Rivista Anarchica Online


solidarietà

Un rifugio possibile
Intervista di Laura Di Martino a Italo Siena

 

Attuale responsabile del centro Naga-Har per Richiedenti asilo-Rifugiati-Vittime della tortura, Italo Siena è una delle figure più significative della solidarietà agli extracomunitari e ai nomadi a Milano. Fin dal 1987, quando il Naga…

Da quando esiste Naga-Har ?

Il centro Naga-Har per Richiedenti asilo-Rifugiati-Vittime della tortura è nato ufficialmente nel febbraio 2001.

Che tipo di servizio svolge il Naga-Har per i richiedenti asilo?

Una funzione importante dell’Har è la consulenza legale ai rifugiati e ai richiedenti asilo, la redazione della documentazione medica per la certificazione delle torture subite, che servirà loro quando si presenteranno alla Commissione di Roma. Comunque l’obiettivo principale del nostro centro è la realizzazione di un luogo dove stare, un posto fisico dal quale ripartire e incontrare altre persone. Se tieni conto anche che molti rifugiati non hanno casa o alloggiano presso dormitori nei quali di giorno non si può sostare, qui possono almeno stare al caldo e in compagnia, bere un caffè, fare due chiacchiere, navigare in internet... durante la bella stagione organizziamo tornei di calcio, gite fuori porta, qualche festa. Abbiamo optato per un approccio assolutamente non medicalizzante, non viene fatta fisioterapia né psicoterapia, abbiamo voluto realizzare un centro che da un lato costituisse un tessuto, un luogo fisico di appoggio e di incontro e dall’altro si facesse carico di una funzione di denuncia; questo perché se ti occupi solo del versante medico finisci per studiare “il caso”.

Che differenza c’è fra un rifugiato ed un richiedente asilo?

Il rifugiato è una persona che “per un fondato timore di persecuzione, per motivi di razza, religione, cittadinanza appartenenza ad un determinato gruppo sociale, od opinione politica si trova fuori del paese in cui ha la cittadinanza e non può oppure, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale paese”.
Un richiedente asilo è la persona che fa richiesta per ottenere lo status di rifugiato e che deve sottostare a tutta una serie di pratiche.
La maggioranza dei richiedenti asilo che vengono da noi al Naga-Har hanno subito torture.

Avevate già avuto esperienze con i rifugiati?

Dal 1987 come Naga. Bisogna ricordare che in quegli anni l’Italia era priva di una legge organica sui rifugiati e richiedenti asilo, quindi non riconosceva ancora lo status di rifugiato. Nel 1989 con la legge Martelli l’Italia diventa un paese in cui è possibile presentare richiesta d’asilo. Le persone che abbiamo incontrato a partire dal 1987 in genere erano di passaggio, la loro meta erano altri stati dove richiedere asilo.

Questo corrisponde all’immagine consueta dell’Italia come paese interessato solo dal transito dei migranti verso altri paesi...

Alla luce della nostra esperienza oggi possiamo dire che l’Italia era un paese di passaggio. Ad esempio se prendiamo in considerazione i dati italiani e quelli tedeschi notiamo un’enorme disparità, nonostante negli anni le richieste d’asilo siano aumentate anche in Italia. Il motivo di questa differenza dipende soprattutto dalle sanatorie che si sono avute nel nostro paese: di fronte alla possibilità di scegliere fra la possibilità di diventare immigrato grazie alla sanatoria a casa o la richiesta d’asilo, il potenziale rifugiato tendeva ad utilizzare la prima e non la seconda. Questo per una serie di motivi: innanzitutto per la possibilità di rientro nel proprio paese, infatti se viene riconosciuto lo status di rifugiato è impossibile fare ritorno nel paese d’origine, mentre con il permesso di soggiorno per lavoro questo è sempre fattibile.
La situazione italiana comincia ad allinearsi a quella europea solo a partire dal 1999 quando non vengono più riconosciute possibilità di sanatoria, per cui chi intende chiedere asilo deve riferirsi alla procedura apposita, così accade qualcosa di insolito: mentre i dati europei cominciano ad assestarsi su livelli costanti, quelli italiani cominciano a crescere.
A questo proposito i dati italiani sono estremamente allarmanti, prendiamo ad esempio l’anno 1999: su 33.000 domande di richiesta d’asilo, ne vengono esaminate 8.000, quindi abbiamo perso 25.000 persone. Tra quelle esaminate 800 sono state accolte.

