Parte della ragione che mi porta a scrivere
di mezzi di comunicazione è l'interesse che nutro per l'insieme
della cultura intellettuale. Di questa, la parte più facile
da studiare sono proprio i media. Escono tutti i giorni. Rendono
possibile un'investigazione sistematica. Si possono confrontare
le versioni di oggi con quelle di ieri. Si trovano le prove di
come l'insieme è strutturato, e dei fattori in gioco.
Studio i media come qualsiasi istituzione che voglio capire. Faccio
domande sulla struttura interna. Cerco di sapere qualcosa sul
loro posizionamento rispetto alla società: come si relazionano
ad altri sistemi di potere e di autorità? Quando sono fortunato,
trovo materiale interno al sistema dell'informazione che spiega
come il tutto funziona (è una specie di sistema dottrinale).
Non parlo dei resoconti forniti dalle pubbliche relazioni, ma
di ciò che i direttori di quel sistema si dicono tra loro:
c'è molta documentazione interessante al riguardo.
Raccolta l'informazione sulla natura dei media, li si studia come
uno scienziato studierebbe una molecola complessa. Si guarda la
struttura, e si fanno ipotesi circa il prodotto di tale struttura.
Poi si investiga il prodotto effettivo, e si osserva se e quanto
sia conforme alle ipotesi. Il lavoro di analisi dei media si accontenta
in genere di quest'ultima parte: cerca di studiare attentamente
il prodotto per quello che è, verificandone la conformità
a idee preconfezionate circa la struttura e la natura dei media.
Bèh, che trovi? Primo, che ci sono media diversi, con ruoli
diversi. Hollywood è intrattenimento, le soap operas, etc.,
nonché la maggioranza dei giornali e delle riviste negli
Stati Uniti (la stragrande maggioranza), dirigono la massa del
pubblico.
Poi ci sono i mezzi d'informazione d'élite, quelli con
le risorse maggiori, che disegnano lo schema entro il quale si
muovono tutti gli altri. Il New York Times e la CBS, quel
livello lì. Il loro bacino d'utenza è tra i privilegiati.
Chi legge il New York Times è benestante, fa parte
di quella che viene chiamata la classe politica, ed è attivamente
coinvolto nel sistema politico. Sono generalmente dirigenti di
qualcosa. Possono essere dirigenti politici, dirigenti economici,
dirigenti accademici (come i professori universitari), o altri
giornalisti, impegnati nell'organizzare il pensiero della gente
e il loro modo di vedere le cose.
I media d'élite disegnano lo schema entro cui operano gli
altri. Seguendo l'Associated Press, che macina un flusso continuo
di notizie, si legge ogni giorno, a metà pomeriggio, una
"Nota agli Editori" che comincia così: "Il
New York Times di domani avrà le seguenti storie
in prima pagina." Lo scopo è questo: se l'editore
di un giornale locale non ha le risorse per capire quali siano
le notizie rilevanti, o non vuole pensarci, quella "Nota"
gli dice quali notizie stampare, nei pochi spazi che il giornale
non dedica alla cronaca locale o a divertire i lettori. Sono le
storie che trovano spazio perché il New York Times
dice che è di queste che dovremo interessarci domani. Il
nostro editore di provincia dovrà più o meno adeguarsi,
perché non ha molto altro in termini di risorse. Se esce
da questa linea, se dà spazio a storie non gradite alla
stampa nazionale, verranno presto a farglielo notare. Ci sono
molti modi in cui i giochi di potere possono spingerti a tornare
in linea. Se cerchi di spezzare lo stampo, non durerai a lungo.
È uno schema che funziona abbastanza bene, ed è
comprensibile in quanto riflesso dalle strutture del potere.
I mezzi di comunicazione veramente di massa cercano sostanzialmente
di divertire la gente (to divert: sviare).
Che facciano altro! Non diano noie a noi (che organizziamo). Che
si interessino di sport. Che tutti si strappino i capelli per
le partite, per gli scandali sessuali, per le personalità
e i loro problemi, cose così. Qualsiasi cosa, purché
non seria. La roba seria è per i grandi. Ci pensiamo "Noi".
I
rapporti con il potere
Come funzionano i media d'élite, quelli che decidono
l'Ordine del Giorno? Il New York Times e la CBS, per
esempio. Beh, prima di tutto, sono grosse imprese, con alti
margini di profitto. La maggior parte di loro è collegata
ad altre imprese, molto più grandi, come General Electric,
Westinghouse, e simili, che a volte sono direttamente proprietarie
di mezzi d'informazione. Qui siamo in cima alla struttura di
potere dell'economia privata, che è una struttura tirannica.
