Le cose veramente primordiali in me sono i
sentimenti umani, una sorta di amore e di comprensione elementari
che provo per le persone, per tutte le persone.
Etty Hillesum
Di una vita giovane finita quasi subito, un tempo si usava
dire che fosse cara agli Dei. Gli Dei sono tutt'altro che teneri
e piuttosto egoisti, al meno dal mio punto di vista, ma chi
abbia dimestichezza con i miti può rendersene conto e
cercare magari di trarre conclusioni a sua volta da una prospettiva
meno classica. Personal-mente ritengo che sia dura da mandare
giù l'idea che chi viene annientato nel corpo e colpito
duramente e indelebilmente nello spirito sia in qualche modo
un favorito della sorte. È vero che le tragedie sono
spesso preludio a un cammino spirituale e esistenziale intenso,
ma anche una simile accellerazione psichica rende lecito il
dubbio che ci sia uno sbaglio di fondo perché chi predica
e vaticina su tanto nobilitante sofferenza e su povertà
e umiltà come grandi valori, poi prende per sé
i piani alti della vita.
Ci si sente ingannati dallo sperpero di fede che complice la
fine del millennio, pare avere rintuzzato le corna.
Se il diavolo è menzogna nessuno è più
diavolo dei preti e nessuno di loro ha una risposta da darci.
Del resto una risposta presuppone almeno una domanda vera e
poche se ne formulano di queste domande.
Risposte che non sono mai risposte perché anche le sue
domande sono aldilà di quanto generalmente è una
domanda, affiorano dalle pagine del Diario di Etty Hillesum,
una giovane ebrea di Amsterdam morta a 28 anni ad Auschwitz,
che con il suo diario lascia testimonianza altissima di un percorso
e di un intimo processo di partecipazione.
Un dire pieno e a tratti sconnesso e poi leggero ci rende partecipi
a nostra volta, e nostro malgrado scorriamo le pagine come un
breviario, un libro d'ore carico di un sognante diluvio di trascendenza
il cui significato e le cui radici sono tutte il quel primitivo,
elementare amore per tutte le persone, che Etty Hillesum non
rinnegherà mai.
Nel vagone piombato diretto ad Auschwitz ha ancora la forza
di cantare ed è il perno, la forza, il coraggio cui tutti
attingono. Non tornerà mai da Auschwitz ma nei brevi
scritti e nelle lettere c'è la traccia di quella parte
profonda dell'anima, del cuore, che lei chiamava Dio. Né
ebrea, né cristiana, né buddista ma profondamente
se stessa e radicata in un sentire così essenziale che
può spogliarsi di tutto e tranquillamente riconoscere
che si può fare a meno di ciò che crediamo sia
tutto.
Essere noi stessi è essere il mondo e il mondo forse
ha un bisogno disperato di ciò che siamo e perciò
non dobbiamo negarci né negare ciò che ci è
possibile fare. Leggere in questo modo Etty Hillesum è
avviccinarla, ma non è una figura facile, non si presta
alle parole, piuttosto le scavalca, si fa specchio di una nostalgia
così tremenda e umana che si può soltanto pronunciare
come amore.
Infatti la sua comprensione, il suo percepire così totale,
è amore. Testimone e vittima dell'olocausto lascia nei
suoi scritti, oltre al Diario ci restano diverse lettere,
una traccia di profonda e intensa originalità, una mappa
dello spirito aliena alle classificazioni, alle definizioni
alle stagnazioni a cui anche testi molto ispirati a volte non
sfuggono.
Nel Diario, dove la voce pare pacata e sconfitta insieme,
in alcuni punti, Etty Hillesum raggiunge una lucididità
così vuota a quanto si usa chiamare speranza, che ci
porta vicino al grido.
È questa lucidità sottratta alla speranza e che
non si aggruma nell'attesa a farci dire NO! Non ci è
possibile evitare di comprendere, non possiamo scappare di fronte
a un denudamento totale perché diviene uno specchio della
nostra stessa paura e della nostra stessa fragilità.
Quindi il suo non sottrarsi fino in fondo diventa il nostro
farci testimoni, atto di raccogliere questa memoria perché
non resti memoria ma ridivenga vita, diventi di nuovo comunione,
avvicinamento e avvistamento del nostro spazio inviolato.