Una volta inoltrata la richiesta di asilo politico cosa accade?

Dopo la presentazione della domanda il richiedente asilo verrà invitato a presentarsi nuovamente in questura con la documentazione relativa alla propria storia (che deve quindi essere raccontata e redatta per essere presentata), nel frattempo otterrà un permesso di soggiorno temporaneo (quindi entra nell’alveo della legalità) valido fino al riconoscimento dello status di rifugiato. Dopodiché passano parecchi mesi fino al momento in cui il richiedente asilo non viene convocato a Roma, presso la commissione incaricata di riconoscere e concedere lo status di rifugiato. Durante tutto questo percorso non viene riconosciuta alcuna tutela, se non quella sanitaria, che siamo riusciti ad inserire nella legge attuale; altri diritti non sono riconosciuti, se non una minima somma di denaro per 45 giorni, il richiedente asilo non può nemmeno lavorare.


Può capitare che...

Da chi è costituita la commissione esaminatrice?

È composta da un responsabile del ministero degli esteri, uno del ministero degli interni, un responsabile del consiglio dei ministri, come consulente c’è anche un responsabile dell’ACNHUR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati). Una volta ascoltata la storia del rifugiato la commissione ha tre possibilità: il conferimento di un permesso umanitario, che si differenzia dallo status di rifugiato in quanto temporaneo, il riconoscimento dello status di rifugiato, oppure il rigetto della domanda, in quest’ultimo caso si aprono altre due possibilità, l’espulsione o la possibilità di fare ricorso.
Nel caso invece in cui sia riconosciuto lo status di rifugiato vengono riconosciuti anche una serie di diritti: innanzitutto il permesso di soggiorno illimitato, l’accesso all’assistenza sanitaria, la richiesta di ricongiungimento familiare, la possibilità di richiedere contributi economici, la possibilità di lavorare.
Il permesso umanitario è temporaneo e legato al persistere delle condizioni che hanno costretto il richiedente asilo alla fuga, ad esempio la guerra, nel momento in cui una guerra finisce, il permesso scade e segue l’espulsione; in quest’ultimo caso non si tiene conto del fatto che chi rientra nel proprio paese non troverà nulla.
Entro il 31/12/2002 l’istituto del permesso umanitario verrà unificato in tutta Europa, in modo da uniformare i criteri dei vari paesi, sia nel conferimento che nel riconoscimento di diritti che questo istituto comporta; mentre per quanto riguarda il riconoscimento dello status di rifugiato permane una grande disparità tra i vari paesi europei.

Come opera la commissione ministeriale che supervisiona le domande dei richiedenti asilo?

I dati in nostro possesso per l’Italia sono riferiti al 2000 (del 2001 abbiamo solo il numero delle domande: 9.000).
Nel 2000 su 24.000 domande inoltrate, 22.000 sono state respinte e solo 2.000 sono state riconosciute. Se guardiamo la situazione dei richiedenti asilo suddivisi per paese di provenienza la situazione appare ancora più drammatica: delle 12.000 domande provenienti dalla ex Yugoslavia, solo 500 sono state riconosciute; delle 3.200 provenienti dalla Turchia (e sono in prevalenza curdi), solo 200 sono state accettate. La media è comunque in linea con quella europea, attorno al 5-6% di domande accettate.
Di solito la commissione spiega caso per caso i motivi del respingimento della domanda, le motivazioni più ricorrenti sono la non veridicità della testimonianza riportata o la non sussistenza di fondati motivi per la concessione dell’asilo politico; soprattutto in quest’ultimo caso si pensa che per il richiedente asilo sia sufficiente cambiare città per sottrarsi alla persecuzione.
È naturalmente un discorso molto restrittivo, anche perché non tiene conto della situazione politica generale di una nazione, ma si pensa solo alla dimensione locale.

Per chiarire... cosa succede alla frontiera quando giungono dei potenziali richiedenti asilo?

