Da alcuni anni, tra libri, saggi e convegni,
si è scandagliato molto nella figura e nellopera
di Fabrizio De André fino a risalire alle sue radici,
ai suoi referenti, alle sue letture. Ancora oggi si scoprono
o si sottolineano nuove e più complete sfaccettature
di questo autore-interprete il cui flusso, addizionandosi nel
solco fluviale della sua poetica pare non arrestarsi, anzi crea
affluenti collaterali che poco a poco crescono diventando altri
fiumi in piena. Ritengo che il panorama storico-critico abbia
portato alla luce innanzi tutto il fenomeno poco noto o mal
equivocato del poeta in musica, un distinguo
necessario per determinare le scansioni diversificate nellambito
della canzone dautore, senza peraltro svilire nessuno.
Bisogna pur dire che la maggior parte dei cantautori che hanno
timbrato il nostro tempo rinnovando il clima generale della
canzone attraverso la dimensione poetica e sociale non sempre
hanno rischiato lo strappo traumatico dalla struttura tradizionale
della canzone tendendo lorecchio alle scorciatoie sonore
dellascolto popolare. Una canzone che in loro vive non
scorporata dagli elementi che la costituiscono: voce, testo,
musica. Il poeta in musica è unaltra cosa, si spinge
oltre scardinando regole e convenzioni e di questi artisti ne
nascono uno o due nellarco di un secolo. Il poeta in musica
è invece individuabile anche in quei tre elementi separati,
soprattutto nel testo. Un testo, ad esempio, che se solo recitato
vive così, isolatamente, senza musica né voce,
in una sorta di test disciplinare avendo trovato, con talento,
genialità e fatica, una propria lingua, stilisticamente
alta, compiuta, originale, unitamente a unurgenza contenutistica
di ordine esistenziale, etico, politico. In Europa il poeta
in musica nasce nel dopoguerra in Francia, a Parigi, determinando
quella che fu chiamata la chanson de Saint Germain des
Près e i nomi che ci vengono subito in mente sono
quelli di Léo Ferré, Georges Brassens, Boris Vian,
Jacques Brel. Autori profondamente diversi tra loro ma accomunati
da un identico sogno: lanarchia. Le radici di Fabrizio.
Il poeta in musica è un poeta tout court
che infastidisce gli accademici oscurantisti per laffiancamento
della parola alla musica ritenuta frivola e dequalificante mentre
sappiamo che funge da veicolo emotivo allazione penetrativa
della parola geneticamente compatibile con il pentagramma e
che da questo ne assorbe tutto il beneficio come una cellula
staminale che salva la poesia dallingerenza della civiltà
videotecnologica.
Forte matrice anarchica
Sa bene Fernanda Pivano e ce lo ha insegnato, quanto sia stato
importante per i poeti beat il rapporto con la musica, dal bebop
di Charlie Parker, al jazz, al folk, al pop, e non solo in sede
di scrittura spontanea ma anche durante i loro reading
pubblici. Penso che in questo senso la musica e il canto abbiano
enormemente allargato la fruizione della poesia portandola dai
salotti elitari alle strade del mondo come un linguaggio forse
sommerso ma primario tra le genti.
E di quel movimento di stampo planetario che si ispirò
più o meno coscientemente alla cultura beat, voglio ricordare
linseminazione luminosa pre-libertaria che fecondò
le nostre tenere coscienze dallora alimentando valori
come lantimilitarismo, il pacifismo, il senso della comunità
universale nel rispetto dellaltro. Una posizione, a quei
tempi, nettamente inversa e invisa allestablishment istituzionale
diviso tra profitto e bomba atomica.
Ecco dunque la parola e la musica che tornano insieme perché
di questo si tratta: riportare la poesia alla sua fonte originaria
quando non era separata dalla musica. Di Fabrizio sè
detto tanto: Fabrizio come uno dei più grandi poeti del
secolo, Fabrizio raffinato ricercatore musicale, Fabrizio autore
dalla forte matrice anarchica che detesta e rifiuta ogni forma
di autorità. Una natura libertaria la cui destinazione
finale, dopo la critica al potere, è la pietas
verso gli ultimi, i dannati della terra che proprio sulla terra
conoscono il loro inferno. Una pietas che talvolta
è stata strumentalizzata da certe aree clericali che
hanno cercato di digerirla e metabolizzarla parlando di anarchismo
cristiano mentre in Fabrizio la pietas è
laica, terrena e anche reattiva contro chi riduce gli ultimi
a essere tali. Come, daltra parte, il suo Gesù
de La buona novella, già così disegnato
e designato dagli stessi Vangeli Apocrifi. Si è parlato
più spesso di Fabrizio nella sua fase centrale e finale
quando ormai le stazioni dellesordio, quelle intermedie
e quelle formative, erano cronologicamente lontane ma per continuare
a tracciare la mappa della sua personalità così
interconnessa con una dinamica conflittuale ad alto potenziale
etico-esistenziale, vorrei riportare lattenzione su un
aspetto che forse è stato scavalcato dallo scorrere del
tempo e dal suo libertarismo raggiunto, un elemento che però
non è disgiunto dal suo traguardo utopico e che forse
ne rappresenta lanticamera gestatoria. Ed è il
maledettismo che nel periodo iniziale della sua carriera
caratterizzò alcune sue opere e limmagine stessa
che di lui a noi semplici ammiratori giungeva condividendo con
le sue nascenti posizioni anarchiche che andavano via via sempre
più definendosi fino a staccarsi da quel maledettismo
per votarsi completamente alle realtà locali, alle etnie
minori, e a circumnavigare nella sua odissea geomusicale il
bacino del Mediterraneo, dove il canto delle sirene non è
altro che lanima storica di quelle terre a noi confluenti
e interscambiabili in un unico diapason, in un comune sentire
e ritrovarsi.