Si può essere timidi di fronte alla sopraffazione ma
"la nascita di un'autentica autonomia interiore è
un lungo e doloroso processo: è la presa di coscienza
che per te non esiste alcun aiuto o appoggio o rifugio presso
gli altri, mai. Che gli altri sono altrettanto insicuri, deboli
e indifesi", pag. 68
E più sotto "Sei sempre rimandata a te stessa."
La giovane donna che tra non molto verrà deportata, ha
trovato in sè il raccoglimento per guardare con malinconia
ma integralmente ciò che a lei come a tanti si prospetta
e se capisce, se sa, che la vita non può essere semplificata
né imprigionata, sa anche essere altrettanto vero che
"... semplice potresti essere tu ...", pag. 69
E quì cominciamo a intuire la vastità straordinaria
di quel Diario che solo dopo 50 anni arriverà
a noi con l'inconfondibile impronta di ciò che è
raro.
Etty Hillesum ha la grazia inerme di ciò che è
grande. Quell'innocenza può far piangere o farsi respingere
da chi non può sostenere il sentimento dell'ombra che
è il limite tra possibile e impossibile. Possibile in
quanto consapevoli e quindi tutti spesi nell'essere e impossibile
in quanto soggetti che sono comunque in relazione col mondo.
Se il mondo è ostile o se si fa nemico come rispondere
al mondo? Quale giustizia chiedere e a chi? E se la pietas è
morta a quale volto guardare che sia ancora un volto e non una
maschera?
Etty Hillesum pare sottrarsi volontariamente, davanti alla sopraffazione,
al giudizio sui carnefici. Il suo sguardo è impietoso,
vede la parte ferita del carnefice e la parte crudele della
vittima, vede da dentro.
Non salva e non condanna, sospende il criterio giudicante, rifiuta
di usare la bilancia, di far capo alla giustizia bendata che
non può restituire a nessuno ciò che hanno perduto
e cioè la loro umanità, il loro essere autoritratto
di Dio. In qualche modo la giovane ebrea di Amsterdam è
"l'idiota" di Dostoevskij e con lo scrittore russo,
che tramite il principe Myskin racconta la scena del condannato
a morte che viene portato al patibolo, potrebbe dire "Ancora
una eternità da vivere... tre vie da attraversare...
dopo questa prima, la seconda, dopo la seconda, la terza..."
La sua giustizia, così come per Myskin, non è
più uno spartiacque ma è com passione: attraversare
il dolore fino a sentire la radice di ogni dolore.
È solo così che può dire ciò che
Dio è: la tua parte profonda ma anche la parte di tutti
e di tutto e la bellezza inestirpabile che può sopraffarci
ovunque, in ogni strada, angolo, terra, in una frase, una parola,
un gesto e ancora in noi stessi.
Il muro dietro cui l'umanità si rifugia è caduto
dentro i suoi occhi e quello che ora vede è una piaga
immensa, ma anche un bene immenso e purtroppo per tutti anche
una confusione immensa. Non dice che non c'è il male,
sa che c'è e che la annienterà come molti altri,
ma al male risponde con l'innocenza che è il rifiuto
del male estremo: l'odio. Nel meno conosciuto dei Vangeli, quello
dell'apostolo Tommaso, è detto: "A chi bestemmia
il Padre sarà perdonato - E a chi bestemmia il Figlio
sarà perdonato - A chi bestemmia la INNOCENTESPIRITUALITÀ
non si perdonerà nè in terra nè in cielo."
L'innocenza di cui Etty Hillesum è portatrice, quella
che versa negli altri, che dispiega a ogni incontro, è
tutta in questi versetti; nel suo essere innocente e inerme
c'è una totale presenza.
Annota senza amarezza: "Bene, io accetto questa nuova certezza:
vogliono il nostro totale annientamento. Ora, lo so. Non darò
più fastidio con le mie paure, non sarò amareggiata
se altri non capiranno cos'è in gioco per noi ebrei.
Una sicurezza non sarà corrosa o indebolita dall'altra."
