Rivista Anarchica Online


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Cucù, in Parlamento la sinistra non c’è più

 

Per la prima volta in oltre un secolo di storia italiana, nella Camera dei Deputati e nel Senato non ci sono rappresentanti dei partiti e movimenti della sinistra. Comunisti, socialisti, verdi: tutti extraparlamentari, come noi anarchici. Alcuni dei quali esprimono in questa pagina una loro prima valutazione.

1. La sinistra è scomparsa?
di Marco Gastoni

Il Parlamento italiano è rimasto orfano della cosiddetta “sinistra radicale”, spazzata via da un’ondata reazionaria e parafascista agevolata dal partito democratico che, come il suo antenato PCI, ha replicato la vecchia strategia di annullamento di qualsiasi cosa si muovesse alla propria sinistra. Del resto, la stessa strategia di desertificazione era stata attuata dal PRC nei confronti delle proprie costole poi diventate il Partito Comunista dei Lavoratori e la Sinistra Critica. Questa strategia gli si è rivoltata contro e la morale potrebbe essere “chi la fa l’aspetti...”.
La cosa interessante è che sembra essersi aperto un processo di autocrititica da parte delle forze raggruppate nella Sinistra Arcobaleno non soltanto a livello nazionale ma anche a livello locale. Al di là delle analisi superficiali, che si limitano a sottolineare gli errori a livello di strategia di marketing politico quali, per esempio, la rinuncia ai simboli storici della falce e martello/sole che ride, sembra essere stata finalmente avviata una riflessione sul ruolo della sinistra nella società postindustriale dei servizi e del lavoro flessibile. Ad un’analisi esterna e preliminare, questa riflessione degli attivisti e simpatizzanti dell’arcobaleno è senz’altro opportuna e, sebbene qualcuno di loro continui ad analizzare la situazione attraverso concetti vetero-marxisti quali il “ruolo guida” del partito e l’esercizio “dell’egemonia sulla classe lavoratrice” si stanno ponendo domande nuove sulla necessità di trovare forme di rappresentanza e di partecipazione innovative.
Il movimento libertario ed anarchico non ottiene alcun vantaggio della scomparsa della sinistra dal parlamento italiano e non può che dolersi dell’attuale situazione di prevalenza di parafascisti, neoliberisti e affaristi nello scenario istituzionale del paese. La situazione di dominio sulle istituzioni che si accompagna all’assoluto controllo di tutti i mezzi d’informazione rende, di fatto, l’Italia un “regime” nel quale tutte le forme di antagonismo al sistema capitalista sono e saranno sottoposte ad attacchi sempre più virulenti. Le forze reazionarie attualmente rappresentate in parlamento hanno già cominciato la campagna di attacco alle forme di resistenza sociale, parlando di un nuovo e rinforzato pericolo brigatista collegato alla sinistra ormai extra-parlamentare. Per chi, come noi, ha manifestato chiaramente l’avversione al brigatismo della prima e della seconda ora (sull’analisi anarchica del fenomeno si vedano in proposito anche gli articoli usciti all’epoca su questa rivista) questa situazione di attacco non può certo giovare. Del resto, per gli anarchici la repressione e la gogna mediatica rappresentano un handicap costante nella storia che può soltanto peggiorare nella situazione attuale in cui anche chi ieri era “rispettabile” domani potrebbe non esserlo più.
Ancora una volta, si aprono delle porte mentre altre porte si chiudono: ci sono nuove opportunità di dialogo tra le diverse anime dell’antagonismo al sistema neoliberale ma gli spazi di vivibilità sono destinati a diminuire se non si sapranno sviluppare pratiche di resistenza intelligenti e coerenti ad una strategia complessiva. Molti degli orfani del parlamentarismo si butteranno a capofitto nella gestione dei piccoli poteri rimasti negli enti locali ma sono certo che molti dei militanti della sinistra radicale cominceranno a mettersi in discussione e sarà forse più facile dialogare sulle cose concrete nei luoghi di lavoro e nelle lotte sociali.
Qui sta a noi anarchici saperci proporre come partner leale senza mire di egemonia partendo dalla discussione e dalla condivisione dei problemi sul tavolo. D’altra parte, il nostro movimento soffre di problematiche analoghe, in una società dove imperano consumismo e produttivismo e dove si riscontra ogni giorno la difficoltà di mantenere un proficuo contatto con le masse sfruttate da parte dei movimenti politici che mettono in discussione l’esistente in forma radicale.
Inoltre, l’analisi autocritica della propria strategia di lotta politica appartiene al nostro movimento che ha ormai dimostrato una capacità di discutere delle strategie d’intervento politico a tutti i livelli, anche attraverso forme di coordinazione nazionale esistenti o di nuova realizzazione. La diversità interna e la dialettica anche aspra degli anarchici comincia ad essere percepita da molt* compagn* come una ricchezza e non come una limitazione nel proprio modo di porsi rispetto alla politica. Ovviamente è fondamentale che il confronto si basi sulla chiarezza e sul rispetto delle diversità reciproche.
Questa capacità di riflessione sui fenomeni sociali che il nostro movimento esprime e che spesso rimane confinata in un ambito ristretto e, a volte, ostile dovrebbe, secondo me, sapersi aprire all’esterno con decisione e fiducia nella propria capacità propositiva. Anche se è difficile, dobbiamo cercare di costruire insieme un “modello culturale libertario/antiautoritario” capace di imporsi all’attenzione dei mezzi d’informazione di massa. Occorrerebbe investire anche nella capacità di produrre eventi culturali e sociali in un’ottica di favorire la contaminazione e il coinvolgimento delle persone all’esterno del nostro movimento. L’inventiva e la creatività abbondano: quello che ci manca sono le risorse da investire che potrebbero venire anche da iniziative sociali di sensibilizzazione e autofinanziamento a livello locale (Anarchia Infesta a Massa mi sembra un ottimo esempio).
Se sapremo superare una certa “allergia al confronto” che a volte si riscontra, anche al nostro interno, quando si affrontano questioni strategiche riusciremo a proporci anche all’esterno con la visione articolata e non dogmatica che ci caratterizza. Questa visione strategica è necessaria e funzionale al fine di porci come soggetti attivi a livello di pratiche e azioni dirette e qualsiasi dualismo o contrapposizione tra teoria e pratica serve soltanto a mascherare sindromi da insofferenza alla discussione. Occorre infatti essere consapevoli che questa pratica del confronto a tutti i livelli è irta di difficoltà ma credo sia l’unica via per riprendere una frequentazione attiva dei movimenti popolari non arroccata su posizioni puramente ideologiche che, allo stato attuale, possono solo allontanarci ulteriormente dalle masse popolari.