Una convivenza, quella tra anarchismo e maledettismo, che già
preesisteva proprio nei suoi referenti francesi citati. Autori
che vivevano questa bidimensionalità, ora
introflettendosi nella misantropia maudit, ora aprendosi
alla rivendicazione sociale in chiave libertaria. Addirittura
Léo Ferré musicò e cantò i poeti
maledetti come Baudelaire, Rimbaud, Verlaine, Rutebeuf,
Angiolieri e Villon. Questi ultimi due magico parellelismo
fraterno furono affrontati anche da Fabrizio quando lavorò
a Si fosse foco di Cecco Angiolieri e a La ballata
degli impiccati sollecitata dal clima della Ballade des
pendus di François Villon. Quella del maledettismo
è innanzi tutto una rivolta esistenziale contro lingiustizia
genetica insita nella vita, una contrazione acre ad intestino
cieco che reagisce ad ogni forma di sublimazione dottrinale
con una rappresaglia solipsistica disperata e onnivora, una
ritorsione che sbanda e deraglia poiché priva di bersagli
concretamente individuabili e che appunto introflette nelloscurità
il poeta contro senza per altro impedirgli di inveire
contro quei modelli di vita sociale e di morale istituzionalizzata
che a lui si contrappongono e che appartengono da sempre al
potere. È come se sussistesse il versante teso allutopia
estrema e quello che prolassa nella consapevolezza della natura
umana, una sorta di disperazione critica, una lotta impari tra
lineluttabile e il liberabile.
Terrificante efficacia
Seguendo il breve cammino di questi fiori del male
che Fabrizio ha seminato nel suo giardino incantato strappiamo
il primo petalo con Il Testamento del 63. Qui il
codice espressivo del maledetto è pienamente
rispettato ed emerge una volta scrostata lironia dissacrante
che la riveste. Un altro petalo nero è Delitto di
paese da Lassassinat di Brassens, datato 65.
Arriviamo, lanno successivo, ad incontrare un piccolo
capolavoro di maledettismo La Ballata dellamore cieco,
terribile martirio che finisce nel sangue, nel mattatoio dei
sentimenti. La corolla continua a denudarsi nel 67 con
il brano La Morte dove la disgregazione corporale sfiora
toni espressionistici di terrificante efficacia.
Apriamo infine lo spiraglio sulla buia serra di Tutti morimmo
a stento (68) unopera purtroppo dico
io abiurata da Fabrizio ma che forse nel suo essere una
cantata sinfonica delle tenebre meglio rappresenta questo zenit
oscuro proprio quando le tenebre sono fraterne come in Baudelaire.
Ricordiamo il cupore gotico di Inverno, la dolcezza crudele
e ingannevole de La leggenda di Natale, la nuda desolazione
del Cantico dei drogati scritta con Riccardo Mannerini,
poeta anarchico con un destino maledetto conclusosi con il suicidio
nel 1980. Il brano detto da Fabrizio Recitativo esprime
con estrema precisione questa commistione tra tormento esistenziale
e rivendicazione esterna proprio perché il testo affianca
agli strali anatemici contro giudici, banchieri boia, immagini
buie e tetre, dallultimo rantolo alla falce livellatrice
della morte.
Giudici eletti, uomini di legge
noi che danziam nei vostri sogni ancora
siamo lumano desolato gregge
di chi morì con il nodo alla gola.
Quanti innocenti allorrenda agonia
votaste decidendone la sorte
e quanto giusta pensate che sia
una sentenza che decreta morte?
(
)
Uomini, poiché allultimo minuto
non vi assalga il rimorso ormai tardivo
per non aver pietà giammai avuto
e non diventi rantolo il respiro:
sappiate che la morte vi sorveglia,
gioir nei prati o fra i muri di calce,
come crescere il gran guarda il villano
finché non sia maturo per la falce.
(da Tutti morimmo a stento)
Non solo nellimpronta poetica Fabrizio rivela questa
consanguineità ma anche nella sua breve attività
di saggista, di mâitre à penser.
