Il mito di velocità sempre maggiori e di tempi di spostamento
sempre più brevi è uno dei motori primi di cui
si alimenta il nostro sistema di trasporto; quanto questo mito
corrisponda ad una mistificazione della realtà ai fini
della concentrazione di potere e risorse nelle mani di una minoranza
sempre più ristretta di persone è illustrato in
maniera egregia nel saggio di J. Robert Tempo rubato
(Red Edizioni, 1992).
In questo studio sul trasporto di persone nell'ambiente urbano,
l'autore mette in rilievo come le velocità maggiori si
abbiano sempre su quegli assi di comunicazione utilizzati da
persone il cui tempo "valga" di più nella gerarchia
sociale; sappiamo tutti che le vie di collegamento più
veloci sono quelle che collegano le periferie residenziali con
il centro delle città, generalmente utilizzato da attività
produttive del terziario avanzato. I lavoratori dell'industria
sono ormai condannati a spostamenti da periferia a periferia
che richiedono grossi sacrifici in termini di tempo, sia in
auto che con il mezzo pubblico. L'auto e, più in generale,
il sistema industrializzato dei trasporti, basando il proprio
consenso sulla tacita disponibilità della maggior parte
della popolazione a spostarsi gratuitamente, ha contribuito
in maniera determinante a quell'"urbanesimo concentrazionario",
che consente di concentrare attività produttive e commerciali
in pochissime mani con l'illusione dell'abbassamento dei costi,
che in realtà sono sostenuti dal pendolarismo verso il
luogo i lavoro o il centro commerciale.
Per precisare meglio quanto detto J. Robert propone di analizzare
i costi e i benefici del sistema dei trasporti industriale,
tra cui spicca l'automobile, alla luce del loro valore d'uso,
che in questo campo può essere definito come il tempo
necessario a spostarsi da un luogo all'altro. Per fare ciò
propone 5 grandezze da misurare che sono: la velocità
tecnica di un mezzo di trasporto, cioè la velocità
massima che può raggiungere; la velocità di circolazione,
che dipende dallo stato del traffico; la velocità porta
a porta da un punto all'altro dello spazio, che tiene conto
dei tempi che l'autore chiama di "non trasporto",
cioè i tempi di attesa per esempio ad una fermata dell'autobus,
o i tempi richiesti per raggiungere il parcheggio con le proprie
gambe; la velocità porta a porta a volo d'uccello che
è data dal rapporto tra la distanza a volo d'uccello
e quella realmente percorsa dal mezzo di trasporto; questa grandezza
è quella da tenere più in considerazione nella
valutazione dei costi e benefici di un sistema di trasporto
in quanto non fa sembrare un "guadagno di velocità"
il necessario allungamento delle distanze imposto dall'esigenza
di raggiungere una velocità di circolazione maggiore:
la velocità porta a porta di v.d.u. di una bicicletta
è di circa 10 km/h, mentre quella di un'automobile nel
traffico urbano è di 7 km/h; infine la velocità
generalizzata che tiene conto della quantità di lavoro
che serve ad un individuo per l'acquisto del mezzo di trasporto
di cui si serve: anche in questo caso la velocità generalizzata
della bicicletta è maggiore a quella dell'automobile.