Marco Gastoni


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2. Siamo tutti extraparlamentari
di Stefano d’Errico

I risultati del terremoto politico del 13 aprile disegnano uno scenario ben diverso dal consueto. Ma la novità (purtroppo) non è la vittoria delle destre (ampiamente scontata al di là della meramente propagandistica “rincorsa” di Veltroni), né il successo della Lega (che già due volte, in passato, aveva superato gli indici attuali). Il successo berlusconiano era previsto perché preparato da un governo vergognosamente appiattito sulle compatibilità con il grande capitale europeo e nazionale, e reso possibile dalla incompetenza (ma anche dalla connivenza) assoluta del ceto politico della sinistra cosiddetta “estrema” (sic! – vd. la presidenza della Camera barattata per il programma). Pressoché nulla di quanto promesso è stato realizzato: non una legge sul conflitto d’interessi; non l’abrogazione delle leggi ad personam o di quelle a favore degli inquisiti; non l’applicazione delle sentenze europee contro lo strapotere televisivo di Mediaset; non l’eliminazione drastica della controriforma della scuola; nulla per l’ambiente (neppure il rispetto dei parametri di Kioto); scalfite appena la Bossi-Fini sull’immigrazione e la sudditanza assoluta agli USA; pressoché intonsa la legge Biagi; nessuna revisione della linea seguita dal primo governo Prodi-D’Alema in termini di limitazione del diritto di sciopero e di monopolio dei diritti sindacali in favore delle OOSS concertative; tutto il “tesoretto” a Montezemolo ed ai suoi amici... La sinistra non solo si omologa (e poi perde), ma lo stesso Partito Democratico (in verità sempre più di centro) si rende ben disponibile ad invasioni ed occupazioni dall’esterno: il fenomeno del dipietrismo ed il giustizialismo (in genere) non possono diventare “di sinistra” soltanto perché (paradossalmente) vengono preferiti a quel che resta del Partito Socialista.
È invece evidente che la Casta della “Sinistra l’Arcobaleno” non immaginava neppure lo tsunami che l’avrebbe investita, tanto che Bertinotti, appena quattro mesi prima delle elezioni, aveva dato disponibilità ad una modifica costituzionale di tipo tedesco (sbarramento al 5%), mentre ha raggiunto a malapena il tre. Il dato rilevante è quindi la sparizione dal parlamento di ogni residuo del partito togliattiano, cosa inusitata in Italia (che dell’esistenza dei Verdi non s’era mai accorto nessuno... solo i magistrati che indagano su viaggi e capricci di Pecoraro Scanio).
La prima cosa che emerge è il crollo delle dighe endogene: il mito operaio non tiene più. Ma anche questa è cosa già vista. Coloro che s’interrogano stupiti sulla trasmigrazione di un quinto dell’elettorato “comunista” verso la Lega, dimenticano quanto già successo da tempo, ad esempio in Francia, con interi quartieri proletari passati dal PCF a Le Pen sotto l’impatto della guerra fra poveri e delle contraddizioni (sicurezza) innescate dallo sfruttamento selvaggio dei fenomeni migratori.