Le Corporations funzionano come tirannie gerarchiche
controllate dall'alto. Se non ti piace quello che fanno, ti
allontanano. I media maggiori sono una parte di quel sistema.
Qual è la situazione istituzionale? Più o meno
la stessa. I media interagiscono e si relazionano con gli altri
centri di potere: il governo, le altre Corporations,
le università. Se sei un reporter con una storia da scrivere
sul sud-est asiatico o sull'Africa, o qualcosa del genere, ti
manderanno alla grande università, dove un esperto ti
dirà cosa scrivere. Oppure dovrai andare presso una fondazione,
come la Brookings Institute o l'American Enterprise Institute,
e là ti diranno quali parole scegliere. Queste istituzioni
funzionano in modo simile ai media.
Anche le università, negli Stati Uniti, non sono istituzioni
indipendenti. Possono esserci individui indipendenti sparsi
al loro interno, ma questo è vero anche per i media.
Ed è generalmente vero per le imprese. È vero
anche per le dittature, se è per questo. Ma l'istituzione
in sé è parassita. Dipende da fonti di supporto
esterne e quelle fonti, cioè il capitale privato, i fondi
delle grandi imprese, e il governo (tanto intrinsecamente connesso
con il potere delle Corporations da non poterlo quasi
distinguere), delimitano il campo entro cui può operare
l'università. Chi ci lavora e non si adatta alla struttura,
e non l'accetta e non l'interiorizza (non puoi funzionare davvero
se non la interiorizzi e non "credi"); chi non fa
questo viene generalmente tolto di mezzo, a partire dall'asilo
nido. C'è una varietà di sistemi di filtri per
liberarsi di gente che rompe le scatole e pensa in modo non-dipendente.
Chi è stato in un'università americana sa che
il sistema educativo è molto impegnato nel promuovere
la conformità e l'obbedienza, al di fuori delle quali
lo studente viene trattato come un disturbo. Sono filtri che
lasciano passare individui che onestamente (non mentono) interiorizzano
il punto di vista del sistema di potere in cui vengono formati.
Le università d'élite, come Harvard o Princeton,
per esempio, lavorano molto sulla socializzazione. Buona parte
di ciò che avviene là dentro insegna le buone
maniere: come comportarsi come un membro delle classi agiate,
come pensare i pensieri giusti, e così via.
George Orwell scrisse La fattoria degli animali a metà
degli anni '40. Era una satira sull'Unione Sovietica, uno stato
totalitario. Un successone. Piacque a tutti. Poi si scopre che
Orwell scrisse un'introduzione a La fattoria degli animali,
soppressa a suo tempo, e pubblicata solo trent'anni dopo. Qualcuno
l'aveva ritrovata tra i suoi manoscritti. L'introduzione trattava
la questione de "La Censura Letteraria in Inghilterra"
e diceva che ovviamente il racconto ridicolizzava l'Unione Sovietica
e la sua struttura totalitaria. Ma spiegava che in Inghilterra
le cose non andavano molto diversamente. Non abbiamo addosso
il KGB, ma il risultato è simile. Individui con idee
indipendenti, o che pensano i pensieri sbagliati, vengono tagliati
fuori.
Dice poco, due frasi appena, sulla struttura istituzionale.
Chiede: perché succede questo? Ebbene: primo, perché
la stampa è proprietà di persone facoltose che
vogliono che solo certe notizie arrivino al pubblico. L'altra
cosa che dice è che, attraversando il sistema educativo
dell'élite, frequentando le giuste scuole a Oxford, si
impara che ci sono cose delle quali non sta bene parlare, e
pensieri che non è appropriato avere in testa. È
il ruolo socializzante degli istituti d'élite e se non
ti ci adatti, in genere, sei fuori. Quelle due frasi di Orwell
spiegano bene la situazione.
Quando critichi i media e dici, guardate, Anthony Lewis (editorialista
del New York Times) ha detto questo e quest'altro, si
arrabbiano molto. Dicono, e sono sinceri, frasi come "nessuno
viene a dirmi come scrivere. Scrivo quello che mi pare. Tutto
quest'affare di presunte pressioni e costrizioni è ridicolo
perché nessuno esercita pressioni su di me." Il
che è perfettamente vero, ma il punto è che questi
editorialisti non sarebbero al loro posto, se non avessero dimostrato
in passato di non aver bisogno di suggeritori: scrivono già
da soli le cose "giuste". Lo stesso è vero
dei cattedratici universitari per le facoltà più
ideologiche. Hanno attraversato il sistema di socializzazione.