Le soluzioni tecniche adottate dal sistema industriale dei trasporti
per risolvere il problema che esso stesso ha creato, non sono
altro che dei palliativi che al massimo consentono a qualche
privilegiato dal centro o dalla posizione abitativa (fattori
che spesso coincidono) di raggiungere una velocità di
circolazione di 30 km/h, questo però a scapito della
maggior parte degli altri abitanti della città; di fatti
una strada può essere una sutura in senso longitudinale,
ma come una frattura in senso trasversale: in questo modo tutti
gli spostamenti che devono attraversare una nuova arteria vengono
rallentati o dalla presenza di semafori o da cavalcavia che
costringono a lunghi pellegrinaggi a zig-zag. Secondo Robert
una qualsiasi arteria cittadina che permette velocità
di circolazione maggiori di 20 km/h rallenta tutti gli spostamenti
ad essa trasversali. Sarebbe molto interessante se, in previsione
della costruzione di nuovi raccordi, tangenziali, sovra o sottopassi,
anelli, etc., costruiti con il consenso di gran parte della
cittadinanza allo scopo di accellerare il tempo di percorrenza
di determinati tragitti, si riuscisse a fare uno studio delle
velocità di percorrenza sui percorsi longitudinale e
trasversali alla nuova infrastruttura viaria, ricavandone la
velocità porta a porta a v.d.u. media prima e dopo "la
cura": quasi sicuramente il risultato sarà una diminuzione
e non un aumento. Un'osservazione che spesso si sente fare rispetto
al problema degli ingorghi del traffico è che sì,
la velocità degli automezzi diminuisce, ma, dato che
il loro numero è in aumento, un risultato si è
comunque ottenuto consentendo ad un maggior numero di persone
di spostarsi: questo ragionamento considera a priori che lo
spostarsi in automobile piuttosto che fare qualcosa d'altro
sia di per sé un valore e non tiene conto che il maggior
numero di spostamenti in auto è dato dalla maggior concentrazione
di attività produttive e commerciali che il potenziamento
delle infrastrutture viarie favorisce a scapito delle piccole
imprese di produzione e distribuzione; in altre parole se vent'anni
fa trovavo tutto quello che mi serviva per la soppravvivenza
quotidiana nel raggio di qualche centinaio di metri, adesso
devo sottomertermi a lunghi tragitti in automobile verso qualche
ipermercato, praticamente accettare una perdita secca del valore
d'uso del mio tempo.
In ambito urbano quindi, se, oltre alla velocità porta
a porta a v.d.u., prendiamo in considerazione anche la velocità
generalizzata, vediamo come il risultato sia una velocità
inferiore a quella di un pedone, il che induce l'autore a porsi
la domanda se il fine del sistema di trasporti sia non tanto
l'efficacia tecnica quanto la produzione di segni. In particolare
di quel mito della velocità che può essere preso
a paradigma di quella cultura dell'incremento illimitato che
è insieme causa ed effetto di molti dei nostri problemi.
Se nel 1969 nel Amstrong arrivò sulla luna alla velocità
di 30000 Km/h, gli scioperi a Cape Canaveral mostrano come la
velocità di tre uomini dipendesse dal lavoro continuo
di altre centinaia di persone, cioè che viaggiare a velocità
elevate comporta sempre il ricorso al tempo altrui; il sistema
industriale dei trasporti, nel quale l'auto occupa ormai un
posto di primo piano ci fa dimenticare questa varietà
elementare, che per percorrere 6 Km sarà sempre necessaria
un'ora di lavoro, o delle proprie gambe o di qualche addetto
all'industria del trasporto. Scopo reale dell'industria dell'auto
è allora non tanto quello di garantire a tutti tempi
più rapidi di spostamento quanto, come enunciato all'inizio,
di garantire la concentrazione di capitali in poche mani, emarginando
dai processi decisionali dell'economia le classi subaltarne:
il libro di Robert è del 1980, tempi in cui non si parlava
ancora di post-fordismo e di lean production, ma oggi è
doveroso chiedersi se molte delle ristrutturazioni nel settore
industriale che si sono avute negli ultimi 15 anni sarebbero
state possibili senza il potenziamento della rete viaria, che
ha consentito alle grosse industrie di decentrare in tutto o
in parte la produzione appaltandone le diverse fasi a contoterzi
disposti a giocare al massacro pur di garantirsi le briciole
di una torta che, per loro, diventa sempre più inaccessibile.
Per questo motivo sarebbe opportuno opporsi a priori a qualsiasi
costruzione di nuove arterie, autostradali e cittadine, che,
promettono ai pendolari illusori risparmi di tempo (è
dei primi anni '90 la terza corsia sulla Bs-Mi, qualche veterano
ha notato dei miglioramenti nei propri tempi di spostamento?),
in realtà servono alle classi dominanti per aumentare
il proprio potere.
