al monteseo e il fratello Giovanni,
operaio allo stabilimento di Debba, andò a prenderlo
in bici
Il ritorno, di notte naturalmente, si svolse così:
«ci davamo il cambio; uno pedalava e laltro stava
seduto sul palo. Prima di ogni curva, a scanso di brutte sorprese,
io scendevo e saltavo al di là del fosso, proseguendo
a campi. Poi, visto che tutto era tranquillo, risalivo sulla
bici fino alla curva successiva».
«In seguito tornai per un altro breve periodo dalle parti
di Montegalda, ospite nella tesa di Neno Fraca
dove per la prima volta entrai in contatto con alcuni partigiani.
Lo conoscevo perché prima della guerra mio fratello aveva
lavorato sui suoi campi. Il fratello di Neno venne poi assassinato
dai fascisti, proprio da quelli della Nera di Longara.
Venne fucilato vicino alla ferrovia, accusato di essere un partigiano.
In realtà si era solo rifiutato di consegnare ad un plotone
di tedeschi e di fascisti il suo mezzo di trasporto, non ricordo
se la bici o il cavallo. Qualche giorno dopo i partigiani uccisero
nello stesso punto un tedesco e lo seppellirono a testa in giù,
in modo che sporgessero solo i piedi. In conseguenza di questo
episodio ci fu un rastrellamento. Quel giorno mi trovavo sui
campi al di qua del fiume, verso Ghizzolle. La giornata era
limpidissima, si riusciva a scorgere il pendio del Monte Lungo
di Montegalda, dove era in corso una vera caccia alluomo.
Alla fine due partigiani rimasero uccisi e sei o sette catturati.
Venimmo a sapere poi che loperazione di rastrellamento
era andata a colpo sicuro perché qualcuno del posto aveva
informato i fascisti sui luoghi dove si nascondevano partigiani
e renitenti (ribelli e sbandati)».
Ma non cerano solo i periodici rastrellamenti a turbare
il sonno di Leone e compagni.
«Una notte, mentre dormivo nella stalla di Neno (invece
che nella solita tesa, forse perché pioveva)
in mezzo alla paglia, vennero i ladri. Rubarono alcune galline
e cercarono di portarsi appresso due maiali. Accortisi della
mia presenza fuggirono precipitosamente. Per la porta rimasta
aperta, anche i due maiali colsero loccasione per scappare.
Ormai però qualcuno sapeva che dal Fraca
si nascondeva un renitente e così dovetti andarmene.
Nel frattempo era stata concessa unamnistia e, evidentemente
malconsigliato, mi ripresentai al distretto. Venni subito trasferito
alla caserma dei bersaglieri in via san Silvestro ma, capito
che con ogni probabilità la nostra destinazione sarebbe
stata la Germania, alla prima occasione tolsi il disturbo (sulle
deportazioni di soldati italiani dal vicentino, dopo l8
settembre, esistono le prove inoppugnabili di alcune fotografie:
ammassati a centinaia nei cortili della caserma Cella, a Schio,
in attesa di essere fatti salire su decine e decine di pullman
con destinazione Germania N.d.A.). Approfittai del solito allarme
per i bombardamenti e stavolta mi diressi verso la Gogna. Nonostante
loscurità riconobbi tra le persone in fuga il Moro
(Luigi Sgarabotto, fratello di Rosa che poi sarebbe diventata
moglie di Leone e quindi mia madre N.d.A.)».
In seguito anche Luigi si sarebbe rifugiato nei dintorni del
monteseo, costruendosi un rifugio nel buso
della stria dopo aver ampliato la cavità con lesplosivo.
«A questo punto, prosegue Leone nella totale
confusione provocata dal bombardamento, ritornai indietro, verso
Monteberico. Poco dopo il 10 Giugno, dove inizia
la salita verso il santuario, entrai nella grande galleria (ancora
visibile ai nostri giorni, anche se murata N.d.A.) che si apre
alla base del monte. Non saprei dire quanto sia lunga e nemmeno
dove esca di preciso, probabilmente nella Valletta del Silenzio,
da dove è abbastanza agevole raggiungere Longara e Debba.
Ricordo di averla percorsa completamente al buio, tenendomi
aderente al muro mentre intorno sentivo i passi di decine di
altre persone in fuga».