Ad esempio moltissimi sono curdi, una volta arrivati alla frontiera fanno richiesta d’asilo ma non si fermano in Italia perché desiderano spostarsi in Germania o in altri paesi.
In ogni caso alla frontiera la domanda per richiesta d’asilo può essere accettata o respinta immediatamente sul posto dalla questura, naturalmente in questa fase sorgono tantissimi problemi; può capitare che un poliziotto non abbia la minima intenzione di accettare in frontiera i migranti e respinga immediatamente queste persone che non sanno nemmeno di poter accedere alla domanda per richiesta d’asilo. Analogamente le associazioni che si trovano a lavorare con i richiedenti asilo, i rifugiati o i migranti in generale non possono intervenire perché sono all’oscuro di tutto, come fanno le associazioni a sapere... che so... che all’aeroporto di Malpensa la polizia nel giorno x ha respinto un certo numero di immigrati senza permettere loro di inoltrare la domanda di asilo?
Possiamo venire a saperlo se ci sono una serie di condizioni: innanzitutto i migranti devono sapere di avere diritto all’inoltro della domanda di richiesta d’asilo, in secondo luogo, se la domanda viene respinta o non viene nemmeno presa in considerazione, i migranti devono avere già un contatto in Italia cui affidarsi per segnalare questo fatto, però per farlo devono parlare l’italiano... è ovvio che queste caratteristiche si verificano solo in un numero ristrettissimo di persone.
Per questo è importante che alle frontiere ci siano delle associazioni o delle istituzioni che forniscano supporto o valutino adeguatamente il diritto e i requisiti di queste persone per accedere alla richiesta di domanda d’asilo.

In genere come si comporta un potenziale richiedente asilo quando arriva in Italia? Chiede aiuto alla comunità di appartenenza? A chi si rivolge?

Qui bisogna fare una serie di distinzioni fondamentali tra migranti e rifugiati. Innanzitutto il rifugiato non ha un progetto migratorio che vada oltre la mera necessità di salvarsi. Ad esempio il primo rifugiato di cui ci occupammo nel 1987 era scappato precipitosamente da casa di notte senza avvisare la moglie (cosa che poi gli è costata la separazione), l’intenzione di fuggire già stava prendendo forma ma questa persona ha saputo nel pomeriggio che i suoi persecutori lo stavano cercando ed è scappato la notte stessa. Chiaramente la situazione del migrante è diversa, innanzitutto perché c’è la pianificazione del viaggio, della data dello stesso, dei mezzi, c’è la scelta del paese in cui trasferirsi.


Situazioni paradossali

A proposito delle differenze tra immigrati e rifugiati, di solito per i primi il progetto migratorio è legato ad una prospettiva di miglioramento delle condizioni di vita, possiamo dire lo stesso per il caso dei rifugiati?

In questo caso la differenza tra immigrato e rifugiato è rilevante: tra i rifugiati il tasso di scolarizzazione è altissimo, sono quasi sempre persone che nel paese di origine avevano una posizione e che da un giorno all’altro hanno perso tutto. Da professore universitario, come è accaduto per un richiedente asilo del quale ci siamo occupati, ci si ritrova a fare il barbone in Italia. Chiaramente gli ostacoli e le difficoltà che questa persone incontrerà saranno diversi da quelli dell’immigrato che parte con l’intenzione di migliorare le proprie condizioni di vita e magari nei primi tempi è disposto a rimboccarsi le maniche svolgendo lavori faticosi e mal pagati. Nel caso di un professore universitario, ad esempio, la situazione è più difficile: non solo deve cominciare tutto da capo, ma parte da una condizione alla quale non è abituato e che per lui è del tutto inattesa, se aggiungi a tutto questo che è stato torturato... la depressione è inevitabile e accompagna tutto il suo percorso fin dai primi giorni. Sembrerebbe paradossale ma la depressione aumenta proprio nel momento in cui viene riconosciuto lo status di rifugiato, quando l’obiettivo è stato raggiunto si assiste ad un crollo totale; nella fase che precede il riconoscimento oltre alla depressione vi è uno stato di tensione, di angoscia... ma quando viene sancito lo status di rifugiato politico l’individuo crolla perché una fase della sua vita si è conclusa, è come se un cancello si chiudesse alle sue spalle definitivamente, aprendo una nuova fase di incertezza: cosa faccio adesso?

Nel caso del migrante un ruolo molto importante lo gioca anche la comunità di appartenenza, che spesso fornisce appoggio nei primi giorni, si occupa di trovare un lavoro o un alloggio...