Lo stesso Robert cita un caso, che a prima vista non avrebbe
niente a che fare con la situazione dell'Italia, ma che sotto
questa ottica presenta similitudini inquietanti con il nostro
paese, di espropriazione del controllo dei processi economici
dalla comunità locale alle grosse multinazionali: in
seguito alla costruzione della strada Panamericana, i latifondisti
di una regione centroamericana raddoppiarono gli affitti delle
terre ai mezzadri che si rifecero risparmiando sui salari dei
braccianti assoldati tra la popolazione indigena e chiedendogli
di andare a lavorare terre più lontane dal loro luogo
di abitazione (dati gli affitti alti le terre meno redditizie
furono abbandonate), costringendoli quindi a servirsi di mezzi
di trasporto per loro carissimi; il freno posto all'estorsione
dalla distanza venne rotto dal progresso dell'industria dei
trasporti: quella regione centroamericana si chiama Chiapas,
la conoscete?
Enrico Bonfatti
Tian'anmen dieci
anni dopo
Ultimo in ordine cronologico dei "buchi neri" nella
storia della Cina, quel che è avvenuto nella notte tra
il 3 e il 4 giugno 1989 sarebbe, secondo il presidente cinese
e segretario generale del PC Jiang Zemin, "molto rumore
per nulla". Cosa rappresentano infatti per la nomenclatura
qualche migliaia di morti in un paese di un miliardo e trecento
milioni di abitanti? Ma dieci anni fa sono stati diversi milioni
di cinesi, studenti innanzitutto, poi di tutte le classi sociali,
a scendere in strada in tutte le grandi città del paese,
denunciando la corruzione, il nepotismo, il dispotismo e reclamando
la libertà e la democrazia1: 50 giorni di "esplosione
di libertà" tra il 15 aprile, data della morte di
Hu Yaobang, ex segretario generale del partito fautore di una
liberalizzazione del regime, espulso due anni prima, e la notte
tra il 3 e il 4 giugno, quando il nascente movimento democratico2
verrà soffocato nel sangue.
Il 17 aprile, dunque, l'omaggio postumo a un dirigente del PC
rimasto popolare agli occhi dei cinesi, così come era
stato per Zhou Enlai nel 19763, fungerà da pretesto a
qualche centinaio di studenti per manifestare in piazza Tian'anmen
denunciando la corruzione e chiedendo una democratizzazione
del regime. Il 22, giorno dei funerali, malgrado il divieto
di manifestare, 200.000 persone si radunano nella piazza. Il
24, gli studenti di Beida danno inizio a un boicottaggio dei
corsi a sostegno delle proprie rivendicazioni, e nonostante
il 26 il Quotidiano del Popolo lanci un avvertimento pubblicando
un editoriale che denuncia una "ribellione controrivoluzionaria"
e un "complotto contro il regime", 500.000 persone
si ritrovano il 27 in piazza Tian'anmen. Il 4 maggio, anniversario
del Movimento del 4 maggio 19194, 300.000 manifestanti sfilano
nelle strade di Pechino reclamando un "dialogo reale"
con il potere. L'indomani, Zhao Ziyang, segretario generale
del PC, si impegna in tal senso e i corsi riprendono. Ma il
13 maggio, un migliaio di studenti/esse iniziano uno sciopero
della fame nella piazza dal momento che l'annunciata apertura
del dialogo tarda a realizzarsi. Se Zhao Ziyang, infatti, favorevole
a delle riforme politiche - separazione delle funzioni del partito
da quelle del governo, indipendenza del sistema giudiziario,
democratizzazione - che, pur facendo qualche concessione, avrebbero
preservato l'essenziale ovvero avrebbero legittimato la base
di un partito comunista resa vacillante da dieci anni di Rivoluzione
Culturale5, ha la maggioranza in senso all'Ufficio Politico,
egli si scontra con il veto posto da Deng Xiaoping, la figura
tutelare che dirige nell'ombra. Il 15, ancora nessun dialogo,
dunque nessun ritiro da piazza Tian'anmen, nonostante si tratti
di una giornata storica per la Cina e per Deng Xiaoping che
ne è l'artefice: l'arrivo a Pechino del N° 1 sovietico,
venuto a normalizzare le relazioni tra "partiti fratelli"
dopo trent'anni di urti. Gorbatchev deve dunque accontentarsi
di un'improvvisata cerimonia di benvenuto all'aeroporto: per
i dirigenti cinesi è un'umiliazione in diretta davanti
alle telecamere di tutto il mondo.