Continuo a lavorare e a vivere con la stessa convinzione e trovo
la vita ugualmente ricca di significato, anche se non ho quasi
più il coraggio di dirlo quando mi trovo in compagnia.",
Pag. 138. Continuare a vivere e a lavorare come se avesse davanti
"ancora una eternità da vivere".
Cos'è questo? Come non chiederselo o fingere, come di
solito fingiamo, che solo pazzia può essere un tale sentimento.
Il fingere è la più grande delle paure, è
un rifugio dalle mura così spesse che non un alito di
vita può passare. È facile essere in questo modo,
è ovvio, ma è terribile e intollerabilmente disumano.
È la negazione di quanto a troppi piace chiamare bene.
Ma il bene è la cosa più strana che si possa arrivare
a conoscere, è quel: "Chi cerca non smetta di cercare
finchè non trova e quando troverà resterà
sconvolto, farà cose meravigliose e regnerà sul
tutto." (Dal Vangelo dell'apostolo Tommaso).
"In una vita c'è posto per tutto"
"So tutto, tutto, in ogni momento".
(Diario - Pag. 136/137)

Dubito che Dostoevskji potesse immaginare che a qualcuno sarebbe
toccato un abisso simile e che sarebbe arrivato un tempo, proprio
nella civile Europa, dove umanità e barbarie vivendo
fianco a fianco avrebbero devastato anche le intelligenze piu
lucide. Adesso possiamo affermare che una intelligenza che non
sia sensibile non vale niente, è un meccanismo che spinge
alla follia, che rende marcio anche ciò che è
acerbo.
Etty né angelo né demone, rimane vicino a chi
è meno difeso, meno consapevole e per farlo impara a
lasciar perdere la paura. A volte l'infinita paura che alcuni
provano, il loro terrore espresso o inespresso, sfiniscono in
noi la stessa paura, la fanno cessare. Questo essere toccati
dal mondo è una benedizione, è il nostro dialogo
con la luce. Ogni dialogo con la luce è poi un parlare
con l'ombra. Le ombre, in noi, sono arcane; sono l'ostacolo
e il raggiungimento. Le ferite che si aprono in questo avanzare
sono l'accesso al Divino senza intermediari e ogni sofferenza
è il primo vivere a occhi aperti.
Non essere vigliacchi è farsi quotidianamente dialogo
con la luce.
Non farsi spostare è rifiutarsi al gioco dell'apparire
che gli altri pretendono da noi. Chi abbraccia completamente
è abbracciato, chi usa definizioni e ideologie crea l'inferno.
La sofferenza che Etty Hillesum trova non è stata cercata
ma non è rifiutata. La usa per vedere in tutti il dolore
che fa impazzire perché è violando la norma della
finzione che prende forma la grazia. E infatti se la sofferenza
è toccata nell'attimo in cui accade, prima che si cristallizi,
permette di riappropriarsi dentro degli opposti e di ricomporsi,
Non essere spostati da ciò che ci accade è questo:
vivere come se ci bruciassimo le mani. È qualcosa di
importante far sì che la sofferenza non si nasconda in
noi, perché solo se brucerà e gelerà noi
presenti, l'avremo compresa. "So tutto, tutto, in ogni
momento." Non è che questo.
Mai si dovrebbe confinare la vita di qualcuno nell'enumerazione
di ciò che gli è stato tolto. Spogliare altri
della loro umanità è spogliarli di quanto hanno
potuto amare ed è non capire che l'unica nudità
vera è nell'amore.
Quello che non si può togliere a nessuno è lì
e essere insensibili a questo è essere totalmente insensibili.
A tal proposito il trattamento che le donne hanno subito per
millenni partendo proprio dal dato di fatto che è stato
considerato immondizia il loro sentire-amare, la dice lunga
sul tipo di in-sensibilità dominante. Il Diario di Etty
è una spogliazione dopo la pubblica umiliazione, il pubblico
obbrobrio, il pubblico rifiuto che è anche il rifiuto,
da parte di chi rifiuta, della propria paura. Non ci è
dato conoscere gli ultimi mesi di vita di Etty ad Auschwitz,
né è possibile immaginarli. Con rispetto mi fermo
davanti alla certezza che i particolari della realtà
dei campi non li conosceva, anche se voci circolavano sulla
disumanità del trattamento (dell'annientamento sapevano).