Oliviero Diliberto

Profonda rottura interna

Per la sinistra nostrana è un evento che scuote dalle fondamenta certezze date per scontate da più d’ottant’anni: chi dimentica la sicumera del vecchio PCI, il cui ultimo militante era “per statuto” sempre pronto a distribuire sprezzanti lezioni di sagacia politica? Come possono capacitarsi, ora, che non sono neanche più capaci di guadagnare un seggio alla Camera? Anche perché è ormai chiaro a tutti che la debácle non ha origine solo nel “tradimento” della “svolta a destra” del PD, nello schiacciamento, nella chiamata al “voto utile” contro il faccendiere di Arcore, bensì in qualcosa di ancor meno accettabile e metabolizzabile per quel che resta dell’apparato comunista. Fuor di contingenza, si tratta ormai dell’esaurimento totale della ragion d’essere della scuola politica marxista nella sua interezza (fatte salve le residue ragioni dell’analisi economica). Un problema non più risolvibile con edulcorazioni, ingegnerie o con il semplice richiamo all’identità o alla pura proposta (ri)organizzativa. Se è vero che l’assenza dei simboli tradizionali dal logo dell’Arcobaleno non ha “aiutato” in visibilità, è però preminente un malessere di fondo, non recuperabile con l’ennesima (“nuova”) costituente comunista, ridotta ormai a mero richiamo della foresta per gli ultimi branchi (molto sparsi) di quel che era una volta la specie dominante a sinistra. Gli schemi e l’immagine sono sempre più desueti ed impresentabili: il fine che giustifica i mezzi, la dittatura di partito e del (sul) proletariato (in funzione di capitalismo di stato), mera riproposizione acritica di categorie ultradigerite dalla storia, come l’operaiolatria. I nuovi gruppi dirigenti sono invecchiati in fretta e la senilità impedisce loro di vedere oltre le usuali dietrologie, oltre la logica dell’accerchiamento e del complotto. Non ci sono solo la “americanizzazione” dell’elettorato, gli effetti perversi di una certa “globalizzazione” (delocalizzazione e mutamento della figura stessa del produttore) o la perfidia della CIA: è il senso comune a non accettare più le vecchie ricette.
Certo, non si tratta di una crisi ragionata e assorbita razionalmente dall’elettorato della falce e martello, ma gli elementi di una profonda rottura interna – tipica di quei casi in cui si decide con lo stomaco – ci sono tutti!
Stiamo dunque parlando della “svolta elettorale” più significativa, quanto, per ovvi motivi, la meno analizzata dai politologi dopo queste elezioni: “travasi” a parte, dei due milioni ed ottocentomila voti rossi che mancano all’appello e fatta la tara di quel poco che hanno raccolto le due mini-scissioni del PRC (comunque determinanti nella sparizione dei seggi), buona parte sono finiti nell’astensionismo. Un astensionismo che continua a crescere, concentrandosi però questa volta (com’era inevitabile dopo la disillusione totale del governo Prodi), soprattutto a sinistra.
Il rischio di tutto ciò – oltre ai danni irreparabili che il “popolo delle libertà” produrrà inevitabilmente (ma che sono in linea con quanto già visto con il “centro-sinistra” ed il pensiero unico) – è l’assenza di analisi, e quindi l’assenza di un nuovo necessario protagonismo (quello della sinistra libertaria). È evidente: l’astensionismo in sé non serve se non ci si lavora. Mai come oggi s’è data (dunque) la necessità di “ragionare di politica”.
Stiamo per entrare in un periodo particolare ma delicato, nel quale la rappresentanza (in assenza di mediazioni istituzionali) diverrà più diretta: il ruolo della “piazza” sarà centrale. Ma siccome la presenza di piazza non è cosa fine a se stessa, diviene determinante la capacità di proposta politica: quel che resta del tardo-bolscevismo giocherà le sue carte nel tentativo di “ricondizionare” le masse per stabilire un’egemonia capace di riportare la falce e martello nel Palazzo, per ridiventare mediazione istituzionale.
Ma sbaglierebbe i suoi conti chi pensasse che è solo la radicalità degli slogan e dei comportamenti esteriori (nella quale sconfitti ed orfani cercheranno l’ultima spiaggia dell’identità) il veicolo della ripresa di protagonismo: all’alba del Terzo Millennio contano finalmente molto di più la genuina radicalità delle idee e del progetto. Essere rivoluzionari è elemento d’identità, ma soprattutto nella proposta. Per due motivi. In primis perché per affermare la necessità del cambiamento bisogna saper dimostrare di poter e saper ottenere dei risultati hic et nunc (per vincere bisogna convincere). Secondariamente perché c’è bisogno di un’inversione della prassi. L’antipolitica non è una novità: negare l’autonomia della politica lo è, ovvero dimostrare di saper davvero subordinare la politica all’etica. La qual cosa prevede anche delle capacità di studio ed osservazione che non stanno certo nella semplice negazione del ragionamento politico. Occorre la capacità di mettere in atto il gradualismo rivoluzionario, proporre sistemi di riorganizzazione ed aggregazione, di autogestione e prima liberazione (anche culturale), immediatamente praticabili dalla (e nella) società civile. L’egemonia delle idee non è egemonia politica nel senso negativo del termine – ovvero l’imposizione di eterodirezioni che sono solo una variabile del potere – ed occorre saperla praticare. Allo stesso modo, non è l’egemonia dei fatti da criticare, ma quei fatti che tendono solo a stabilire l’egemonia (di un gruppo dirigente autoreferenziale). Speriamo di non rivedere invece (e di nuovo) predicazioni (e imposizioni) ancora indirizzate a riproporre lo scontro per lo scontro, deviazioni del tutto simboliche dell’immagine e della realtà (molto più complessa) dello scontro sociale, che danno il senso dell’involuzione.

