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Rivista Anarchica Online


politica

Il cortocircuito della paranoia

di Daniela Mallardi

Già nel 2013 il World Economic Forum riconosceva la diffusione di false notizie tra i fattori di maggior rischio nello scenario degli attuali sistemi di governance. Qual è l'esito se il discorso politico si alimenta di verità mistificate? E che risvolto psicosociale si mette in moto quando il linguaggio del potere insidia il sospetto costante di complotti e nemici?


Nel quotidiano siamo frequentemente attraversati da un pensiero collettivo che prescinde del tutto o in parte dalla conformità con il reale: i criteri della plausibilità si sgretolano e si leggono cospirazioni e macchinazioni ovunque. Al di là delle singole posizioni di aderenza e di scelta di opinione, risulta interessante attestare quanto la dimensione della paranoia sia diventata una chiave di comprensione utile per la valutazione del presente.
C'è subito da dire che la paranoia non è tanto una negazione della realtà quanto piuttosto una sua interferenza. Hillman, psicoanalista junghiano statunitense, parlava di disturbo del significato, come a intendere che, pur preservando un funzionamento logico coerente, la paranoia opera una rettificazione del dato reale e non contempla il dubbio.
Tutto è certo nella paranoia e lo è perché la sua funzione principale è proprio quella di difendersi dalle incertezze e dalle insicurezze. Ma quando è il discorso pubblico a cadere nella sistematizzazione paranoidea, cosa avviene? Più o meno qualcosa che riguarda la condizione che sta attraversando l'Italia nell'iperbole dell'ultimo governo in cui le immagini di giustizia, prudenza e senso comunitario sembrano non potere essere più accolte. Come mai la politica è sempre più caratterizzata dalla deriva e dalla polarizzazione complottista?
Le teorie dell'unico nemico, quello da debellare e da cui difendersi, rappresentano una sorta di produzione rigida di senso che si attiva quando il sistema sociale si trova ad essere impoverito. In altre parole, se il sistema cessa di accrescere la propria complessità interna, in termini di evoluzione e differenziazione culturale, si espone al collasso e cede spazio ad automatismi di semplificazione politica con pericolose esondazioni di responsabilità. Già Durkheim, circa un secolo fa, sottolineava come, quando la società soffre, si senta il bisogno di trovare qualcuno su cui vendicare le proprie delusioni. Le cosiddette “teorie dell'intrigo” attribuiscono la causa del dissidio ad una congiura, addossando a un gruppo “altro” l'onere del disagio: la colpa è degli altri sempre e comunque e tale convinzione è così rigida da avvicinarsi alla terminologia della psichiatria classica di forma di follia lucida, folie raisonnante, una follia cioè che di lucido conserva la sua articolazione tagliando, tuttavia, fuori qualsiasi tipo di aggancio morale.

Saldatura tra paranoia e potere

In Italia (in modo non distante dagli Stati Uniti seppur non uguale) si è inasprito un clima trasversale sovraccarico di emozioni e di mancanza di strumenti formativi ed intellettuali che se da un lato strappa le maglie, già allentate, della violenza e dell'intolleranza, dall'altro amplifica l'intercedere di leadership carismatiche e vuote che sembrano rappresentare la soluzione di problemi da cui si vuol uscire. Quando il politico parla, per via di un “contagio” che si nutre della suggestione, il suo discorso produce un'eco notevole nella massa che ne autorizza la funzione.
Elias Canetti, nel celebre testo Massa e potere, svela l'insidia della saldatura tra paranoia e potere: il paranoico, convincente e politicamente carismatico, può essere capace di sollevare la paranoia di massa soprattutto se il momento storico che si vive è di eclissi della ragione critica e della consapevolezza civica. Dato che la violenza è mimetica, l'aggressività del singolo può così divenire l'aggressività del collettivo e allora l'odio paranoico verso un elemento esterno – un totem simbolico – potrebbe rappresentare una garanzia di autoconservazione di una società massacrata economicamente e giuridicamente.