Si affidava a parole belle e fragili in cui ogni giorno lasciava
un granello di polvere per rimanere ultima. Sola com'era.
In occidente chiamiamo questo: perdere. Troppo temiamo l'umiliazione
per saper ascoltare e non esserci ascoltati ci è costato
molto di più dell'umiliazione: moriamo la nostra morte
ogni giorno.
Essere ottimisti è non aver motivi per esserlo. Essere
chi ama è non avere motivi per amare, è andare
comunque fidandoci non degli altri/altre ma di noi. È
anche sapere che "la gente non vuol riconoscere che a un
certo punto non si può più fare, ma soltanto essere
e accettare", pag. 247; o ancora "tutto avviene secondo
un ritmo più profondo che si dovrebbe insegnare ad ascoltare,
è la cosa più importante che si può imparare
in questa vita.", pag. 254
Capita di vedere a volte, che di fronte alla sofferenza interi
sistemi costruiti di valori, indietreggiano. In questo nostro
presente è così. Si lascia solo chi soffre perché
osiamo dire che lo merita, ma è un grande torto. Essere
toccati dalla miseria, è essere troppo toccati dalla
vita e chi si rifiuta alla vita si desensibilizza anche in modo
sofisticato. Sostituire la vita con la realtà, con quella
che diciamo realtà, è il trucco più usato.
È un alibi per nascondere l'inadeguatezza e la paura.
In ultima analisi e disonestà. E non attenzione. Questa
è la giustizia bendata che rifiuta Etty Hillesum ed è
la giustizia di chi rifiuta di sapere il proprio e l'altrui
dolore. Questa giustizia è un contenitore che ci imprigiona
e ci nega tutti ed è il più grande inganno con
cui ci hanno tartassato testa e cuore. Quello che più
di tutto ci è negato da un simile sistema è la
nostra ispirazione e la nostra integrità. Ci spaccano
e trovano il buono e il cattivo ma non chi ce li ha messi. Pertanto
la situazione è che i più deboli e i meno privilegiati
finiscono con il conoscere il lato duro della giustizia, la
sua implacabilità con chi sbaglia o si presume abbia
sbagliato, senza avere i mezzi adeguati per una difesa, mezzi
che invece ha chi facendo parte di quel sistema che fra le tante
cose amministrate, amministra anche l'apparato giudiziario,
può usufruire di complicità e benefici ad altri
interdetti. Un simile sistema si riproduce inevitabilmente anche
se apparentemente viene sconfitto perché è la
cultura che lo permea a sopravvivergli. È la stessa cultura
che può, dopo essere stata complice e accondiscendente
con i torturatori e gli assasini che erano al potere, bandirli
o condannarli, se non sono già scappati, usando il metodo
della mostrificazione, cioè il più facile degli
esorcismi che consiste nel lasciare che prima facciano di tutto
indisturbati e poi quando non è più possibile
far altro, intervenire e fermarli, ma senza toccare una virgola
tra quello che non va nell'apparato che li ha prodotti. La colpa
è di gente che ha perso la testa e non di un sistema
che può vendere e comprare tutto e non può ammettere
vengano messi in discussione seriamente i cardini su cui poggia
la sua autorità e legittimazione. I ribelli vengono uccisi
e fatti sparire e i mostriciattoli legittimi delegittimati per
abuso di Potere e congelati nella memoria in attesa di riutilizzarli.
Quello che può rassicurare non andrebbe mai cercato,
perché inganna. Per questo è più facile
che chi cammina da solo senza appoggiarsi a niente trovi il
filo interiore che lo guida all'essere e alla "perenne
riserva, che mi aiuterà a vivere senza stentare troppo.",
Pag. 107
Julius Spier, amico e maestro di Etty, fondatore della psicochirologia
e allievo di Jung, dopo aver letto il diario dirà alla
giovane allieva che ora è sicuro che non potrà
succederle nulla. Intuiva quanto ci fosse di raro in quelle
pagine e a quale processo di trasformazione fossero dovute.