Questi due giorni, il 13 e il 15 maggio, segnano una svolta
nella storia del movimento. Il rifiuto del dialogo radicalizza
gli studenti ma la perdita della faccia inflitta a Deng Xiaoping
lo convince proprio nella sua posizione di rifiuto. Il 17 maggio,
una vera e propria marea umana di un milione di persone invade
il centro di Pechino. Tutti gli strati sociali della popolazione
hanno risposto all'appello degli studenti: operai, impiegati,
imprenditori privati, giornalisti, funzionari denunciano l'affarismo
ufficiale mentre la polizia rimane stranamente invisibile. Al
vertice, il potere è diviso. Il 18 maggio all'alba, accompagnato
dal primo ministro Li Peng e da altri due membri dell'Ufficio
Politico, Hu Qili e Qiao Shi, Zhao Ziyang si reca al capezzale
degli studenti in sciopero della fame ricoverati in ospedale,
e li rassicura di considerare il loro movimento come "patriottico"
e "altamente encomiabile". In tarda mattinata, Li
Peng incontra i rappresentanti degli studenti in sciopero, tra
cui Wang Dan6 e Wuer Kaixi7. Il tentativo di dialogo fallisce
di fronte al rifiuto di qualunque compromesso da parte di Li
Peng, esacerbato dall'atteggiamento di Wuer, che non ha esitato
a interromperlo e a redarguirlo in diretta televisiva. Intanto,
mentre si manifesta in quasi tutte le città del paese,
cresce il movimento popolare di sostegno agli studenti, anche
in seno alle organizzazioni ufficiali: alcuni ufficiali dell'esercito
inviano una lettera aperta di appoggio agli studenti, il comitato
centrale della Lega della Gioventù Comunista, l'Unione
degli Scrittori e degli Artisti8, l'Unione Femminile Nazionale
inviano loro messaggi di simpatia; la Federazione Nazionale
dei Sindacati Cinesi dona loro 100.000 yuans9, i ferrovieri
trasportano gratuitamente gli studenti della provincia che si
recano a Pechino e perfino i giornali ufficiali "vogliono
dire la verità": così il Quotidiano del Popolo
del 18 maggio consacra i nove decimi della prima pagina all'agitazione
sociale, con tanto di fotografie, relegando in un angolo in
basso la conclusione della visita storica di Gorbatchev.
Doccia fredda il 19 maggio: Zho Ziyang è esautorato e
Li Peng, poco dopo mezzanotte, proclama la legge marziale a
Pechino: "L'obiettivo dei manifestanti è di rovesciare
il governo del popolo, eletto dal congresso nazionale del popolo
e di negare totalmente la dittatura democratica (N.d.R.: sic!)
del popolo". Dopo un attimo di esitazione, gli studenti
decidono malgrado tutto di restare e mobilitano la popolazione.
Il 20, i camion militari si scontrano con veri e propri sbarramenti
umani che bloccano le entrate a piazza Tian'anmen. Si assiste
a numerose scene in cui militari e civili fraternizzano. L'Unione
Autonoma degli Operai di Pechino10 lancia un appello allo sciopero
generale illimitato. Questo non avrà alcun seguito, dal
momento che "un operaio cacciato dal lavoro non ha più
né alloggio per sé e per la sua famiglia né
la minima risorsa", ma una tale sfida al partito comunista,
"incarnazione della classe operaia" appare ben più
gravida di conseguenze di una semplice contestazione studentesca.