Quale radicalità

Occorre ripensare e rimettere in campo in grande stile la proposta comunalista, se si vuole togliere spazio all’adattabilità ed al lobbysmo politico anche e soprattutto locale, vero dominio del voto di scambio e dell’accettazione della delega di potere in cambio di favori e sudditanza. Ma su questo terreno si giocano – più in piccolo e con minori responsabilità, eppur sempre con un ruolo incistato nel panorama clientelare – anche alcune delle ultime chances per quel che resta dell’apparato istituzionale dell’Arcobaleno, rimasto con poco contante e pochi favori da distribuire a livello nazionale. Da tale punto di vista, occorre aggiungere che anzi la vera crisi comincia adesso (con le relative diaspore).
Occorre ripensare l’organizzazione (ed il suo ruolo), quale strumento duttile ma coordinato seriamente a livello nazionale, un’organizzazione che, anche se la si vuole “leggera”, richiede comunque un sacrificio della “criticità assoluta” così come dell’autoreferenzialità dei piccoli gruppi e dei singoli individui. Ma l’elemento fondamentale di ogni entità collettiva è un vero (creativo e produttivo) senso d’appartenenza: senza impegno, sforzo strategico e progetto, non c’è capacità di convinzione, non c’è protagonismo né utile politico.
Occorre ragionare di anarcosindacalismo, soprattutto in una situazione nella quale i sindacati genericamente “alternativi” restano privi di padrini politici o vedono almeno incrinarsi il legame con partiti e partitini che hanno preteso sinora di utilizzarli come cinghia di trasmissione e/o gruppo di pressione su “mamma” CGIL a trazione PD (sempre preferita perché prodiga di distacchi dal lavoro e favori personali), secondo la vecchia logica comunista che ha sempre preteso la subordinazione del sindacato al “partito-guida” di turno. Costruire una vera autonomia del mondo del lavoro è l’ultima chance che hanno i ceti subalterni (del lavoro, del precariato e del non-lavoro) per ritornare ad esprimere forme di protagonismo. L’anarcosindacalismo (se dichiarato come tale) con la sua propria autonomia (da ogni stereotipo ed ideologismo di “partito”), assume quindi un ruolo strategico nell’organizzazione del conflitto.
La radicalità non è dunque elemento meramente formale, bensì questione di sostanza e non può prescindere dalla volontà (chiaramente espressa e comprensibile) di farsi intendere e capire, nell’auspicato (e finalmente salutare) sacrificio dell’autocompiacimento (autoreferenziale ed elitario) del ghetto ideologico e/o impolitico. È il coraggio di proporre elementi nuovi e sperimentali, elementi non graditi dagli schemi di qualunque ortodossia. È necessario unire protesta e proposta, promuovere un agire condiviso e plurale, capace di conquistare spazi, dosare e calibrare l’azione perché sia condivisa e condivisibile: non per “adattamento”, ma per preparare elementi più forti e decisivi di cambiamento. La radicalità non è nella rottura estemporanea, nella marginalità, nell’autocompiacimento dell’appartenenza ad una specie “altra” serrata in un recinto, ma nella determinazione (e nella preparazione) di un cambiamento qualitativamente alto (etico): radicale, appunto. In quanto ai reduci del comunismo, devono ripartire... dal basso.
Si ricomincia da qui: siamo tutti extraparlamentari. Per noi non è una novità.

Stefano d’Errico


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3. L’agonia della sinistra
di Andrea Papi

