Nella penultima puntata di Un medico
in famiglia, come ricorderete, la protagonista femminile
giovane quella che, nel linguaggio delle vecchie distribuzioni
teatrali, si sarebbe definita «lingenua»
entra in salotto e trova la sua controparte maschile
il «primo amoroso», per restare a quella terminologia
tra le braccia di una bellona piuttosto discinta. Gli
spettatori sanno che il poveraccio, una volta tanto, è
del tutto innocente, perché è stata la donna
poco più di una comparsa, nella logica della vicenda
a buttarglisi addosso di sua iniziativa, ma lei, lingenua,
prima non cera e deve credere ai propri occhi: offesissima
da quello che ha tutta laria di un tradimento patente,
tanto più doloroso perché, dopo lunghe esitazioni,
si era «fidanzata» con il giovanotto solo nella
puntata precedente, gliene dice di ogni e gli intima di uscire
dalla sua vita. E ce ne vorrà di fatica, nellepisodio
finale, per rimettere le cose al loro posto, lasciando aperto
appena quel tanto di ambiguità necessario per continuare
la storia, se sarà il caso, nella prossima serie.
Lino
Banfi
Dieci milioni di spettatori
Che ci sarà una prossima serie, mi dicono, è
piuttosto probabile (salvi diktat Mediaset o capricci degli
attori), perché quella appena conclusa ha riscosso lapprezzamento
o, come si dice oggi, lo share di non meno
di nove dieci milioni di spettatori a puntata. Dieci milioni
di rispettabili cittadini (e quibus ego, non lo negherò,
sia pure in latino) che hanno seguito per mesi questa vicenda
di moderate crisi domestiche, buoni sentimenti e amori più
o meno appassionati sul piano ancillare, adolescenziale e senile,
senza lasciarsi distrarre dalla sua evidentissima improbabilità.
E quando dico improbabilità non mi riferisco al fatto
che non devono essere poi troppo diffusi, sul territorio nazionale,
siffatti gruppi familiari allargati, o le allegre ASL come quella
in cui presta la sua opera il protagonista: in fondo, perché
una data situazione possa assurgere a soggetto di una fiction
qualsiasi deve essere in sé un poco insolita, altrimenti,
con tutto il rispetto per il verismo, interesserebbe a ben pochi.
No, limprobabilità più notevole è
quella dei singoli avvenimenti, dei casi di cui, puntata per
puntata, si sostanzia la narrazione. Perché sappiamo
tutti che, nella vita normale, è rarissimo (e quindi
improbabile) che una bellona discinta ti si butti tra le braccia,
e quando capita ci vorrebbe un surplus di sfiga davvero eccessivo
per fare sopravvenire, proprio in quel momento, la tua fidanzata.
Anche se in questo mondo bislacco le coincidenze non vanno mai
escluse, è prassi normale quella di considerarle eventi
occasionali e improbabili, incapaci in ultima analisi
di modificare più che tanto lo svolgersi della
nostra esistenza. Le incomprensioni, visto limperfetto
sistema di comunicazione di cui ci serviamo, sono sempre possibili,
ma in genere ci si capisce abbastanza. Sappiamo tutti che, il
più delle volte, la frase «Scusa, non ti avevo
capito» è, appunto, solo una scusa.
Eppure, equivoci, coincidenze e fraintendimenti vari sono alla
base dello spettacolo di intrattenimento da tantissimo tempo.
Gli autori del Medico in famiglia, da questo punto di
vista, non hanno inventato niente. Si sono solo ricollegati
a una tradizione teatrale e parateatrale che risale, attraverso
la commedia brillante (cinema incluso), il teatro boulevardier,
lopera buffa, la commedia dellarte, le sue fonti
rinascimentali, e su, su, la palliata, latellana e via
andare, a quella «commedia attica nuova» di Menandro
e soci, che ha preso forma, se ricordo qualcosa dei miei studi
classici, attorno al quarto secolo avanti Cristo. Fu allora,
più o meno, che si cominciò a cercare di intrattenere
il pubblico pagante con una raffigurazione stilizzata della
vita di tutti i giorni, in cui certe occorrenze casuali venivano
enfatizzate anche al di là del verosimile e i personaggi
tendevano a fissarsi poco per volta secondo tipologie fisse.
