Rivista Anarchica Online


ricordando Roberto Leydi

Un infaticabile lavoratore della musica
di Cesare Bermani
immagini archivio Istituto “Ernesto De Martino”

 

In ricordo di una delle figure più ragguardevoli della musicologia contemporanea.

“Io ho cercato di divertirmi, intendo dire nel senso di Bertolt Brecht quando diceva che il teatro deve essere divertente, cioè che è giusto avere il piacere di vivere delle cose che si fanno. Può essere il jazz, la musica popolare, Juliette Greco o Luciano Berio. Io ho fatto poche cose nella vita di cui non ricordi un’emozione anche di piacere”.

Lo poteva dire Roberto Leydi, una delle figure più ragguardevoli della musicologia contemporanea, interessato a tutta la buona musica, di qualunque genere fosse.
Un rendiconto della sua attività non è facile, perché ha utilizzato i più diversi canali per fornire fonti di riflessione agli studiosi e agli appassionati, svolgendo una mole di attività che ha dell’incredibile. Ma larga parte di essa si è anche esplicata attraverso le conversazioni, indimenticabilmente vivaci e intelligenti, con decine e decine di lavoratori della musica, cui è stato prodigo di consigli, di materiali del suo archivio e di indicazioni di ricerca.
Con lui, ricorda Luciano Berio, “non si riusciva a parlare di cultura ma, piuttosto, di realtà specifiche, semplici o complesse che fossero, come la struttura melodica di una canzone, la struttura narrativa di un testo e da che cosa era abitata l’espressività di un canto. La moltitudine e la molteplicità dei riferimenti era trattata da Roberto con pragmatica e spesso con aneddotica trasparenza: non parlava mai di realtà della cultura ma, piuttosto, di cultura della realtà”.

Formazione antiaccademica

Per capire lo spirito con cui Leydi ha operato, credo si debba risalire alla sua formazione giovanile, tutta antiaccademica, nella Milano del dopoguerra pervasa da afflati di genuina democrazia e da grandi speranze di ricostruzione di un Italia ben diversa da quella che ci ritroviamo oggi.
Milano allora – come mi ricordava lui – “conteneva una vitalità enorme, grandi illusioni e speranze. Ed era il mio mondo. Noi eravamo ‘Politecnico’ ed una delle componenti della nostra cultura era l’America, che però non piaceva per nulla a Togliatti. Io non credo che Togliatti abbia quasi mai avuto ragione, ma in quel caso forse un po’ di ragione l’aveva, perché forse coglieva le nostre illusioni. Però non coglieva che terreno fertile fosse per tutti noi quell’ambiente in cui tutti noi guardavamo all’America. L’America a cui guardavamo era quella del New Deal rooseveltiano, dei negri, dei poveri del Sud, dei mandriani del West, dei boscaioli del Nord; era l’America di Hemingway, dello Steinbeck di Furore, di Caldwell, insomma di tutta la letteratura del New Deal. Una delle facce del New Deal era stata quella di fare riscoprire l’America dei poveri, dei disperati. Che cos’era questa America per noi? Era la disperata ricerca di una patria da parte di un: generazione senza patria. Non potevamo riconoscerci nell’Italia di Vittorio Emanuele II o di Cavour, di Crispi o di Leonardo da Vinci. Avevamo bisogno di una patria popolare, e il jazz era questo: una patria popolare. Cioè era l’esigenza di riconoscerci dentro un mondo di lavoratori, di operai di fabbrica contadini. Ciò avveniva intellettualisticamente, perché in realtà ignoravamo che questo mondo esisteva anche qui. Il mio passaggio all’interesse per il mondo popolare si verifica quando ho cominciato a rendermi conto che quella patria americana era un’astrazione e che era possibile trovarla qui. La mia coscienza politica è stata però a lungo istintivo-retorica, mitologica, cosmopolita, tipicamente radical-borghese, anche se colorata di rosso”.
Nella Milano del dopoguerra Leydi è già una presenza culturale di tutto rispetto. Critico musicale dell’“Avanti!”, la sua casa in via Solferino (poi in via Cappuccio) era il punto di riferimento di molta intellettualità, dall’architetto Rogers a Umberto Eco, da Bruno Maderna a Luciano Berio, da Luigi Pestalozza ai componenti della Original Lambro Jazz Band (quanti sanno che quel nome lo inventò proprio Roberto Leydi?). Ma a casa sua ci si sarebbe potuti imbattere anche in Alan Lomax o in Big Bill Broonzy di passaggio da Milano. In quegli anni Leydi pubblica anche “Jazz time”, una rivistina di cui uscirono pochi numeri e che era caratterizzata della grafica di Max Huber. E, più che tradurre, aveva allora riscritto Il Jazz di Iain Lang, un libro che allora ebbe grande successo perché invitava a riflettere sulle origini sociali di quella musica, interpretata come espressione del proletariato nero e bianco americano.