Noi comprendiamo in pieno lo stato di prostrazione e dolore in cui versa il “popolo” della sinistra istituzionale dopo aver appreso i risultati dell’ultima tornata elettorale, che l’hanno fatta sparire dal parlamento e hanno pesantemente consegnato alla destra berlusconiana e alla lega la funzione governativa della repubblica. Riusciamo perfino ad esser solidali, nonostante la scelta astensionista e le differenze abissali che ci separano. In fondo, in qualche maniera (molto lata a dir il vero), in un certo senso si può anche dire che apparteniamo alla stessa storia, più precisamente che ci siamo sempre trovati dalla stessa parte del divenire storico. Almeno in teoria e nei presupposti genetici, la parte dei più deboli, degli indifesi, degl’ultimi.
Ma siamo convinti che per comprendere appieno cosa sia successo e cosa stia succedendo, il cui significato va oltre il fatto in sé della sconfitta, bisogna trovar la forza di andare al di là dei sentimenti offesi e del crollo elettorale, alla fin fine solo superficie congiunturale di una dimensione storico-culturale ben più ampia che, ne siamo convinti, ci riguarda tutti in maniera pregnante. La lettura che ne facciamo è che finalmente si può cominciare a decifrare la fine di un percorso segnato, in realtà entrato nello stadio finale già da qualche decennio, ma che difficilmente si riusciva ad intravedere, sia per una serie di filtri più o meno ideologici, sia per resistenze di apparati persistenti, che avevano tutto l’interesse a tentar di proseguire ignorando i segnali e rifiutando di esercitare un sano spirito di critica di sé: hanno continuato con la sicurezza boriosa di sempre senza più detenere la sostanza che la poteva giustificare.
Un percorso che in verità ci sentiamo di far risalire a più di due secoli fa. Prima però di addentrarci in merito va detta una cosa che per noi riveste un’importanza di vera sostanza. È fondamentale capire che la disfatta non riguarda tanto la sinistra tout court o in quanto tale, come il ciacolare mediatico fin da subito ha trasmesso il misfatto, bensì un’idea della stessa, che la vorrebbe limitare al momento elettorale. Una convinzione artefatta, consolidatasi da lungo tempo ad opera di un togliattismo non troppo lungimirante, tutto preso dal tentativo strumentale di afferire a sé il copyright e la detenzione della tradizione e della visione della sinistra nel suo complesso. In realtà storia e tendenze della sinistra sono qualcosa di molto più ampio, complesso e senz’altro interessante della strumentazione ideologica del socialismo reale di casa nostra, che ha tentato di ridurla cercando d’immobilizzarla nelle logiche istituzionali della repubblica del “belpaese”.