Bene, abbiamo un'idea della struttura di quel sistema. A cosa
somiglieranno le notizie? È quasi ovvio. Prendiamo il
New York Times. È un'impresa che vende un prodotto.
Il prodotto è l'audience. Non guadagnano vendendo giornali.
Sono felici di metterli in rete sul world wide web, gratuitamente.
In realtà ci perdono dalla vendita diretta. È
il pubblico il loro prodotto. Il prodotto d'élite è
il pubblico dei privilegiati, come gli editori stessi, coloro
che nella società prendono le decisioni ad alti livelli.
Il prodotto va venduto al mercato e il mercato, beninteso, è
la pubblicità (ovvero, le altre imprese). Che si tratti
di televisioni o giornali, o altro, è il pubblico che
viene messo in vendita. Società private vendono pubblico
ad altre società private. Nel caso dei media d'élite,
si tratta di grossi affari.
Cosa possiamo aspettarci? Cosa possiamo dedurre, dato l'insieme
dei fattori in gioco? Quale potrebbe essere l'ipotesi zero,
la congettura plausibile senza ulteriori speculazioni? L'ipotesi
ovvia è che il prodotto dei mezzi di comunicazione, ciò
che vi appare e ciò che ne scompare, e il modo in cui
vengono presentati i fatti, rifletteranno gli interessi dei
venditori e dei compratori, delle istituzioni, e dei sistemi
di potere che li contornano. Se non fosse così, sarebbe
una specie di miracolo.
Qui viene il lavoro difficile. Ti chiedi se funziona davvero
come previsto. E potrai giudicare da solo. Ci sono studi su
questa ipotesi che hanno superato le verifiche più rigorose
che si possano immaginare, e tuttora rimangono un punto di riferimento.
Non si trovano quasi, nel campo delle scienze sociali , studi
che supportino con altrettanta forza conclusioni diverse, e
ciò non può sorprendere: sarebbe inspiegabile
se l'ipotesi non reggesse, date le forze in gioco.
A che servono le relazioni pubbliche
Il passo successivo porta a scoprire che l'intero argomento
è tabù. Presso le grandi scuole di giornalismo,
e nelle più quotate facoltà di scienze della comunicazione,
questi argomenti non fanno nemmeno parte del programma di studi.
Anche questo rientra nelle previsioni. Tenendo a mente la struttura
istituzionale è facile capire che quei signori non desiderino
esporsi. Di nuovo, non si tratta di una censura consapevole.
Semplicemente non si raggiungono certe posizioni, se non ci
si lascia "socializzare", se non ci si addestra a
rimuovere alcuni pensieri. Perché se ti vengono certi
pensieri, non puoi stare lì. Possiamo quindi stabilire
un secondo ordine di previsioni, che dice che il primo ordine
di previsioni non è ammesso nelle discussioni.
L'ultima cosa da analizzare è la cornice dottrinale in
cui si muove il tutto. Ci si chiede se i dirigenti di alto livello
nell'informazione, nella pubblicità, nelle facoltà
di scienze politiche, etc., abbiano o meno un'idea di come dovrebbero
andare le cose. Quando parlano in pubblico, sono parole e fuffa.
Ma quando si scrivono tra loro, cosa dicono?
Abbiamo tre correnti, alla base, da studiare. La prima è
l'industria delle pubbliche relazioni, l'industria di propaganda
del grande business. Cosa dicono i dirigenti delle PR? In secondo
luogo si investigano gli "intellettuali pubblici",
i grandi pensatori, quelli che scrivono gli editoriali d'opinione,
o grossi libri sulla natura della democrazia, e simili. Cosa
dicono? La terza corrente da osservare è il filone accademico,
con speciale attenzione a quella parte delle scienze politiche
che si occupa di informazione e comunicazione.
Seguiamo queste tre correnti, vediamo cosa dicono, leggiamo
ciò che i personaggi più rappresentativi del sistema
dottrinale scrivono a questo proposito. Dicono tutti (cito,
in parte) che la gente comune è "ignorante, estranea
e impicciona." Dobbiamo lasciarli fuori dall'arena pubblica
perché sono troppo stupidi, e se s'immischiano creano
guai. La loro deve rimanere una posizione di "spettatori",
mai di "partecipanti". Permettiamo loro di andare
a votare ogni tanto, di scegliere uno di noi intelligentoni.
Ma poi che se ne tornino a casa a guardare la partita, o quello
che sia. Gli "ignoranti estranei e impiccioni" devono
stare a guardare, non partecipare. A partecipare penseranno
gli "uomini responsabili".
