Perché in Italia c'è l'albo
dei giornalisti? A chi mai è venuta l'idea di schedare
chi scrive? Una gran bella idea se ci pensiamo un po': facciamo
l'esame a chi vuole esercitare la prima delle libertà,
quindi commissioni, programmi, temi da fare in un certo modo,
libri da scrivere, libri da consigliare, corsi, esami, raccomandazioni,
restituzione di favori; costruiamo un elenco dei promossi e, una
volta promossi, in riga e ben allineati. Insomma perché
e da chi l'idea della tessera?
Nel primo editoriale del 1850 di Civiltà Cattolica
(la rivista dei gesuiti istituita nel 1850 per volere di Pio IX)
si legge: "per insegnar grammatica ai putti ci vogliono non
so quanti anni di stage e quanti brevetti di capacità;
ma a timoneggiare la pubblica opinione basta... basta che? io
non saprei definire il minimum della capacità richiesta
per essere giornalista, in quanto se per impossibile potesse esercitarsi
questo mestiere senza saper leggere e scrivere, l'essere analfabeta
non ne sarebbe per certo un impedimento".
"Ed è cosa così indifferente" scrive la
rivista in un editoriale del 1856, "che sia onesto o malvagio,
dotto od ignorante colui che ogni mattina manda in giro per tutta
Europa dodici, sedici, venti colonne, che attossicate vi porteranno
la morte? Oh se premesse davvero l'educazione del popolo, allora
sì che costoro dovrebbero subire un esame che a più
d'uno farebbe passare il ruzzo di sputar sentenze".
L'istituzione di un sistema che selezioni coloro che possono scrivere
sulla stampa periodica, è nei programmi politici dei gesuiti.
"Il giornalismo non ha nessuna garanzia" scrive ancora
Civiltà Cattolica il 4 dicembre 1883: "Mentre
ad insegnar l'abbiccì in una scoletta di bambinelli si
vogliono studi lunghi, esami, difficili e costose patenti; per
fondare una gazzetta, ossia piantar cattedra di filosofia, diritto,
storia, scienze naturali, d'ogni cosa insomma, ed influire nei
destini d'uno Stato basta che il cittadino sia maggiore d'età
e goda del libero esercizio dei diritti civili. Quindi l'avvocato
senza clienti, il professore senza scolari, il medico senza ammalati,
il bocciato agli esami di laurea, l'impresario fallito, l'impiegato
a spasso e tutta siffatta roba che non ha nulla da perdere e nulla
da guadagnare, trova sempre spalancata la porta del giornalismo".
E ancora nel 1913: "Il peggio è che la professione
di giornalista è libera nel suo esercizio da qualunque
impaccio, non richiedendosi né prova d'idoneità,
né abilitazione, né garanzie di moralità,
Insomma di tanti esami e patenti, la stampa n'è affatto
immune. In nome del popolo sovrano ogni educatore deve possedere
il suo certificato in carta bollata, dal dotto universitario al
sottomaestro di villaggio. N'è fornita perfino la suora
che vigila sui marmocchi nei giardini d'infanzia; solo il grande
pulpito della pubblicità è libero; qualunque mestatore
o farabutto può salirvi in veste da profeta per esprimere
la sua opinione".
Ideologia di vertice
"Con l'istituzione dell'Albo professionale" scriverà
Ermanno Amicucci, il proponente della legge che istituisce Ordine
e Scuola di giornalismo, futuro Segretario Generale del Sindacato
Nazionale Giornalisti, ultimo direttore del Corriere della
Sera dell'era fascista, "il Fascismo ha risolto questo
problema: che usurpatori non autorizzati s'impadroniscano d'un
potere. Non sarà più possibile d'ora innanzi fare
del giornalismo, l'agognato refugium peccatorum, il comodo asilo
di tutti i profughi, il ricorrevo di molti spostati; per esercitare
la professione di giornalista, a norma delle disposizioni contenute
nel regolamento per l'Albo, occorrerà possedere ben determinati
titoli culturali e morali".
Art. 7 legge 31 dicembre 1925, n. 2307: "È istituito
un ordine dei giornalisti che avrà le sue sedi nelle
città ove esiste corte d'appello".