Fausto Bertinotti

Marxismo e anarchismo

Bisogna risalire alla rivoluzione francese del 1789, quando prese corpo e s’impose la rivolta dei reietti che abbatté definitivamente la supremazia totale dell’antico regime aristocratico, troppo vecchio ormai e gemebondo. Da decadente come si era ridotto fu costretto a decadere dall’energia popolare infuriata, che inascoltata bussava alla porta da tantissimo tempo. Ma ciò che c’interessa veramente non è tanto che si pose fine al millenario potere aristocratico. Poteva risolversi in un semplice abbattimento di regime, com’è successo tante altre volte. Invece fu messo in moto un processo di portata epocale che cambiò per sempre l’immaginario collettivo dell’intero occidente. Il famosissimo motto che simboleggia quell’evento rivoluzionario ne riassume bene il senso: Egalité Liberté Fraternité. Non si trattò solo di togliere il potere ai potenti di turno, ma di dare vita ad una nuova qualità dell’essere società, fondata questa volta non più sulle differenze di censo di comando e di privilegi, ma sul riconoscimento reciproco della pari dignità di ogni essere umano.
Il cammino, presente in potenza per tutto il periodo dei lumi, era finalmente diventato cinetico. È di qui che ebbe avvio la sinistra. Legandosi all’eccezionale momento storico, prese il nome, non più da allora abbandonato, dalla collocazione degli scranni del parlamento rivoluzionario in cui s’insediò, appunto dal lato sinistro. Quel nome non indicava solo la postazione parlamentare, bensì simbolicamente il tipo di strada che si doveva intraprendere, cioè la volontà di realizzare la libertà, l’uguaglianza e la fratellanza universali in seno alla società, come aveva chiaramente e inequivocabilmente indicato la rivolta popolare vittoriosa.
Ma nulla era scontato né poteva esserlo. Gli accadimenti immediatamente successivi alla vittoria rinnegarono le promesse sintetizzate nel motto. Al loro posto s’instaurò una feroce forma di potere fino allora sconosciuta, la dittatura rivoluzionaria, non a caso nota come del terrore, che riproponeva nuove forme di divisione sociale, di disuguaglianza, d’imposizione e sottomissione. Le aspirazioni che avevano dato forza vincente e intransigente alla sovversione sociale, disilluse dagli esiti non previsti, erano però ancora vive più che mai ed aspettavano di poter assumere una forma coerente e congruente con quei presupposti, divenuti ormai aspirazione irrinunciabile del nuovo immaginario. Così il troncone della sinistra, che si considerava l’erede dei valori rivoluzionari, diede avvio a una serie di processi, di costruzioni, di analisi, di ipotesi, a volte contrastanti a volte divergenti, tutti protesi a cercare la strada maestra in grado di rendere operativa la società auspicata, indicata dal popolo in rivolta e fondata sulla realizzazione di libertà eguaglianza e fraternità.
È questa spinta originaria che condurrà, seppur in modo nient’affatto lineare, a diverse tendenze e scuole (le due più note e storicamente incidenti sono il marxismo e l’anarchismo) che poi diedero vita al movimento operaio e, nel suo seno, alla lotta per l’emancipazione dallo sfruttamento economico e dal potere politico, principale fine supremo cui tendere. Sempre in seno alle tensioni e alle tendenze della sinistra presero forma e corpo fondamentalmente due scuole, entrambe dedite al conclamato raggiungimento dell’emancipazione. Una libertaria, in specifico anarchica, che propugnava l’uso di strumenti di libertà non di autorità, ripudiando in particolare l’istituzione statuale, per realizzare un diffuso status sociale di tipo socialistico. L’altra autoritaria, in specifico marxista, che propugnava l’uso di mezzi d’autorità, gestiti da un’elite rivoluzionaria, per imporre il comunismo all’intero corpo sociale.