Prendiamo la sua folgorante prefazione allopera in versi
di François Villon emblema eclatante del poeta
maudit dove per accorciare la distanza, al
di là del tempo, e affermare la sua fraternità
spontanea a questo autore gli scrive una lettera piena di gratitudine
e devozione ma con quella ravvicinata colloquialità in
uso fra amici di vecchia data o fra un discepolo che riconosce
nel maestro un compagno di strada. Una lettera imbucabile negli
interstizi dellatemporalità o attraverso la catapulta
delle affinità elettive, vera posta prioritaria che trova
la sua scorciatoia in vie misteriose che sboccano nei luoghi
inaccessibili dove si radunano i poeti in conclave anatemico,
in un sabba libertario. È come se i due Villon
e Fabrizio sincontrassero in una ideale taverna
dopo una rissa, tra un boccale di vino e sfrontate risa di allegre
puttane, per riprendere il filo di un discorso sospeso.
Ecco alcuni stralci di questo scritto: Caro François,
nel 1963 mi capitò di leggere su un quotidiano che in
Sudafrica le autorità celebravano senza saperlo il cinquecentesimo
anniversario della tua scomparsa: la corte di Johannesburg aveva
destinato allimpiccagione otto presunti malviventi, naturalmente
neri. Lestensore dellarticolo così descriveva
il disperato infantile esorcismo del loro terrore: Ballavano
e cantavano sotto le corde prima di essere appesi. Poi
si dilungava appena nel macabro dettaglio del subito dopo. Scalciarono
per un po, alcuni sono durati un attimo, altri qualche
minuto. Mi prese la rabbia giusta per scriverne una ballata.
Come ancora oggi si usa dire in Gallura Chistu tocca ponillo
in canzone, questo bisogna metterlo in canzone, dargli
una musica un metro una rima, perché non scompaia dalla
memoria collettiva. Se non avessi trovato in te un così
importante predecessore probabilmente la mia canzone non porterebbe
il titolo che tu mi hai suggerito: finalmente trovo loccasione
per ringraziarti.
Poco più avanti prende spunto dalla vita sofferta di
Villon: E allora quel Thibault dAussigny
sotto la cui mano tante pene hai subito e il cui smisurato potere
arriva ad insanguinare le vie di Parigi e che perciò
stesso tu rinneghi come tuo vescovo ricompare insieme
a una scelta schiera di potentissimi nemici dellumanità
in una pagina di Grozio: se il genere umano appartiene
ad un centinaio di uomini, è dubbio che questo centinaio
di uomini appartenga al genere umano.
Lucciole utopiche
In un altro punto del testo Fabrizio, introflettendosi, gli
riparla dalla propria trincea epocale: Io ti scrivo da
unaltra epoca illuminata di ragione e di tecnica, dove
luso della corda che fa sapere al tuo collo quanto
pesa il tuo culo si è fatto più raro e lontano
senza tuttavia scomparire del tutto. La stessa guerra, rinnovatasi
di cento anni in cento anni, non è ancora finita e gli
uomini amano come allora menare le armi e le mani e se non ci
sono più le caldaie per far bollire i falsari, gli strumenti
per dare la morte si sono perfezionati al punto che uno solo
di quei cento onnipotenti, un solo Thibault dAussigny
può decretare la fine dellumanità in un
tempo così breve quanto la pressione di un dito su un
pulsante. Una moderna forma dindagine che studia gli uomini
come masse di casi dividendo il risultato per il numero senza
distinguerne i diversi individuali destini, ci informa che oggi
siamo tutti molto più ricchi di quanto non lo fossero
i tuoi contemporanei, eppure le richieste daiuto da parte
dei poveri si fanno ogni giorno più disperate e impellenti
ottenendo esiti peggiori della tua Istanza a monsignore
di Borbone perché ti facesse un prestito
grazioso di sei scudi. Ancora oggi siamo capaci di forti
sentimenti ma più volentieri li trasformiamo in lacrime
seduti a teatro di fronte al dramma di Oreste o di Amleto e
ritornando a casa ad occhi asciutti non degniamo neppure di
uno sguardo la nostra vicina intenta a contare gli spaghetti
per sfamare i figli.
Certo, da Tutti morimmo a stento a oggi sono passati
degli anni e ancor di più dal primo Fabrizio dellamore
cieco o della vanità. Dai brani ombrosi alla solarità
mediterranea lasse di rotazione poetica ha compiuto il
suo girotondo portandoci per mano fino alletà matura
e proprio quando, a causa dellusura esistenziale, avevamo
perso il bagliore delle stelle, Fabrizio ce lo ha restituito
sotto forma di lucciole utopiche nella breve o lunga estate
della speranza. E tra anarchismo e maledettismo non so più
se uno abbia generato laltro ma le vie dellanarchia
sono infinite perché infinita è lanarchia.
Mauro Macario
Fabrizio
De André visto da Massimo Caroldi
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