Non ti chiedi mai che cosa fa di te un "uomo responsabile"
e di un altro un carcerato. Eppure la risposta è semplice.
È perché sei stato obbediente e subordinato al
potere, e l'altro forse è stato indipendente. Naturalmente,
non te la poni neanche, la domanda.
Così abbiamo gli intelligentoni, cui spetta di condurre
il gioco, e gli altri, cui spetta starne fuori, e non dovremmo
soccombere (cito un articolo accademico) ai "dogmatismi
democratici che dipingono l'uomo come il miglior giudice del
proprio interesse". Non lo è. È un pessimo
giudice del proprio interesse, ed è per questo che ci
penseremo noi. Per il suo bene.
Come si è evoluto tutto questo? La storia è interessante.
Determinante fu la prima guerra mondiale, un vero punto di svolta.
Cambiò la posizione degli Stati Uniti nel mondo. Nel
18esimo secolo gli USA erano già la nazione più
ricca al mondo. La qualità della vita, la salute e la
longevità furono raggiunte dalle classi agiate in Inghilterra
solo agli inizi del 20simo secolo, per non parlare del resto
del mondo. Gli USA erano straordinariamente ricchi, con vantaggi
enormi, e, alla fine del 19esimo secolo, avevano di gran lunga
l'economia più potente al mondo. Il loro ruolo sulla
scena internazionale, al contrario, rimaneva marginale. Il potere
statunitense si estendeva ai Caraibi e ad una parte del Pacifico,
ma non molto di più.
Durante la prima guerra mondiale, i rapporti di forza cambiarono.
Dopo la seconda, gli Stati Uniti cominciarono più o meno
a governare il mondo. Ma già dopo la prima vi fu un cambiamento
significativo, e gli USA divennero creditori di quelle nazioni
delle quali erano stati, prima, debitori. Non era ancora enorme,
come la Gran Bretagna, ma cominciava ad assumere un ruolo primario
tra i grandi protagonisti della scena mondiale. Fu un grosso
cambiamento, e non fu l'unico.
Durante la prima guerra mondiale, per la prima volta, vi fu
una propaganda di stato organizzata. Gli inglesi avevano un
Ministero dell'Informazione, e ne avevano un gran bisogno perché
dovevano ad ogni costo trascinare gli USA in guerra, pena una
probabile sconfitta. Il Ministero dell'Informazione era attivo
soprattutto nel diffondere propaganda, incluse grossolane falsificazioni
su presunte atrocità degli "Unni", e così
via. Miravano agli intellettuali d'oltreoceano, presumendo (a
ragione) che fossero i più suggestionabili e i più
inclini a credere alla propaganda. Sono anche coloro che l'avrebbero
poi disseminata nell'informazione. I documenti del Ministero
Britannico dell'Informazione (molti dei quali sono oggi accessibili)
spiegano che l'obbiettivo era il controllo del pensiero del
pianeta, un obbiettivo minore, ma soprattutto degli Stati Uniti.
Non si curavano molto di ciò che la gente potesse pensare
in India.
Negli USA, del resto, trovarono una controparte. Woodrow Wilson
fu eletto nel 1916 con una piattaforma anti-interventista. Gli
USA erano una nazione pacifista. Lo era sempre stata. La gente
non vuole andare a combattere guerre all'estero. Il paese era
contro la guerra e Wilson fu eletto proprio per la sua posizione
contro l'intervento. "Pace senza vittoria" era il
suo slogan. Ma aveva intenzione di andare in guerra. Si poneva
quindi la questione: come trasformare un popolo pacifista in
un branco di fanatici anti-tedeschi che bramino poi di andare
a uccidere i tedeschi? Ci vuole propaganda. Venne così
istituita la prima e in fondo l'unica grande agenzia per la
propaganda di stato nella storia degli USA: La Commissione per
l'Informazione Pubblica (bel nome orwelliano
), detta anche
Commissione Creel, dal nome di chi la guidava. Il compito di
questa commissione era quello di gettare la popolazione in un'isteria
nazionalistica e belligerante. I risultati superarono le aspettative.
Nel giro di pochi mesi ci fu una crescente isteria bellica e
gli Stati Uniti poterono entrare in guerra.
Molti osservatori rimasero impressionati dal successo dell'operazione.