L'albo risponde a un'ideologia di vertice, di controllo, di
comando, di pianificazione quindi, che i fascisti accolgano
l'idea dei gesuiti, non fa certo meraviglia, anzi è la
conferma che un'organizzazione dall'alto non può rinunciare
a un tale controllo.
Con la caduta del fascismo, la neonata democrazia avrebbe dovuto
abolire l'albo, metterlo fra i tristi ricordi della follia totalitaria:
quelli da far studiare ai ragazzi per alimentare la memoria
storica.
Ma gli obiettivi politici della nuova classe dirigente, erano
altri. Come cancellare un tale strumento di potere? Un veloce
maquillage e voilà, il gioco è fatto. I giuristi,
quelli che vivono all'ombra della sedia del principe, si misero
al lavoro cambiando alcune parole. Così l'art. 4 del
regio decreto del 26 febbraio 1928, n. 384: "L'albo dei
giornalisti è composto di tre elenchi, uno dei professionisti,
l'altro di praticanti, il terzo di pubblicisti" diventò
l'art. 1 della legge repubblicana del 3 febbraio 1963, n. 69:
"È istituito l'ordine dei giornalisti. A esso appartengono
i giornalisti professionisti e i pubblicisti, iscritti nei rispettivi
elenchi dell'albo". E ancora:
Regio decreto 26 febbraio 1928, a. 1: "Presso ogni sindacato
regionale fascista dei giornalisti esistente nel regno è
istituito l'albo professionale per i giornalisti. I giornalisti
che siano residenti nelle colonie, sono iscritti nell'albo professionale
di Roma".
Legge repubblicana del 3 febbraio 1963, n. 69, a. 26: "Presso
ogni Consiglio dell'Ordine regionale o interregionale è
istituito l'albo dei giornalisti. I giornalisti che abbiano
la loro abituale residenza fuori del territorio della Repubblica
sono iscritti nell'albo di Roma".
Ecco fatto: tutto come prima.
Pesi e contrappesi
"Albi di giornalisti!" ha detto Luigi Einaudi, "Idea
da pedanti, da falsi professori, da giornalisti mancati, da
gente vogliosa di impedire agli altri di pensare con la propria
testa. L'albo è un comico non senso, è immorale
perché tende a porre un limite a quel che limiti non
ha e non deve avere, alla libera espressione del pensiero".
Arnaldo Mussolini, suo fratello, Rocco e Amicucci vollero il
vertice di controllo dell'organizzazione giornalistica al Ministero.
La legge repubblicana del 3 febbraio 1963, n. 69, dispone: "È
istituito, con sede presso il Ministero di Grazia e Giustizia,
il Consiglio nazionale dell'Ordine dei giornalisti"; "Il
Ministro per la grazia e giustizia esercita l'alta vigilanza
sui Consigli dell'Ordine".
Una questione di legittimità costituzionale in merito
alle attribuzioni del Ministro di grazia e giustizia sull'Ordine,
è stata dichiarata inammissibile dalla Corte costituzionale
(sentenza del 23 marzo 1968, n. 11).
Ritorniamo sul problema: non si sa mai che ci sfugga qualcosa.
Si può giustificare l'Ordine dei giornalisti in un sistema
democratico?
Può continuare in democrazia un istituto voluto da un
regime totalitario perché, con quello, perfettamente
logico, necessario?
Se un istituto risponde a un'organizzazione dall'alto (fascista,
cattolica), come giustificarlo in un'organizzazione dal basso
(democratica, pluralista)?
Come si può giustificare un Ordine dove logicamente non
può esserci che disordine?
Una organizzazione sociale dove ognuno può dire ciò
che pensa non può che essere disordinata. "L'agitazione
e l'instabilità" ha scritto, "sono naturali
nelle repubbliche democratiche".
Il sistema democratico vuole ordine fra i soggetti pubblici
attraverso un meccanismo di pesi e contrappesi, di checks
and balances, cioè di controlli incrociati dove la
libera stampa funziona da controllore principale, da cane da
guardia della democrazia; e naturale disordine fra i soggetti
privati. In Italia, vige ancora la formula inversa. Ordine fra
i cittadini, tenuti in soggezione da una scomposta miriade di
leggi; e disordine fra i soggetti pubblici, slegati dall'elettore
perché così vogliono le nostre regole legate al
passato.