L’immigrato può far riferimento alla catena migratoria non solo nei primi periodi ma anche in seguito perché mantiene un legame molto forte con i suoi connazionali in Italia (basti pensare alla comunità senegalese o marocchina) dovuto al fatto che alcuni nuclei consistenti di migranti provengono dalla stessa regione o dallo stesso paese. Per il rifugiato la situazione è completamente differente, non può fare affidamento su nessuno, anzi i connazionali rappresentano spesso per lui un elemento di rischio e di pericolo, spesso non appartengono alla sua stessa parte politica, potrebbero denunciarlo o segnalarlo. Queste persone sono dunque isolate e per noi è anche difficile individuarle.
Nascono anche delle situazioni paradossali come quella di un rifugiato che è riuscito a scappare dal proprio paese con il passaporto di un suo amico e, una volta arrivato in Italia, è stato registrato con l’identità del proprietario del documento. Dopo aver rispedito il passaporto all’amico, ha inoltrato le pratiche per ottenere lo status di rifugiato e tutta la faccenda è saltata fuori, con le inevitabili complicazioni burocratiche in questura. È chiaro che tutto questo ha generato una situazione di stress spropositata, alla quale si aggiunge anche il terrore di veder invalidata tutta la procedura per l’ottenimento dello status di rifugiato.
Questo è solo un esempio di cosa accade a queste persone che non solo si trovano isolate, ma a causa delle esperienze che hanno vissuto basano tutti i propri rapporti sulla diffidenza e sulla paura, paura di dire la verità di avvicinare i connazionali.
I rifugiati si differenziano dagli immigrati per molti aspetti: l’impossibilità di fare ritorno in patria una volta riconosciuto lo status di rifugiato, nella difficoltà ad avere contatti con parenti ed amici (per evitare di metterli in pericolo) con le immaginabili angosce e sofferenze che da questo derivano; l’obbligatorietà della partenza che non può essere pianificata con la famiglia o con gli amici che forniscono aiuto e appoggio, ma che è improvvisa, traumatica e sancisce la fine della vita precedente aprendo un periodo di incertezza.
Anche il corpo reca i segni di questa differenziazione: quello dell’immigrato è sano, giovane e produttivo, quello del rifugiato è “passivo”, reca i segni delle torture che costituiscono un ricordo costante della violenza subita, è un corpo trascinato via a forza, strappato dalla comunità e dagli affetti.


Finora, 220 persone

La militanza di un rifugiato in un partito politico può modificare questa situazione e come?

Facciamo ancora l’esempio dei curdi, da noi arrivano molti del PKK, quindi politicizzati e con una lunga storia di militanza alle spalle, però arrivano anche molti curdi che non hanno mai militato in un partito politico e sono comunque stati arrestati, torturati, derubati, ecc., secondo una strategia che non mira solo ad arrestare i capi dei movimenti politici, ma a sgretolare il tessuto delle comunità curde, attraverso un senso diffuso di paura e insicurezza. Queste persone “non politiche” sono prevalentemente pastori e analfabeti, vengono periodicamente arrestate e torturate a caso, derubate di tutto o perseguitate psicologicamente al punto da essere costrette ad andarsene. Una volta giunti in Italia, difficilmente riescono ad avere l’appoggio del proprio gruppo etnico perché il PKK tende a dare la precedenza a quelli che ritiene essere i veri combattenti, i militanti. Certo non accade sempre così, molti militanti del PKK riescono ad avere la sensibilità necessaria per capire che si sta cercando di colpire un popolo intero ed è quindi importante non ripetere all’estero quella frammentazione e quella disgregazione che si è realizzata in patria.

Che tipo di relazione o comportamento consigliate di assumere ad un operatore dell’Har di fronte a queste persone? Sicuramente le condizioni variano da un individuo all’altro, ma ci sono delle “regole generali” da tener presente?