“Ritratto di città”

Nel 1954, quando Bruno Maderna e Luciano Berio fondano lo Studio di fonologia della Rai di Milano, Roberto Leydi è della partita. Scrive il testo di “Ritratto di città”, musicato dai due. Ci si muove in un paesaggio sonoro e mentale che propone una musica elettronica priva di limiti, in un interrelazione del nastro con qualsiasi altro mezzo di produzione di suoni. Tra Colonia (Karlheinz Stockhausen) e Parigi (Pierre Schaeffer) si è insomma scelto Parigi.
Tra i suoi dischi degli anni Cinquanta va anzitutto ricordato “Kurt Weill 1933-1950”, cantato da Laura Betti, diretto da Bruno Maderna e presentato da lui, che forse raccoglie le migliori interpretazioni italiane dei songs del musicista tedesco.
Uomo di teatro, firmerà con Filippo Crivelli Milanin Milanon, che farà conoscere Jannacci e rilancerà quella grande cantante da cabaret che è stata Milly.
Nel 1962, per merito di Roberto Leydi e Gianni Bosio, decollano “il Nuovo Canzoniere Italiano” e “I Dischi del Sole”, attività che darà un ampio “corpus” di canto sociale al nostro paese. Tra l’altro proprio le loro ricerche assieme ad Alfonso Failla permetteranno di fissare su nastro quei canti anarchici, in larga parte dimenticati o poco conosciuti, che verranno poi fatti conoscere al vasto pubblico da I Dischi del Sole e degli spettacoli del Nuovo canzoniere Italiano.
L’incontro con Bosio fa maturare ulteriormente l’“essere a sinistra” di Leydi: “Nella vicinanza di Gianni Bosio quello che era un fatto astratto e mitologico diventa un fatto concreto, è l’acquisizione che la Rivoluzione d’Ottobre c’è stata davvero; è attraverso Bosio che ho acquisito la coscienza dell’esistenza di un mondo contadino e una certa metodologia dell’analisi politica”.
Dentro a quella vicenda Leydi si rivelò allora uno straordinario organizzatore. Fu lui a scoprire Giovanna Marini e Maria Teresa Bulciolu al Folkstudio di Roma e a portare Caterina Bueno nel nostro sparuto gruppetto. E, a proposito del Nuovo Canzoniere Italiano, andrà qui almeno accennato che un ruolo di primissimo piano rivestì pure Sandra Mantovani, compagna di tutta la sua vita, una delle voci prescelte da Luciano Berio per il suo Questo vuol dire che… per voci e nastro (1969).
Ma suo merito fu soprattutto quello di avere motivato al lavoro di ricerca, e in modo duraturo, i primi ricercatori di canto sociale. Posso testimoniare che mi ha messo un magnetofono in mano nel 1962 e che non me lo sono più staccato di dosso. Perché Leydi, forse senza rendersene conto sino in fondo, ha dato anche a noi una patria e ci ha quindi fatto fare delle scelte di vita.
In quel decollo d’attività del gruppo, Leydi ha legato il suo nome a importanti spettacoli come Pietà l’è morta (firmato con Giovanni Pirelli e Filippo Crivelli) e Bella ciao (firmato con Franco Fortini e Filippo Crivelli). Nel 1967 curerà Sentite buona gente. Prima rappresentazione di canti, balli e spettacoli popolari italiani, con messa in scena di Alberto Negrin e consulenza di Diego Carpitella.