Le parole sono fatte più d'ombra che di luce, perché
il linguaggio è umano ed è un mezzo per indagare
le nostre oscurità, i nodi e il potenziale che abbiamo,
ma proprio per questo a volte la luce che da lì traspare,
quell'improvviso accadere di luce, ferisce. Allora qualcosa
erompe, ci raggiunge, sfigura le nostre sicurezze, affonda le
nostre pretese sulla vita.
È così, senza avvertimenti che la vita ci attrae,
con le sue cartoline dal paradiso a cui possiamo rispondere
o no, ma non ci permettono di rimanere mummificati. Il guscio
del dolore si spacca e il dolore non è più l'idea
del dolore ma quella forza che sprigionandosi costringe all'intensità
e poi alla libertà. È il dolore oltre la sofferenza
e chiede tutto: perdersi interamente e trovarsi interamente.
Dovremmo non dimenticare che "soltanto le emozioni non
vissute... possono sopprimerci" (Alice Miller), soltanto
il non vivere crea la morte. Scappare da qualcosa è scappare
da noi e comporta un non attraversamento di noi che alla fine
è letale. La libertà richiede talento e coraggio
e dedizione: talento di vivere e coraggio di guardare. L'unico
pericolo che corriamo, pare dire Etty Hillesum, è non
credere in noi.
"È dunque così che vivono
gli uomini:
usano gli altri per farsi convincere
di qualcosa in cui in fondo non credono;
cercano negli altri uno strumento per
coprire la propria voce interiore."
(Diario - Pag. 226 - 227)

La voce interiore non si trova facilmente. Anche chi l'ha trovata,
può averla solo sfiorata e poi persa. È la voce
silenziosa che non conosce l'ambizione dell'orgoglio ed è
connotata soltanto dalla naturalezza. È una voce che
ha già rischiato tutto e non chiede niente ma si cala
in sè come per mettere radici e scompare e riappare toccando
le corde della guarigione, sanando ciò che non potrebbe
mai ricomporsi né essere riattraversato e creato di nuovo.
È senza vanità questa voce e sa solo quanto è
necessario. Quando la vanità sparisce non diventiamo
piccoli, intuiamo che non c'é differenza tra mente e
cuore e nel cuore-mente non c'è sottrarsi nè sottrazione
possibile. Imparare a non sentire unilateralmente vuol dire
non porsi un limite, non porre in noi un limite e perciò
fare spazio, quello spazio vuoto necessario all'amore. La vita
per cui non si deve più pagare tributi è questa,
è quel "lasciare che le cose si compiano in me (noi)".
Pag. 230
"... lasciatemi essere il cuore
pensante della baracca ..."
(Diario - Pag. 239)
Senza limitatezza il cuore diventa eloquente e quell'eloquenza
è il silenzio dove libertà, sentimento e altruismo
si incontrano. Se non siamo liberi fatalmente diamo solo catene,
ma se siamo liberi siamo esseri preziosi. Per questo è
necessario essere sensibili e non avere capogiri davanti all'inconsueto.
Dovremmo sempre ricordare che non saremo amati per i dettagli
compromessi e nemmeno per gli atteggiamenti, ma per la nostra
integrità, il coraggio, l'onestà, l'amore e la
nudità che ci riportano a noi.
Spogliarsi di tutto e morire a tutto è non finire. Questi
li chiamo eroi.
Nadia Agustoni
Le citazioni nel testo sono dal Diario Etty
Hillesum, edizioni Adelphi. Indico per comodità quasi
sempre la pagina, ma dove (pochi casi non l'ho fatto è
perché quanto è detto si sussegue nel diario nella
stessa pagina). Altre citazioni dall'Idiota di Dostoevskji ,
in pratica, la stessa citazione è ripetuta nel secondo
caso solo a metà. Infine già segnalata Alice Miller
da Il bambino incompiuto, edizione Garzanti.
Illustrano l'articolo alcune bambole
esposte ad una mostra in corso a Gerusalemme, nel Museo di Yad
Vashem, in cui sono esposte bambole e giocattoli fortunosamente
costruiti (e trovati) nei lager nazisti.
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