Da quando è stato aperto il centro (febbraio 2001) ad oggi abbiamo seguito 220 persone. Da questo punto di vista anche le nostre competenze devono essere affinate, soprattutto per quanto riguarda la documentazione medica dei casi di tortura, per questo motivo ci documentiamo continuamente, procediamo con auto supervisioni e siamo in collegamento con altri centri europei.
Va sottolineato che il rapporto tra operatore e rifugiato è estremamente delicato fin dall’inizio, dal momento della raccolta della testimonianza: da una parte i richiedenti asilo manifestano la voglia di raccontare la propria esperienza, dall’altra questo significa voltarsi indietro e vedere tutto quello che ci si è lasciati alle spalle, con il conseguente carico di nostalgia, angoscia, depressione.
Ad esempio nel momento della raccolta della testimonianza emerge spesso la “vergogna del torturato” se partiamo dalla considerazione elementare che la tortura costituisce un trauma, dobbiamo anche renderci conto che si tratta di un evento traumatico diverso da un terremoto, perché legato all’intenzionalità di recare danno e fare del male. Il torturato si fa carico delle colpe del torturatore, nasce allora per il torturato la vergogna di raccontare ciò che ha subito. Non è possibile, in ambito terapeutico, escludere la figura del torturatore, perché si deve cercare di far capire al torturato quali sono i motivi che hanno spinto il torturatore ad arrivare a certi livelli... non per giustificarlo, ma perché altrimenti questa figura rimane sempre fuori dal campo d’azione, come un fantasma che può intervenire in qualsiasi momento, perché non lo si riesce a controllare. Da questo punto di vista sono interessantissimi tutti i libri di Primo Levi, dove viene esposta la convinzione degli aguzzini nazisti che anche se un giorno le vittime fossero riuscite a raccontare ciò che avevano subito, nessuno avrebbe loro creduto data l’enormità delle violenze subite. Il torturatore sa, e lo dice chiaramente alla sua vittima, che sulle violenze subite cadrà il silenzio.
Questo rapporto tra silenzio e capacità di raccontare la verità è un principio fondamentale del volontariato come noi lo intendiamo e come cerchiamo di praticarlo: il volontariato è per sua natura un lavoro silenzioso, che non aspira all’autocelebrazione, ma che in determinati momenti deve avere la forza e il coraggio di urlare in nome degli altri, al posto di chi non ha la forza e il coraggio per farlo.


Prassi dal basso

Passano molte donne per il centro?

No, non ne passano molte, in genere nel caso dei rifugiati capita spesso che accompagnino i mariti in fuga o li seguano in un secondo momento per via del ricongiungimento familiare.
Le poche donne delle quali ci siamo occupati sono arrivate da noi assolutamente massacrate, sia dal punto di vista psicologico che fisico, spesso la tortura nei confronti di una donna si concretizza nella violenza sessuale.

Come si attua la funzione di denuncia del centro Har?

I volontari che lavorano al centro insieme ai rifugiati, organizzano serate pubbliche con interventi degli stessi rifugiati su tematiche specifiche, parlando dei loro paesi, portando testimonianze, parlando delle torture subite. Il 26 giugno, nella giornata internazionale a favore delle vittime di tortura, organizziamo sempre una serata dal titolo “dar voce a chi si vuol far tacere” in cui si denunciano i paesi in cui esistono ancora situazioni di violenza su chi si oppone.

Questo rientra sempre nel discorso del ruolo che deve giocare il volontariato...

Certo perché il volontariato pone domande alternative pratiche ai bisogni a cui le istituzioni volutamente non danno risposta, questo significa, ad esempio per il Naga, lavorare con i clandestini per scelta, perché chi ha il permesso di soggiorno può accedere ad altri servizi pubblici che è suo diritto utilizzare. In questi anni come Naga abbiamo visitato 73.000 persone, questo dimostra che il diritto alla salute non è garantito a tutti e quindi con questi numeri puoi fare pressione sulle istituzioni perché vengano garantiti uguali diritti a tutti, al di là del permesso di soggiorno, della razza, della religione, del sesso, dell’appartenenza al gruppo politico, ecc., e su questo si innesta tutta la battaglia politica; naturalmente la rivendicazione di questi diritti comporta anche la ricerca delle alleanze per farli valere.
Un altro elemento importante è la prassi dal basso, questo significa che non vogliamo fare discorsi politici che poi non hanno nulla a che fare con la realtà, noi vogliamo partire dalle esigenze, dalle richieste delle persone con le quali lavoriamo e cominciare a fare le cose con queste persone, la rivendicazione è un momento successivo; a noi interessa cambiare il sociale. È importante anche l’assenza della delega, questo significa portare avanti in prima persona le lotte per i diritti e dare voce a questi diritti (anche con convegni, come abbiamo fatto in questi anni che hanno valore a livello scientifico e cercano di esercitare una pressione sulle istituzioni) in modo tale che il volontariato non si trasformi in un ammortizzatore sociale.
Quando, ad esempio, un rom ha una prospettiva di vita di 33 anni in Italia, nel 2001, è inevitabile porsi delle domande, trarre delle conclusioni e sperimentare, ciò comporta non solo un tentativo di progettazione del sociale, ma anche un tentativo di uscire dalla logica dell’emergenza-intervento-recupero per passare a quella della prevenzione.

