Rivista Anarchica Online



a cura di Marco Pandin

 

Il Suonatore Jones

Dalla pubblicazione di Mille papaveri rossi, quattro anni oramai, continuo a ricevere con una certa regolarità lettere, messaggi, telefonate di musicisti e gruppi del tipo: “Ma come, hai organizzato una raccolta di canzoni di De André e non mi hai neanche invitato?”. Il brutto, o il bello a seconda dei punti di vista, è che di buona parte di questi musicisti e gruppi... non sospettavo nemmeno l’esistenza.
Dico il “brutto” riferendomi alle mie difficoltà personali: faccio fatica a rimanere informato su cose che mi interessano, arranco dietro a contatti che riesco a malapena a mantenere e che poi inesorabilmente perdo, sospiro e sbavo di fronte a vetrine di negozi che vendono dischi che non mi posso permettere di acquistare, e così via. Ovvio che non posso sapere di tutto e di tutti: devo accontentarmi di tenere la curiosità al guinzaglio corto del mio tempo libero, della mia capacità investigativa e (soprattutto) del mio portafoglio. Parallelamente, il “bello” in questa storia è fermarsi un attimo e accorgersi di quanta gente nuova ho incontrato e conosciuto con il pretesto delle canzoni: persone e collettivi che condividono, oltre agli ascolti, certi spostamenti del cuore. Non dico una fesseria quando dico che Fabrizio De André, scrivendo quelle sue canzoni e cantandole, è stato capace di cambiare delle vite, di trovare parole che hanno fatto prendere una certa curva e non un’altra al destino di tanta gente. Fa un certo effetto il ritrovarsi a condividere a distanza lo stesso identico brivido per un accordo dentro una canzone, per una frase detta da un palco ed entrata nella memoria come un virus impossibile da curare, per una fotografia che si è fissata dietro gli occhi e ogni tanto torna a galla, indelebile, nei pensieri.
Fa un certo effetto anche accorgersi che nella vita ci si sfiora e ci si lascia, per poi ravvicinare le distanze e poi riperdersi. Ecco una storia.
Una ventina abbondante d’anni fa, in giro con amicizie montanare d’allora, mi sono ritrovato una sera in un qualche posto di Bolzano a un concerto di Andrea Maffei, cantautore locale. Serata collettiva e precaria comunque già iniziata al nostro arrivo, noi superfighi stavamo annegando nella birra tutti presi in discorsi concitati e nevrotici che nelle nostre intenzioni erano preludio alla rivoluzione (...erano anni duri, va detto) e si prestava più attenzione al rimbombo dei pensieri che a quello che succedeva lì in fondo sul palco. Il cantautore locale me lo ricordo vagamente, come pure il resto della serata, l’alcool di certo tra i responsabili della mia confusione mentale. Coi miei compagni di là poi la rivoluzione non s’è fatta (s’è però fatto assieme un gran bel disco, e scusate se è poco), poi ci si allontana e tutto muore lì col rumore che si trasforma velocemente in silenzio. Io faccio dell’altro, e negli anni che seguono per mille motivi in Alto Adige ci torno solo una volta e di corsa per una festa di matrimonio verso metà/fine anni Novanta. Uno dei tipi là alla festa, uno che non conosco, arriva in macchina con Cd (o era una cassetta?) a volume da stordimento. Non techno né metal né jodel, come da manuale di stereotipia, ma una canzone strana e sbilenca che lì attorno sembrava piuttosto popolare, una specie di poesia pacifista astiosa e provocatoria che (vado a memoria, anzi a tentoni) ha a che fare coi fanti in Albania e che dice pressappoco “sparami negli occhi che gli occhi hanno troppo da dire”. Chiedo cos’è. Mi dice è Maffei, cantautore di Bolzano. Cazzo, dico io. E tutto si ferma là.
Intanto, il tempo passa. Mi ritrovo, poco dopo l’uscita di Mille papaveri rossi (2003) ad inciampare in un messaggio di Andrea Maffei del tipo e del tono che ho descritto all’inizio. Lui nel frattempo ha giustamente fatto la sua strada, proprio come io ho fatto la mia, cioè ignorandoci reciprocamente senza metterci cattiveria né dell’intenzione: ha continuato a cantare e a sbattersi, a macinare chilometri, a tenere insieme un gruppo di musicisti che continuano testardamente a credergli e a crederci. Andrea nella stessa busta mi manda, assieme a quel messaggio di due righe due, un Cd casalingo: più che altro una serie di appunti presi in diretta dal vivo e con pochi mezzi, i titoli scritti di fretta col pennarello. A dirla tutta (…questo è un coming out) il Cd casalingo va a finire nel mio scatolone disordinato di posta-in-arrivo a prendere polvere per dei mesi. E tutto resta là. Il messaggio e il Cd casalingo fanno poi temporaneamente ritorno alla luce da quell’oblio in uno dei miei periodi di relativa tranquillità familiare. Ascolto il Cd casalingo e il contenuto ne riflette quell’impressione di superficie (appunti presi in fretta dal vivo, ecc.) anche se, va detto, mi incuriosiscono certe scintille. Sono canzoni di De André rifatte, ne ricevo spesso, un po’ si confondono nella massa, l’audio traballante va e viene come l’attenzione. Poi ritorna tutto come prima: io a fare le mie cose, Andrea a fare le sue, il Cd a prendere la stessa polvere però in un diverso scatolone. Tutto normale.