In merito all'Ordine dei giornalisti, cosa ne pensa la Corte
costituzionale?
"La legge istitutiva dell'Ordine", ha detto il giudice
che doveva ripulire l'ordinamento dalle invenzioni fasciste,
"disciplina l'esercizio professionale giornalistico e non
l'uso del giornale come mezzo di manifestazione del pensiero,
sicché, esso non tocca il diritto di manifestare liberamente
il pensiero che l'articolo 21 della Costituzione riconosce a
tutti" (sentenza n. 11 del 1968). Neanche un ubriaco scriverebbe
un concetto così scombinato: da una parte l'esercizio
professionale dall'altra l'uso del giornale.
Se l'Ordine dei giornalisti non ha alcuna legittimazione democratica;
se la sua istituzione è storicamente e logicamente fascista,
quale giustificazione danno, a quali argomentazioni affidano
la propria difesa i vertici dell'Ordine stesso? Le argomentazioni
sono di questo tenore: "L'Ordine significa il riconoscimento
giuridico della professione di giornalista. L'esame di Stato
è prescritto dall'articolo 33 della Costituzione. Senza
esami e senza titolo chi lavora nelle redazioni si riduce a
essere un impiegato o un mestierante. Senza la legge istitutiva
dell'Ordine verrebbe meno, inoltre, l'obbligatorietà
giuridica di osservare regole etiche".
Primo: sono argomentazioni già sentite. "Il Sindacato
Nazionale Fascista dei Giornalisti si propone di tutelare gli
interessi morali e materiali dei professionisti della categoria".
Secondo: l'art. 33 della Costituzione al comma 5 dice: "È
prescritto un esame di Stato per l'ammissione ai vari ordini
e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l'abilitazione
all'esercizio professionale". Non dice altro. Dal testo
della dichiarazione, detta e scritta in più occasioni,
sembra che la Costituzione legittimi l'Ordine.
Terzo: "l'obbligatorietà giuridica di osservare
regole etiche", risponde solo a un'ideologia totalizzante;
è un ossimoro, cioè un serpente logico che si
mangia la coda, del tipo libertà obbligatoria. "La
libertà di stampa" dichiarò infatti il Duce,
al primo Congresso del Sindacato Nazionale Fascista dei giornalisti
in Campidoglio nel gennaio 1924, "non è soltanto
un diritto, è un dovere".
L'Ordine, insomma, è a tutela della moralità e
professionalità del giornalista.
"L'Ordine dei giornalisti" dicono i vertici istituzionali
dell'Ordine "è a garanzia dell'indipendenza".
Secondo il rapporto del maggio 1994 della organizzazione privata
americana Freedom House sulla libertà di stampa nel mondo,
l'Italia figura all'ultimo posto tra i paesi industrializzati
a causa dell'intreccio fra media, potere economico e potere
politico.
Mettere i giornalisti davanti al fenomeno Tangentopoli è
come sparare a un morto: dove erano i giornalisti mentre il
sistema imputridiva? Cosa scrivevano quando tutti sapevano tutto?
In un sistema democratico il giornalista controlla tutti. In
Italia tutti controllano i giornalisti.
E veniamo, per chiudere il cerchio, ai circoli della stampa.
"Ciascun Sindacato regionale fascista" scrive l'on.
Amicucci "ha istituito uno o più Circoli della Stampa,
luoghi di riunione in cui i giornalisti raccolgono intorno a
sé la parte più eletta del mondo intellettuale
della città".
E così ancora oggi. "L'episodio più vergognoso
dell'intera vicenda Tortora è forse rappresentato dall'accorrere
della Napoli bene al Circolo della Stampa per la presentazione
del libro Gianni il bello, autobiografia di Giovanni
Melluso (uno dei pentiti autoaccusatosi di traffico di droga
per poter accusare Tortora) dettata da questo ineffabile personaggio
a una signora, congiunta di un alto magistrato. Attorno alla
depositaria della preziosa narrazione fecero ressa magistrati,
consorti dei medesimi, direttori di giornali, uomini di mondo
e di affari, cortigiani vari".
"I Circoli della Stampa" scrisse l'on. Ermanno Amicucci,
"hanno una funzione ricreativa e culturale".
Rinaldo Boggiani
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