Il piano Kalergi, per esempio

Con l'avvento di Lega e M5S, lo stile paranoico si è così sdoganato, senza possibilità di ritorno anche per via dell'esponenziale utilizzo delle tecnologie digitali di comunicazione che distorcono infallibilmente la politica e il suo rapporto con la democrazia. Se i social media danno l'illusione alla cittadinanza di sentirsi più vicina al politico di turno e a quest'ultimo di essere più accattivante per il proprio elettorato a colpi di selfie e post, tutto questo sovverte l'etica della censura e dunque cede terreno a dibattiti ampiamente anticulturali e spettralmente paranoidei. A sostegno del cortocircuito dell'attuale governo, si riportano un paio di esempi abbastanza significativi.
Nel febbraio 2014, il ministro della salute Grillo controfirma la proposta di legge n. 2077 (“Norme sull'informazione e sull'eventuale diniego dell'uso dei vaccini per il personale della pubblica amministrazione”) in cui in un passaggio si legge: «recenti studi hanno messo in luce collegamenti tra le vaccinazioni e alcune malattie specifiche come l'autismo». Colpisce come non compaia, neppure nell'appendice della proposta in questione, una letteratura bibliografica che ne argomenti l'assunto. È probabile forse che Grillo, con i suoi colleghi, faccia riferimento alla pubblicazione scientifica fraudolenta del 1998 ad opera di Wakefield, medico britannico (ora radiato) in cui costui sosteneva la correlazione tra il vaccino trivalente MPR (morbillo, parotite, rosolia) e la comparsa di autismo, correlazione peraltro negata con forza dalla stessa Organizzazione Mondiale della Sanità e smentita in Italia dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 19699 del 2018.
Nella medesima direzione di acriticità, si colloca inoltre l'affermazione, pronunciata dall'attuale vicepresidente del Consiglio e ministro dell'interno Matteo Salvini, nel gennaio 2015 a Radio Padania, in cui viene precisato che con i migranti sia in corso “un'operazione di sostituzione etnica coordinata dall'Europa”, con la conseguenza che, attraverso l'incarico del proprio mandato, si elevi ad argomento politico il cosiddetto “Piano Kalergi” (già peraltro diffuso da Casapound e Forza Nuova).
La credenza avanzata da Salvini è che esista un piano, chiamato giustappunto piano Kalergi in nome del filosofo austriaco paneuropeista cui ne viene attribuita la paternità, che incentivi l'immigrazione africana e asiatica verso l'Europa al fine di rimpiazzarne le popolazioni. Non è difficile rintracciare sotto la copertura della “sostituzione di popoli”, la portata paranoica di fondo di una minaccia etnica il cui rischio sarebbe la sopravvivenza di quello che si afferma essere il profilo dell'Europa bianca, una concezione nemmeno troppo velatamente razzista.
Stupisce quanto questi enunciati di Grillo e di Salvini sconfinino entrambi nel fanatismo, nella presunzione di cattiva fede delle “fonti ordinarie” e nella convinzione granitica che la loro attendibilità sia necessariamente nascosta da qualche parte e da qualcuno non chiaramente identificabile, con l'esibizione dell'indifferenza a discapito dello scambio. Se partiamo dal concetto di politica definito dal filosofo francese Gauchet come “luogo in cui il soggetto fa, nel dolore, l'esperienza che la verità non è una o che la verità non esiste o che la verità è divisa” si può intuire nel vertice della paranoia politica una copertura alla paura delle diverse possibilità, dei diversi saperi e dei diversi linguaggi. Nella complessità del contemporaneo, il sintomo politico di un unico orizzonte diventa deleterio anche dal punto di vista linguistico: si può parlare di anti-dialettica se nel linguaggio la colpa è sempre attribuita all'Altro.
Ci può aiutare, a tal proposito, far riferimento al meccanismo del “capro espiatorio” per il quale, nei gruppi sociali, in mancanza di comprensione dei fenomeni, per trovare una spiegazione, si ricorre al rito della vittima, esorcizzando su di essa tutto il male, con un effetto di sollievo benefico (temporaneo). Va da sé che tale azione sia agita da un modello di riduzionismo e minimizzazione. La paranoia, difatti, non tollera l'indecidibile e quindi attacca difensivamente tutto ciò che non è definito, vago, ambiguo. Infatti, il tipico programma paranoico nella politica è come se volesse compensare l'eccessiva tolleranza di liberalizzazione delle ideologie e della distribuzione di equità e di giustizia nel rilancio di un'attitudine regressiva e primitiva dove l'Altro viene escluso aprioristicamente. Si pensi, a tal proposito, alle mire del suddetto Salvini a ricercare coattamente un nemico da contestare e su cui problematizzare. Basti ricordare, in quest'estate, l'indecoroso braccio di ferro con l'Europa e la negazione di sbarco della nave Aquarius della Ong Sos Mediterranée e della nave Diciotti della Guardia Costeria costringendo a far restare in mare aperto centinaia di migranti sfiniti; oppure, si faccia ritorno alle dichiarazioni lanciate dallo stesso Salvini circa i pazienti psichiatrici che – stando al suo dire – perpetuerebbero reati con una frequenza nettamente maggiore rispetto alla “popolazione normale”, constatazione che ha visto la replica immediata dalla Società Italiana di Psichiatria che ha evidenziato non solo la mendacità ma anche la pericolosità di simili parole poiché tese ad alimentare e rafforzare il pregiudizio collettivo sulla sofferenza psichica; ed infine, si faccia presente di come il Ministro dell'Interno abbia sollevato un polverone con la sua proposta di censimento su base etnica dei rom in Italia, contraria all'articolo 3 della Costituzione Italiana, all'articolo 9 del Regolamento Europeo sui dati personali (Gdpr) e agli articoli 8 e 15 della Convenzione Europea dei Diritti Umani.
Ma allora viene da chiedersi: se non è la dirigenza politica del Paese nel suo complesso ad allargare le basi della fiducia e dell'intelligenza sociale, a favorire l'aumento e la redistribuzione del capitale culturale, chi può farlo? In che modo ci si può mettere al riparo dalle derive totalizzanti (e totalitarie) del sospetto?

