Conclusa o meno che sia la fase acuta
della guerra preventiva, scatenata dallamministrazione
Bush contro lIraq, indicato come primo stato canaglia,
i nodi del dopoguerra sono subito venuti al pettine particolarmente
aggrovigliati.
Nellarea direttamente investita dal ciclone, le etnie
e le fazioni religiose che coesistevano nel territorio, unificato
in stato nazionale dalla Società delle Nazioni allinizio
del XX secolo, non hanno tardato a manifestare le loro reali
intenzioni, concordi soltanto su un punto: il ritiro pressoché
immediato delle forze armate americane e linstaurazione
di un governo autonomo in grado di decidere le sorti del paese,
liberato dalla presenza ingombrante di Saddam Hussein. Ma da
questo orecchio gli americani non sentono, e, tanto per far
capire come intendono procedere, nel governo militare provvisorio
hanno inserito un alto funzionario del Dipartimento di Stato.
La realtà è che gli Stati Uniti sono ben lontani
dallipotizzare un avvenire del tutto autonomo di uno stato
iracheno. Pensano infatti di creare quattro o cinque presidii
militari permanenti, localizzati nei punti strategici di snodo
delle vie del petrolio, così da essere in grado, non
soltanto di condizionare il modello di sviluppo del nuovo stato,
ma di controllare lerogazione delloro nero a quelle
nazioni che dal petrolio iracheno in varia misura dipendono.
In questo quadro il rientro in Iraq delle majors a stelle
e strisce, a fronteggiare le presenze francesi e russe con regolari
concessioni per lestrazione e la raffinazione del petrolio,
costituisce un passo decisivo per realizzare quel gigantesco
strumento di ricatto, soprattutto rivolto contro lEuropa,
che, a nostro giudizio, è un tassello decisivo nella
strategia imperiale dellAmerica di Bush.
Controllare il prezzo del petrolio
Naturalmente, una cosa sono le intenzioni e altra, ben diversa,
le possibilità concrete di realizzarle. Ma questo punto
del controllo del petrolio iracheno è irrinunciabile
nella strategia americana di dominio del mondo, sicché
non si fa fatica a ipotizzare che non si lascerà nulla
di intentato per venirne a capo, neppure la prosecuzione della
politica di minaccia militare nei riguardi di chi, comprendendo
appieno il disegno complessivo, dovesse opporvisi.
Ma perché questo tassello è decisivo nel ridisegnare
la geopolitica del mondo, soprattutto di quello industrializzato?
Per capire il problema in tutte le sue componenti, occorre porre
attenzione a un altro aspetto connesso al petrolio iracheno,
che è quello di poterne controllare il prezzo.
Il petrolio che si estrae in Iraq, oltre ad essere un greggio
a basso tenore di zolfo (il che ne facilita enormemente la raffinazione),
ha, con quello saudita, il minore costo di estrazione. Per avere
unidea delle proporzioni, basta considerare che il costo
di estrazione del petrolio iracheno è di un dollaro al
barile, a fronte dei 5/6 dollari del petrolio russo o messicano,
ai 10/12 dollari del petrolio del Mare del Nord, sino ai 20/22
dollari dei giacimenti del Texas e del Canada.
Controllare lerogazione e il prezzo del petrolio iracheno
significa così, non solo assicurarsi approvvigionamenti
e riserve a basso costo, ma avere un ruolo decisivo nel determinare
la politica energetica dellintera area, con la possibilità
di mettere in crisi concorrenti pericolosi, come lArabia
Saudita, che è attualmente la principale fonte di approvvigionamento
per lintero mondo industrializzato. Gestire al ribasso
il prezzo del petrolio iracheno, secondo il disegno americano,
avrebbe, nel medio periodo, leffetto di ridimensionare
lintera economia saudita, riducendone, conseguentemente,
il prestigio politico nellintero mondo arabo.
La partita vera e definitiva, però, si gioca sul versante
dellassetto giuridico da dare allintero comparto
nel futuro stato iracheno. E qui, le visioni dei vincitori sono
diverse, direi opposte. Per Tony Blair e una parte non insignificante
dellamministrazione Bush (le cosiddette colombe), si deve
tornare allistituzione di una Compagnia statale del petrolio,
dove siano rappresentate tutte le etnie del territorio, affiancata
attivamente dallOPEC, che sia la sede deputata a prendere
le decisioni strategiche, sia in materia di investimenti che
di gestione. Secondo i cosiddetti falchi, capitanati dal vice
presidente Cheney, che è lispiratore della politica
energetica di Bush, occorre privatizzare lintero settore,
affidando ai capitali privati (quali quelli, per esempio, della
Exxon Mobil, della Texano Chevron e dellonnipresente Hollburton)
il compito di regolare il mercato.
Se dovesse prevalere la prima ipotesi, sarebbe inevitabile il
ritorno in gioco di organismi quali lOPEC, che lamministrazione
Bush intende esplicitamente sabotare, e, direttamente o indirettamente,
lUnione Europea e lONU, istituzioni, pure queste,
non gradite dallattuale governo degli Stati Uniti.