Lidea era, in un certo senso paradossale, perché
mescolava le dimensioni del prevedibile e dellinconsueto,
ma ha avuto un successo storico straordinario. Cè
voluto parecchio, naturalmente, per arrivare ai nostri telefilm,
ma il percorso, in sé, è abbastanza chiaro. Si
sono persi per via i personaggi meno confacevoli ai tempi (come
il lenone malvagio e la ruffiana compiacente, che allinizio
andavano così forte), si sono adattati usi e costumi,
cercando, magari con qualche ritardo, di tenere il passo dellevoluzione
del quadro valori, ma la struttura narrativa di quei prodotti
si è rivelata ben salda nei secoli. La Maria della serie
televisiva da cui siamo partiti, così, si sforza in tutta
evidenza di essere una ventenne dei giorni nostri (o, meglio,
quello che le autorità competenti pensano debba essere
oggi una ventenne in quello che è il problema base del
personaggio, come a dire la disponibilità di sé
nel rapporto amoroso), ma non ci riesce fino in fondo perché
nelle sue vene scorre il sangue di tutte le Mirandoline, le
Isabelle, le Clizie, le Glicere, che lhanno preceduta.
Nessuno la chiama più così, ma è (e resta)
una «ingenua», non nel senso che sia del tutto priva
di malizia, ma perché a quelle improbabili reazioni e
a quellimprobabile modo di relazionarsi col mondo il suo
personaggio non può sottrarsi. E lo stesso vale, naturalmente,
per gli altri.
Prepotenti smargiassi e presuntuosi saccenti
Bene. Tutto questo potrà essere più o meno vero,
ma non sembra possa o debba interessare ad altri che i cultori
di storia delle forme teatrali. Eppure
eppure potrebbe
valere la pena di interrogarsi su quanto limprobabile
riesca a entrare nella nostra vita di tutti i giorni. Sarà
perché la vita ha lirrefrenabile tendenza a imitare
larte, o perché ai modelli di plausibilità
offertici da una tradizione così lunga e così
radicata non riusciamo, nostro malgrado, a sottrarci (che è,
poi, come dire la stessa cosa), ma capita sempre più
spesso di avere a che fare, nella «realtà»,
o in quello che diamo per tale, con figure e situazioni che
sembrano usciti da una commedia o da un telefilm. Di ingenue,
forse, non se ne troveranno più in giro tante, ma di
prepotenti smargiassi, servi intriganti, poveri ingenui gabbati
e presuntuosi saccenti, per citare soltanto quattro delle tipologie
più amate e sfruttate in ventiquattro secoli di mimesi
comica, non si sente certo la mancanza.
Cè di più. Menandro e i suoi seguaci, si
sa, limitavamo le proprie trame ai casi della vita domestica
e familiare: escludevano per programma le allusioni alle grandi
vicende pubbliche, quelle che, in altra fase storica, avevano
nutrito la comicità politica di un Aristofane. Noi siamo
più evoluti: abbiamo riportato la commedia nellambito
pubblico e non ci stupiamo se i politici agiscono come protagonisti
di una commedia. Prendiamo pure, per non perdere inutilmente
tempo con i minori, lesempio più insigne: non è,
il presidente Berlusconi, un personaggio perfetto da telefilm?
Lo è, oltre che per la familiarità con il mezzo
(nel senso di medium) e gli atteggiamenti caricati che
esibisce, per la tipicità stessa delle sue reazioni,
per quel mix di improbabilità e di plausibilità
che, come tutti i grandi tipi comici (in senso tecnico, Presidente:
niente di personale) si porta con sé.
Loscurità del concetto è solo apparente.
È un fatto che spesso, di fronte a figure del genere,
viene da pensare che siano veramente troppo improbabili, che
non ci sia posto per loro nel mondo reale. E pure, una volta
ammessane lesistenza, si capisce che non potrebbero reagire
altrimenti di come reagiscono.
Questo significa, naturalmente, che figure del genere sono al
di là di ogni possibile cambiamento ed evoluzione. Come
il capitan Matamoros non potrà mai smettere i panni del
miles gloriosus o Arlecchino non potrà mai dismettere
la sua casacca multicolore, Berlusconi, in sostanza, non può
esistere che come se stesso: è irrigidito nella tipicità
delle grandi maschere, dei grandi personaggi di fiction.
Soltanto così può dare credibilità alla
trama, anchessa affatto improbabile, della sua carriera
politica, alla storia del grande imprenditore che giunto, a
forza di impegno e di duro lavoro, ai vertici del settore, rinuncia
a tutto e «scende in campo», con grave sacrificio
personale, per salvare il paese da una minaccia incombente.
Ammetterete anche voi che di fronte a ipotesi narrative del
genere, le improbabilità delle vicende della famiglia
del Medico in famiglia, con ASL annessa, tendono a vanificarsi
e che quella saga ci appare come un colosso di realismo sociale.
Non si scappa: la vita, quella politica inclusa, imita proprio
larte.
Solo che in televisione, naturalmente, cè il lieto
fine.
Carlo Oliva
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