Ribaltare il criterio della certezza paranoica

Occorre avere chiaro che, a livello politico, la denuncia di colpa spalmata proiettivamente sull'Altro produce una certa instabilità perché i criteri della società sono implicitamente liquidi, mobili e inclusivi; le fratture di quest'instabilità si rivelano, ad esempio, negli scoppi improvvisi, purtroppo in crescita, di aggressioni ai danni di stranieri in Italia (da febbraio ad agosto dell'anno corrente, sono stati registrati diciotto casi, avvenuti dal Nord al Sud in modo indifferenziato).
Le esplosioni razziste sono la spia di gesti volti a saturare l'angoscia paranoica che, nella sua dissoluzione, passa subito all'atto senza mediazione simbolica e della parola, soddisfacendo quella che in termini psicoanalitici si chiama pulsione di morte, quella spinta pulsionale, tutt'altro che vitale. Quando i confini saltano significa che le traiettorie della legge non sono più riconosciute e questo può far sì che la paranoia possa trovare il proprio risvolto psicotico: sparare a una bimba rom per strada come è accaduto a Roma il luglio scorso, picchiare pesantemente persone non italiane, offre una soddisfazione immediata ma depersonalizza in modo buio la solidarietà del legame sociale. Cosa resta dopo questi gesti se non uno schiacciamento brutale sulla violenza?
Alla società repressiva, che si declina in atti di brutalità e di coercizione bisognerebbe contrapporre per quanto possibile una riscoperta del gioco quale forma mobile e contrattabile dell'interazione politica. Per Marcuse è proprio il gioco ad essere l'unico atto di libertà a rimettere in asse col desiderio. È, cioè, solo nella trama delle interazioni tra soggetti che il gioco può collocarsi sovvertendo i parametri dell'obbedienza e dell'adesione al potere, allargando la visione e l'ascolto verso l'Altro, superandone ogni diffidenza.
Ipotizzare come fare, in uno scenario come quello tracciato, rimane strenuamente l'unica vera sfida di pensiero che possa ribaltare il criterio della certezza paranoica nella traduzione intricata della sua domanda.

Daniela Mallardi