Come si vede, anche sul futuro del petrolio iracheno il dilemma
è se a gestire il dopoguerra saranno gli organismi internazionali
attualmente esistenti, anche se fortemente delegittimati dalla
guerra preventiva attuata dagli anglo-americani in barba ad
ogni norma di diritto internazionale; oppure gli Stati Uniti
saranno riusciti a compiere il primo passo significativo verso
il dominio del mondo.
Altra vittima: lEuropa
Il dramma della guerra allIraq ha fatto unaltra
vittima, anche se tuttaltro che illustre: lEuropa.
Quali che siano stati gli schieramenti, a favore o contro lintervento
americano, a guerra finita, è difficile trovare uno stato
membro che, in un modo o in un altro, non ne sia uscito con
le ossa rotte.
Francia e Germania, che sono state le capo fila del fronte del
no, adesso si trovano a dover assumere un atteggiamento assai
prudente, e non soltanto perché sono in gioco consistenti
interessi, specialmente francesi, nellarea investita dal
conflitto, interessi che adesso è assai più difficile
tutelare, ma perché verosimilmente dovranno ricontrattare
con i vincitori il loro ruolo nel contesto internazionale. Dovranno
aggrapparsi allONU per non trovarsi del tutto isolate,
considerato che lUE è solo poco più che
unespressione linguistica ed è comunque destinata
ad essere penalizzata economicamente (ma non soltanto) da un
tradizionale alleato, lAmerica, che, in prospettiva, la
considera un concorrente naturale e pericoloso.
Né stanno meglio quelle nazioni europee che il conflitto
hanno appoggiato. È vero, lInghilterra siede al
tavolo dei vincitori, ma adesso misura in tutta la sua pericolosità
la visione geopolitica del mondo ridisegnata da Bush e dai suoi
collaboratori. In più Blair ha già cominciato
a pagare assai caro, in termini elettorali, lessersi schierato
acriticamente con Bush, contro il volere di gran parte dellopinione
pubblica del suo paese. Nelle ultime elezioni amministrative
di inizio maggio, i laburisti hanno perduto ottocento seggi
e oltre un milione di voti.
Di Italia e Spagna non vale neppure la pena di parlare. Anche
se Aznar ha conservato un minimo di dignità in più
del suo omologo Berlusconi, ambedue non sono andati al di là
della parte loro assegnata di servi sciocchi.
Le manovre che adesso si compiono vedono la diplomazia europea
impegnata soprattutto a ipotizzare forme di riarmo difensivo,
che possano mettere daccordo i membri di una corte dei
miracoli che, altrimenti, non avrebbero altri argomenti da trattare,
considerate le distanze che li separano e lo spirito particolaristico
che li anima.
Dal canto suo, lAmerica tenta di allargare le crepe e
fa leva sulle nazioni che costituiscono le nuove leve dellUnione
per inserire ulteriori motivi di tensione. Un segnale di questa
strategia è lenfatizzazione della partecipazione
della Polonia allimpresa irachena e i compiti di un certo
rilievo che al contingente polacco si intendono affidare nel
dopoguerra.
Ulteriore sconfitta della sinistra
In questo quadro già di per sé drammatico, occorre
registrare unulteriore sconfitta della sinistra o, almeno,
di ciò che di essa rimane nel nostro Continente.
Del laburismo di Blair abbiamo già accennato; della sinistra
italiana è superfluo parlare perché il suo sfacelo
è sotto gli occhi di tutti. In Germania, Schroeder era
alle prese con gravissimi problemi economici già molto
prima che il conflitto scoppiasse e, adesso che esso si è
concluso nel modo che sappiamo, è difficile ipotizzare
che le cose possano andar meglio, anche perché, in qualche
modo, lessersi schierato dalla parte perdente sul piano
militare, limita ulteriormente la già opaca visibilità
internazionale del cancelliere tedesco.
A nostro modo di vedere, questa sinistra, che non ha ancora
metabolizzato la perdita della bussola teorica costituita dal
marxismo, beccheggia paurosamente tra istanze vetero riformiste
di tipo socialdemocratico e velleità pararivoluzionarie
non sostenute né da analisi puntuali della realtà
attuale, né da progetti credibili di trasformazione della
società. Il risultato più evidente è che
non riesce neppure a capitalizzare le spinte che pure vengono
dalla base e qualche volta come nel caso dellopposizione
alla guerra allIraq sono assai consistenti e fortemente
motivate.
Questa defaillance determina un vuoto che ingigantisce
le possibilità di attuazione di una globalizzazione senza
regole che, a sua volta, favorisce i disegni imperiali degli
Stati Uniti e del capitalismo mondiale.
Nel giro di qualche mese, insomma, la situazione internazionale
è profondamente mutata ed ha subìto unimprovvisa
accelerazione il processo di generale omologazione ai modelli
di sviluppo imposti dal mondo dei ricchi al resto dellumanità.
Non occorre aggiungere, a questo punto, che, o il movimento
antagonista riuscirà a dare subito una risposta forte
e decisa, oppure la partita è perduta per chissà
quanto tempo.
Antonio Cardella
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