Leone rientrò poi nella sua piccola patria,
in mezzo ai campi o sulle rive del fiume in attesa di unirsi
ai partigiani della brigata Silva, allora già
attivi sui Colli Berici.
Precedenti di militarizzazione nel sottosuolo berico
Come è noto, attualmente alcune cavità dei Colli
Berici sono un vero e proprio ripostiglio per lesercito
americano, sia a Longare che al Tormeno. Ricorda mio padre che
durante la guerra cerano stati precedenti significativi
nellopera di militarizzazione delle cavità collinari
nostrane.
I Tedeschi avevano pensato di utilizzare come deposito sotterraneo
per gli impianti industriali le antiche cave di Costozza, in
modo da proteggerli dai bombardamenti degli Americani. Questi
ultimi evidentemente appresero bene la lezione e in seguito
lapplicarono alla grande con la base denominata Pluto.
Racconta Leone: «A Costozza, dentro alle grotte, avevano
trasportato gli impianti di numerose industrie. Ricordo che
cerano le Reggiane, la CARI, la Ducati, lAlfa Romeo,
anche la Laverda, mi pare
Tutti i macchinari erano stati
messi al sicuro. I tedeschi non erano molti, qualche decina
più
che altro per controllare i lasciapassare. Dentro poi cerano
delle guardie alle dipendenze delle varie ditte, della CARI
in particolare. Tra i civili cera molta gente in contatto
con la Resistenza. La consegna era di salvare i macchinari ma
di non produrre niente, niente di utilizzabile almeno. Questa
era stata una precisa consegna del CLN durante lultimo
inverno di guerra: scendere a valle ed eventualmente guadagnarsi
anche da vivere lavorando per la TODT (valeva per chi non era
troppo compromesso, ovviamente) salvaguardando gli impianti,
i macchinari in vista della ricostruzione postbellica (e magari
delloccupazione delle fabbriche N.d.A.), sabotando invece
la produzione».
Il racconto di mio padre continua: «A Costozza nessuno
produceva niente perché nessuno voleva produrre per i
tedeschi. Se per esempio si doveva fare un pezzo di ricambio
si faceva in modo che fosse inutilizzabile
»
«Dentro a Costozza cerano anche diversi partigiani
della Silva (ovviamente in incognito). I Tedeschi
si erano sistemati in basso, prima del Volto (il
caratteristico torrione sotto cui passa la strada per Lumignano
N.d.A.), in una palazzina. Il padrone delle grotte, mi dicevano,
era un conte; dentro era immenso. Cera una strada sotterranea
che usciva in Col de Ruga, dove adesso ci sono gli Americani
(la comunicazione tra larea delle grotte rivolta a Costozza
e quella verso Col de Ruga-Longare, dove si trova la base Pluto,
venne poi murata dagli Americani N.d.A.). Ricordo degli spazi
immensi, dei pilastroni enormi. A mezzogiorno si usciva per
la mensa che si trovava sulla sinistra, in direzione di Lumignano.
Eravamo tantissimi. Per la strada, alluscita, si faceva
fatica a procedere. Con noi mangiavano anche i dirigenti, gli
ingegneri che alloggiavano presso i Buoni Fanciulli
dellOpera Don Calabria».
In merito ai ricordi sulle incursioni alleate, aggiunge: «A
Costozza gli aerei hanno attaccato 3-4 volte sparando dentro
alla bocca principale con le mitragliere (con il 75,
si diceva). Per avere qualche possibilità di infilare
i proiettili nellimbocco, scendevano in picchiata; mitragliavano
e, quasi subito, dovevano immediatamente impennarsi e risalire
per non schiantarsi contro il monte. Ricordo invece che una
volta sono passati, molto in alto, così tanti apparecchi
da far spavento
Hanno continuato a passare dalla mattina
alla sera. Spuntavano sopra Lumignano e si dirigevano verso
Vicenza. Sopra la città poi si diramavano; una parte
andava a bombardare Verona, altri si dirigevano altrove. Qui
in genere non bombardavano forse perché i Colli Berici
erano una zona controllata dai partigiani».