L’ala autoritaria a sua volta produsse due scuole di pensiero e d’azione, che storicamente si sono contrastate parecchio fino a sentirsi nemiche. L’una, riconducibile al filone socialdemocratico, propugnava un riformismo di penetrazione nei meccanismi di gestione dello stato borghese con l’intento dichiarato di trasformarlo fino ad edificare uno stato socialista; un’ipotesi strategica riassumibile con la formula “andata al potere”. L’altra, riconducibile al bolscevismo, che sosteneva la necessità della rivoluzione violenta per impossessarsi del potere e gestirlo con una dittatura ferrea in nome e nell’interesse del proletariato; strategia riassumibile con lo slogan “presa del potere”. (1)
All’interno di questo processo della sinistra nel suo complesso, attraverso alterne vicende che qui non è il caso di affrontare, è successo che l’ipotesi libertaria e anarchica, che durante la fase della prima internazionale ha in verità goduto di una maggioranza di adesioni riuscendo praticamente ad isolare il consiglio di Londra, in breve si è poi invece trovata minoritaria e repressa da destra e da manca ogni volta che riusciva ad ottenere risultati ragguardevoli. Alla fine della seconda guerra mondiale era completamente ridimensionata e messa ai margini, diventata ormai ininfluente nel dibattito interno alla sinistra.
Le due strategie autoritarie al contrario hanno avuto la prevalenza ed ampie possibilità di manifestarsi e sperimentare le loro ipotesi di costruzione del socialismo. Entrambe hanno fallito miseramente. Quella bolscevica, che ebbe il suo massimo fulgore come potenza militarista, è letteralmente implosa, mostrando totale incapacità sia di essere il socialismo di transizione verso il comunismo, come aveva promesso, sia di gestire se stessa attraverso l’economia di piano, che aveva preteso di rappresentare l’alternativa al capitalismo. Quella socialdemocratica, impossibilitata nei fatti a riformare le istituzioni borghesi in senso socialista, com’era nelle intenzioni dichiarate, si è trasformata in un regolatore dello stato che avrebbe dovuto cambiare, senza fra l’altro riuscirci. Esperimenti entrambi falliti, resi evanescenti dalle stesse esperienze messe in campo.
Tornando all’oggi, pensiamo di poter dire che è stato completamente frantumato un immaginario volto in origine ad una società più giusta e più equa di quella che c’è. Le potenzialità del desiderio stimolato dal sogno collettivo sono state annullate. L’utopia del “sol dell’avvenire”, rintanata a forza nella cappa mortifera delle tenaglie repressive dell’autorità costituita, è stata metamorfizzata in distopia, la parte oscura dell’utopia. Da “paradiso terrestre” a portata di mano, che doveva regalare pace e solidarietà, si è trasfigurato in incubo avvolgente, portatore assolutista di povertà, catene, censure, privilegi e infelicità diffusa. Il metaforico “colpo di stato” autoritario, impostosi all’interno del percorso della sinistra, è riuscito a uccidere nelle masse il sogno della libertà e del benessere per tutti, sostituendolo con un terrificante realismo pragmatico fatto di rinunce e accettazione forzata di tutto ciò che il sogno voleva abbattere. Da momento gioioso da vivere a momento onirico dell’inconscio.