Il 23 maggio, un milione di persone sfilano lungo via Chang'an11
al grido di "Abbasso Li Peng! Richiamate indietro le truppe!
Via la legge marziale! Difendiamo i diritti umani!" e gli
studenti fondano un "quartier generale incaricato della
difesa di piazza Tian'anmen".
Il 25 maggio Li Peng riappare in televisione e difende la decisione
di ricorrere all'esercito per "mettere fine alle manifestazioni
di Pechino" al fine di "difendere la stabilità
e l'unità". Di fronte a queste minacce gli studenti
di Pechino prendono in considerazione l'ipotesi di evacuare
piazza Tian'anmen ma si pronunciano infine, su pressione degli
studenti delle province, sempre più numerosi nella capitale,
per il proseguimento illimitato dell'occupazione e, sfidando
la legge marziale, invadono nuovamente Pechino in decine di
migliaia domenica 28, giorno in cui si tengono manifestazioni
in sostegno del movimento democratico in tutto il mondo: Stati
Uniti, Francia, Giappone, Taiwan, ecc.; a Hong-Kong, sono oltre
un milione, ovvero 1 abitante su 6. All'alba del 30 maggio,
alla presenza di diverse decine di migliaia di persone, gli
studenti erigono sulla piazza una copia di dieci metri d'altezza,
in polistirolo espanso, della statua della Libertà, ribattezzata
"dea della democrazia". È troppo per il potere,
che considera la statua come "un insulto alla dignità
nazionale e all'immagine del paese" e procede peraltro
all'arresto di tre membri dell'Unione Autonoma degli Operai
di Pechino per "associazione illegale". Sotto la pressione
congiunta degli studenti e degli operai12, verranno rilasciati
l'indomani.
Ma le autorità sono ora decise a "rimuovere il marcio".
Giornali, radio, televisione, centrale telefonica sono di nuovo
severamente controllati. Pechino è accerchiata da 200.000
soldati. Nella notte tra il 2 e il 3 giugno, un certo numero
di unità riceve l'ordine di marciare su Tian'anmen ma,
presi di mira da una folla crescente di studenti e di operai,
travolti, in qualche modo "divisi in tronconi", questi
giovani soldati, venuti dalla campagna e tenuti all'oscuro del
movimento, si vedranno costretti a ripiegare senza aver potuto
raggiungere la piazza. Tregua di breve durata: nella notte tra
il 3 e il 4 giugno, poco dopo mezzanotte, tutto precipita verso
l'orrore. Penetrando nella città in diversi punti, le
truppe convergono verso piazza Tian'anmen. Decine di carri armati
si muovono a tutta velocità lungo la via Chang'an e aprono
il fuoco "su tutto ciò che si muove". È
l'inizio dei massacri: migliaia di morti, decine di migliaia
di arresti nella capitale e in tutto il paese. Il 5 giugno,
un comunicato dell'Esercito Popolare di Liberazione, diffuso
a intervalli regolari da radio e televisione, riporta che l'ordine
di far intervenire le truppe contro la popolazione di Pechino
è stato impartito dalla commissione militare centrale
del partito comunista presieduto da Deng Xiaoping: "Vigilanza,
unità e lotta vigorosa contro i cospiratori politici,
elementi controrivoluzionari il cui scopo è di negare
la direzione del partito e il sistema socialista, e che vogliono
il crollo della repubblica popolare cinese."
"La maschera è caduta. Il re è
nudo.
Gli orpelli del comunismo di Stato non hanno potuto
nascondere questa evidenza: l'esercito del popolo ha sparato
sul popolo, il quale aveva saputo, per un momento,
concepirsi come attore autonomo.
Certo il cammino dell'emancipazione sociale
è ancora lontano ma in Cina
niente sarà più come prima."
Jean Jacques Gandini
(traduzione dal francese
di Anna Spadolini)
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