Lacerazione profonda

Quando nel 1965 il nostro sparuto gruppetto si ruppe fu per molti di noi una lacerazione emotiva profonda.
Le ragioni di quella rottura ho provato a raccontarle in Una storia cantata. Molti di noi e Bosio in testa ritennero che la teorizzazione dello “specifico stilistico” e la propensione ad appaiare il repertorio popolare a quello colto potesse divenire una causa di integrazione del lavoro del gruppo. Da parte sua Leydi denunciava a ragione che i gruppi del Nuovo Canzoniere Italiano, dentro la forsennata attività politica di quegli anni, stavano perdendo non poco di qualità. Ma quello che fece precipitare la situazione furono i tentativi di forzare Leydi ad assumere la direzione del nascente Istituto Ernesto De Martino con un lavoro a tempo pieno, certo poco retribuito e palesemente poco garantito. Leydi, che all’epoca lavorava a “L’Europeo”, rifiutò quello che gli parve un salto nel buio e un’attività meno consona ai suoi obbiettivi, che solo parzialmente coincidevano con i nostri. Secondo me, fu un grosso errore di valutazione da parte di Bosio quello di offrirgli un incarico che questi non si sentiva di assumere.
In seguito Leydi si è impegnato in altre importanti imprese di organizzazione della cultura che hanno fortemente contribuito a modificare il panorama della nostra musica orale.
Ricordo anzitutto l’attività del Servizio per la Cultura del Mondo popolare della Regione Lombardia, che promosse ricerche sulla cultura e sulla musica popolare provincia per provincia, sfociato nella monumentale opera in 15 volumi “Mondo popolare in Lombardia” e nella collana discografica documenti della cultura popolare, cui hanno collaborato decine di studiosi.
Nella sua attività di titolare della cattedra di etnomusicologia al Dams di Bologna – alla cui fondazione contribuì non poco – è riuscito a creare un buon gruppo di ricercatori preparati, che hanno portato l’etnomusicologia italiana al riconoscimento mondiale. La sua cattedra, segnata da quella visione aperta dai fatti sonori che è stato il leitmotiv di tutta la sua vita, ha alimentato in molti giovani l’interesse non solo per l’etnomusicologia ma anche per canto sociale, la popular music, il jazz.
Tra le imprese editoriali che ha promosso mi pare siano da ricordare in questa sede soprattutto l’opera collettiva in due volumi “Guida alla musica popolare in Italia” e, curata con Febo Guizzi, “Gli strumenti musicali e l’etnografia italiana (1881-1911)”.
Fondamentali resteranno le sue ricerche sulla canzone narrativa e sulla musica di Creta.

Processo di svecchiamento

Ma, per capire lo spirito di Leydi, il volume chiave è “L’altra musica”, dove la tradizione colta è vista una volta tanto come “altra” e per una volta sono i “bianchi” a essere “gli altri”; e dove si nota che è stata la crisi dei modi tradizionali di fare la storia o di occuparsi del folklore ad aprire la strada al processo di svecchiamento dell’etnomusicologia italiana.
Questa crisi è nata prevalentemente per l’attività di storici e folkloristi fuori dalle istituzioni accademiche o tenuti a lungo ai suoi margini e – informa Leydi – non diversamente sono andate le cose in ambito etnomusicologico: “Se il processo di adeguamento e di rinnovamento delle scienze del folklore in generale fu in quegli anni del secondo dopoguerra affidato alla presenza di una forte sensibilità sociale non tanto alle istituzioni accademiche, quanto (e in parte notevole) a fasce di ricerca e di studio escluse dalle istituzioni accademiche o, se in esse pur collocate, viste come marginali o addirittura pericolose, questo destino fu particolarmente riservato allo studio delle musiche popolari. È così che l’etnomusicologia si sviluppa e si definisce, in Italia, fuori dalle Università”.
A Leydi non sfuggiva che la proposta avanzata oggi da parte dell’etnomusicologia italiana perché si guardi alla musica con una mentalità diversa da quella legata alla scrittura era in realtà un aspetto di una più ampia contestazione che aveva investito in misura maggiore o minore tutte le scienze dell’uomo, a partire dagli anni Sessanta, ed era parallela a quella sostenuta in storiografia da quegli studiosi formatisi all’interno o a latere del Nuovo Canzoniere Italiano. Questo gruppo di storici rappresenta oggi gran parte della “oral history” italiana, che gode anch’essa di riconoscimenti unanimi a livello mondiale.
Non ultimo merito di Roberto Leydi è stato quello di raccogliere per tutta la vita le fonti del suo lavoro: ha lasciato una importantissima raccolta di strumenti musicali popolari (oltre 650), 1.045 nastri con oltre 3.000 inchieste sul campo, circa 10.000 dischi e una biblioteca specializzata di oltre 6.000 volumi al Centro di dialettologia e di etnografia della Svizzera italiana, con sede a Bellinzona.
Un modo di salvare un patrimonio di cultura e memoria, lasciatoci da tanti contadini e operai per preservarlo e farlo conoscere, da un paese come il nostro che non sa che distruggere questi suoi beni culturali (non attrezzarsi per conservarli significa di fatto distruggerli).
Credo che questa sia stata la sua ultima proposta culturale: per salvare la memoria della classe è necessario andarsene da questo nostro paese a Lugano (recentemente là sono finiti i materiali raccolti da Polotti), a Bellinzona o ad Amsterdam…

Cesare Bermani