Alfonso Pecoraro Scanio

Autentico cambiamento radicale

Di fronte al fallimento, le trionfanti forze oscure dell’autoritarismo socialista hanno dato forfait. Arbitrariamente hanno deciso che l’alternativa non è più possibile e che il sogno di una costruzione di libertà al di fuori dei canoni d’autorità, presunti realisti, non ha senso. Forse inconsapevolmente, hanno così dato alle masse, una volta prima illuse poi deluse, il messaggio che bisogna rimboccarsi le maniche, non più per costruire il nuovo al di fuori e contro il presente, bensì al suo interno accettando di farsi fagocitare e, protetti sempre da loro, cercando di ottenere il massimo ottenibile da una condizione sociale in disfacimento. Nello stesso tempo si sono dimostrati incapaci di essere protettori veri. Non essendo nata per conservare il presente ma per modificarlo, la sinistra e i suoi dirigenti non possono esser percepiti come affidabili per proteggerci governandoci.
Invitate ad essere protette nell’oggi e a non dover più sognare, giustamente le masse stanno trasferendo il loro consenso dagli inaffidabili eredi d’un ieri improponibile a chi oggi appare affidabile. In questo trasferimento dell’immaginario risiede la principale ragione sociologica del tracollo elettorale, secondo gli analisti esperti dovuto ad astensioni ed a un passaggio di voti sia al Pd sia alla Lega. Nella carta geografica politica emersa dal voto, ci sembra emergere con forza che interessi molto poco una sinistra che si propone semplicemente come rappresentante dei diritti dei più deboli in questo mondo. In questo modo il consenso che può raccogliere tende a restringersi allo zoccolo duro, che vota sempre più solo per fede e sempre meno per convinzione. La liquidità sociale dell’oggi di cui parla Bauman, che ci fa vivere sovraccarichi di ansie e incertezze, ci porta a cercare un’artificiale stanzialità dell’immoto, mentre stiamo fluendo dentro un vortice di precarietà.
Noi pensiamo che la sinistra, intesa come cultura politica del cambiamento, possa avere qualche speranza se trova la volontà di riappropriarsi degli assunti d’origine, cioè di propulsore di un autentico cambiamento radicale. Dovrebbe essere ormai chiaro però che una tale propulsione non può più passare attraverso una rinnovata riproposizione del vecchio autoritarismo socialcomunista che ha ampiamente fallito, come invece sembra vogliano fare i vari Diliberto e nostalgici della “falce e martello”. Il passaggio dalla radicalità della lotta al sistema al riformismo della lotta contro il malgoverno, chiedendo il consenso per governare al posto dei pescecani di sempre, non paga più. La sinistra non è sorta per governare l’oggi, ma per costruire un domani alternativo. La sua cultura e le sue scelte, per ritrovare la strada, dovrebbero aprirsi alle logiche e alle pratiche libertarie, che per elezione tendono a trasformare il presente non ad adattarvisi.

Andrea Papi


  1. Questa ricostruzione, necessariamente molto sintetica e discrezionale, è soprattutto interessata a identificare un senso del percorso capace di offrirci strumenti di comprensione dei processi per come si sono sviluppati.