Alla fine il piccolo presidio di Tedeschi, prima di abbandonare
la posizione trattò con i partigiani la consegna di un
salvacondotto per potersene andare senza essere attaccati. In
cambio non avrebbero fatto saltare i macchinari. Così
avvenne anche se, da notizie non confermate raccolte a Pianezze
(da una fonte solitamente ben informata ma che vuole restare
assolutamente anonima), questi tedeschi sarebbero stati poi
sterminati da un altro gruppo di partigiani a Motta, sulla strada
per la Valdastico.
Stragi nazifasciste nel Vicentino
Ma nel vicentino si conserva soprattutto la memoria di svariati
eccidi di civili operati dai nazifascisti; particolarmente efferato
quello di Monte Crocetta (appena fuori da Vicenza) dove vennero
uccisi anche ragazzini di tredici o quattordici anni. A Pedescala,
in Val dAstico, poi vi fu una vera e propria strage (più
di sessanta persone), compresi vecchi e bambini. A Vicenza,
nonostante le recenti derive destrorse (una dozzina di consiglieri
comunali di AN; niente male per una città in cui operarono
anche i GAP e medaglia doro della Resistenza), si ricordano
ancora ogni anno i Dieci Martiri, prelevati dal
carcere di Padova e assassinati dai nazifascisti in prossimità
della ferrovia, vicino al ponte sul Bacchiglione. Meno noto
leccidio di Campedello, forse una rappresaglia per il
tedesco ucciso a Longara, prima dellassalto-saccheggio
al deposito di viveri. Anche in questo caso le vittime civili
ammontarono a una decina. Ricorda mia madre Rosa che un altro
deposito-viveri dei tedeschi si trovava a Debba e che vi era
conservata anche una grande quantità di zucchero, allepoca
raro e prezioso. Prima di scappare un tedesco (proprio quello
che aveva salvato Don Camillo dalla fucilazione!) stava per
incendiarlo, ma venne convinto a desistere dal parroco. In cambio
venne tenuto nascosto in canonica e poi, quando le acque si
erano ormai calmate, poté ripartirsene indisturbato per
la Germania. Sempre mia madre, ricorda di averlo visto in un
paio di occasioni a Debba, dove tornò spesso a salutare
e ringraziare il battagliero parroco. Quanto ai viveri contenuti
nel deposito vennero equamente distribuiti tra i poveri
(la stragrande maggioranza) di Debba e dintorni.
Ma il lieto fine con riconciliazione finale fu senzaltro
uneccezione. Un po dovunque, sia sui Colli Berici
che in città, per non parlare dellAlto Vicentino
(v. Malga Zonta), si trovano lapidi che ricordano la morte per
mano dei nazisti e dei loro complici, i collaborazionisti in
camicia nera, di civili e partigiani. Alcuni casi furono particolarmente
drammatici, come a Pederiva (nella stretta Val Liona che si
insinua tra i Colli, sovrastata da Zovencedo e Grancona) dove
un gruppo di giovani renitenti che si erano radunati nella chiesetta
del paese per raggiungere le formazioni partigiane sullAltopiano
di Asiago, caddero in unimboscata e, prima di essere uccisi,
vennero barbaramente torturati. Ancora oggi cè
chi ricorda con orrore i resti smembrati dei giovani e i muri
ricoperti di sangue. Tanta fu la ferocia che da allora la chiesetta
è rimasta sconsacrata. Altre volte si tratta di episodi
minori come quello ricordato da una lapide ingrigita
di Campedello. Qui due fratelli vennero fucilati per non aver
prontamente consegnato la loro bicicletta a un reparto di Tedeschi
in fuga, forse gli stessi che provenivano da Costozza.
Sempre a Pianezze (dalla stessa fonte che mi ha fornito la sua
versione sui Tedeschi scappati ma intercettati poi dai partigiani
a Motta) ho anche avuto la dritta per identificare dove si trovava
il mitico campo da bocce dei partigiani della Silva.
In effetti, in mezzo a un degradato bosco di castagni, è
ancora ben identificabile un lungo spiazzo che appare sicuramente
spianato dalle mani delluomo. Qui alcuni partigiani si
erano costruiti quel campo per le bocce dove ammazzare il tempo
in attesa dei lanci degli alleati e di cui avevo sentito parlare
anche da mio padre. Non aveva però mai avuto loccasione
di farne uso e si era convinto che si trattasse soltanto di
una leggenda.
Gianni Sartori
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