Andrea Maffei

La settimana scorsa recupero la posta dalla casella postale e, in mezzo al resto, c’è un pacchetto. La calligrafia sulla busta mi è vagamente familiare: apro, c’è un Cd del Suonatore Jones. È il gruppo che Andrea Maffei ha raccolto non attorno a sé ma attorno alle canzoni di De André: insomma, quel suo vecchio chiodo fisso, quel suo progetto ritagliato a fianco delle sue cose, quegli appunti presi in fretta dal vivo… quel povero bruco, ora trasformato in una meravigliosa farfalla.
Il disco prende fuoco da subito. La prima sorpresa è – ovviamente – tutta nella voce, dal timbro assolutamente credibile e finalmente lontana da quella di Faber per respiro e colore (era ora! Una raccolta di canzoni di De André fatta da un gruppo che non imita la PFM e da un cantante che non imita De André!). La seconda sorpresa, che arriva subito dopo, è tutta negli arrangiamenti, i vestiti delle canzoni insomma, per me così difficili da raccontare perché la bocca m’è rimasta aperta dallo stupore. Immaginate una jam tra i bolzanini e i Little Feat per un’Avventura a Durango presa a De André e restituita per sbaglio a Bob Dylan, immaginate l’uptempo italico spiazzante della Ballata del Miché che manco fossero i Bluebeaters, immaginate il Testamento di Tito trasformata in una cavalcata prog suggestiva come non mai in groppa a una chitarra elettrica grossa così... Potrei continuare a farvi immaginare cose impossibili per tutti i pezzi, godendo di un nuovo brivido ogni volta. Non esagero.
Questo è un disco che ha le scarpe sporche di terra, sporche della polvere della strada. Strada macinata per chilometri e per anni senza mai smettere, sopportando fame sete insulti e indifferenza. Un disco sincero che si rivela, ad ogni ascolto, carico d’amore, passione e desiderio. Altro che scintille: qui c’è un incendio impossibile da spegnere.
Scrivo su questo giornale da oltre vent’anni e non credo di aver mai consigliato esplicitamente l’acquisto di qualcosa: stavolta no, stavolta vi chiedo di farlo. Se vi comprate solo un disco all’anno, fate che sia questo. Non ho onestamente informazioni sulla sua reperibilità commerciale e credo venga solo diffuso ai concerti del gruppo, la mancata distribuzione nei negozi una precisa scelta della parte in cui stare. Resta valido il vecchio sano metodo del contatto diretto: se capitate in zona Bolzano chiedete in giro, oppure tentate la via del web su www.andreamaffei.it.

Marco Pandin
stella_nera@tin.it

PS: ho poi trovato in internet, girovagando qua e là, quella canzone ascoltata al matrimonio del mio vecchio amico di Merano: si chiama Caporetto, è proprio sua di Maffei ed è raccolta sul sito di Canzoni contro la guerra www.antiwarsongs.org. E il testo me lo ricordavo sbagliato. Certo è colpa dell’alcool.