Laura Di Martino

NAGA

Il NAGA, Associazione Volontaria di Assistenza Socio-Sanitaria e per i Diritti di Stranieri e Nomadi – Onlus, è un’associazione laica e apartitica, senza fini di lucro.
Si è costituita nel 1987 allo scopo di “promuovere l’impegno umano e sociale dei cittadini democratici senza alcuna discriminazione di razza, religione, partito, al fine di stimolare attività di carattere socio-assistenziale nei confronti di popoli stranieri e nomadi bisognevoli”.
Riconoscendo nella “salute un diritto inalienabile dell’individuo” indipendentemente da ogni differenza di razza, religione, cultura, ideologia, posizione giuridica vuole essere una proposta concreta ai bisogni socio-sanitari di tutti i cittadini immigrati extracomunitari e nomadi ai quali per motivi giuridici, economici, culturali viene tuttora negato in Italia tale diritto.
L’obiettivo non è certo quello, sicuramente sproporzionato alle risorse disponibili, di fornire una risposta completa ed esauriente, nè quello di coprire con un intervento di volontariato un vuoto legislativo. Neppure si pensa di fare un intervento di solidarietà nei confronti di persone più deboli. Al contrario l’obbiettivo è quello di utilizzare questo servizio, con tutti i limiti, le lacune, la frammentarietà delle risposte, come cassa di risonanza per dare voce e dignità politica ai bisogni di chi risulta ancora trasparente per lo Stato e le sue istituzioni.
L’attività dell’associazione si articola in diversi settori: servizio di assistenza socio-sanitaria, ricerca, formazione e denuncia.

Gruppi del NAGA
Il NAGA è articolato operativamente in più gruppi che si occupano dei vari aspetti della propria attività.
Il NAGA si occupa dei problemi degli immigrati carcerati offrendo informazione, colloqui e segretariato sociale. Molto sinteticamente ecco una panoramica dei gruppi.

Salute: Si occupa dei problemi legati al diritto alla salute per tutti.
Centro di documentazione: Gestisce l’archivio documentazione, organizza dibattiti, fornisce informazioni e supporto tecnico agli altri gruppi.
Donne: Si occupa dei problemi della salute delle donne immigrate.
Ricerca: Ha svolto lavoro di ricerca scientifica (in passato) e attualmente svolge ricerca interna.
Medici: Fornisce l’assistenza medica ambulatoriale.
Rifugiati: Fornisce assistenza medica, psicologica e sociale a persone rifugiate o torturate.
Nomadi: Si occupa dei problemi sociali e sanitari dei nomadi.
Corelli: Si occupa del problema del centro di detenzione temporanea di via Corelli.
Ufficio legale: Offre consulenza legale a stranieri e nomadi prevalentemente non appartenenti all’Unione Europea.
Accoglienza: Organizza l’ambulatorio e si occupa dei problemi inerenti alle pratiche sanitarie dei pazienti.
Etnopsichiatria: Si occupa delle relazioni tra medicina ufficiale e medicine tradizionali soprattutto per l’impatto che hanno nel rapporto tra paziente immigrato e strutture sanitarie locali.

Chi è Italo Siena

Nato a Lecce nel 1949. Laureato in Medicina e Chirurgia nel 1974. È stato tra i fondatori del nucleo libertario di Quarto Oggiaro “F. Serantini” e, nel 1978, tra gli occupanti della cascina Torchiera (detta Cascina Libera) dove si pubblicava il giornale Terra libera. Dal 1980 pratica la professione di medico di base. È docente di psicosomatica alla Scuola di Psicomotricità di B. Acouturier. Nel 1987 ha fondato il Naga, prima associazione socio-sanitaria specifica per l’assistenza agli stranieri e nomadi. È stato docente di corsi di formazione per operatori socio-sanitari sulla problematica dell’immigrazione in molte città d’Italia (Bologna, Parma, Firenze, Bolzano, Como, Varese).
Ha organizzato numerosi convegni a carattere internazionale “Il colore della salute”, “La salute senza colore”. Da tre anni organizza le giornate a favore delle “Vittime della Tortura”. Nel 2001 ha fondato in Italia il primo Centro per le vittime della tortura “HAR”. È attualmente responsabile del Centro.