Un osservatore impressionato, e questo ha qualche rilevanza
per ciò che accadde poi, fu Hitler. Nel Mein Kampf
conclude, non a torto, che la Germania perse la prima guerra
perché perse la battaglia della propaganda. Non era stata
in grado nemmeno di cominciare a competere con la schiacciante
propaganda britannica e americana. In futuro, scrisse Hitler,
anche la Germania avrebbe istituito un sistema di propaganda,
e così avvenne durante la seconda guerra mondiale. Sul
fronte americano, a rimanere fortemente impressionata dai risultati
della propaganda fu la classe imprenditoriale. Avevano un problema
serio in quei tempi. La nazione diventava formalmente più
democratica. C'era molta più gente che poteva votare,
per esempio. Il paese si arricchiva, un numero crescente di
soggetti partecipava alla vita economica, aumentava il flusso
dell'immigrazione, e così via.
La fabbrica del consenso
Che fare? Diventa difficile gestire il paese come un circolo
privato. Quindi, ovviamente, bisogna controllare il pensiero
della gente. C'erano specialisti di pubbliche relazioni, a quel
tempo, ma nessuna vera e propria industria di pubbliche relazioni.
Si poteva trovare qualcuno per abbellire l'immagine pubblica
di un Rockefeller, o cose del genere, ma questa gigantesca industria
delle pubbliche relazioni, che è un'invenzione americana
e un'industria mostruosa, nacque solo dopo la prima guerra.
Ai livelli più alti di questa industria nascente troviamo
i membri della Commissione Creel. Il più influente tra
loro fu Edward Bernays, anche lui membro della Commissione.
Bernays scrisse un libro, in quegli anni, intitolato Propaganda.
Il termine "propaganda", sia detto per inciso, non
aveva in quegli anni un'accezione negativa. Fu durante la seconda
guerra mondiale che la parola divenne tabù, perché
associata alla Germania e a tutte quelle cose brutte. Prima
di allora significava solo informazione, o qualcosa del genere.
Propaganda, il libro di Bernays, esce nel 1925, e comincia
spiegando la lezione della Grande Guerra. Il sistema istituito
durante la guerra, e il lavoro della Commissione Creel, dimostrano,
scrive, che è possibile "irreggimentare la mente
del pubblico così come l'esercito irreggimenta il corpo."
Queste nuove tecniche d'"irreggimentazione" delle
menti, prosegue, sono a disposizione della minoranza intelligente
per assicurarsi che i bifolchi restino al loro posto. Ora possiamo
farlo perché abbiamo messo a punto la tecnica.
Questo è il manuale fondamentale dell'industria delle
Relazioni Pubbliche.
Un altro membro della Commissione Creel fu Walter Lippmann,
la figura più autorevole del giornalismo americano per
oltre mezzo secolo (e intendo il giornalismo serio, le teste
pensanti). Scrisse, fra l'altro, dei Saggi Progressisti sulla
Democrazia , "progressisti" perché considerati
tali negli anni '20. Di nuovo, vediamo applicata molto esplicitamente
la lezione del lavoro di propaganda. Dice che c'è un'arte
nuova in democrazia, chiamata la fabbricazione del consenso.
È una sua frase. Edward Herman e io l'abbiamo usata come
titolo di un nostro libro (La Fabbrica del Consenso),
ma viene da Lippmann. Che spiega questa nuova arte: fabbricando
il consenso, è possibile aggirare il fatto che, formalmente,
il diritto di voto venga esteso a molti. Possiamo rendere questo
fattore irrilevante, perché ora siamo in grado di fabbricare
il consenso. Siamo in grado di strutturare le loro scelte e
i loro atteggiamenti, in modo che facciano sempre ciò
che noi diciamo loro di fare, anche se formalmente potrebbero
partecipare. Così avremo una reale democrazia. Funzionerà
a dovere.
È questa la lezione dell'agenzia per la propaganda.
Le facoltà accademiche di scienze sociali e di scienze
politiche nascono allo stesso modo. Il fondatore di quella che
viene chiamata scienza delle comunicazioni è Harold Glasswell.
La sua opera più importante fu la pubblicazione di uno
saggio sulla propaganda. È lui che ha scritto, molto
apertamente, le frasi che citavo prima, tra cui l'esortazione
a non soccombere ai dogmatismi democratici. È tutta scienza
politica accademica ufficiale.
Anche i partiti politici impararono dall'esperienza di guerra,
e in special modo i partiti conservatori britannici. I loro
primi documenti interni, resi pubblici solo negli ultimi anni,
dimostrano che anch'essi riconobbero i successi del Ministero
Britannico dell'Informazione. Si rendevano conto che il sistema
andava democratizzandosi e che non sarebbe stato più
un club privato per soli uomini. Giunsero quindi alla conclusione
che la politica doveva diventare guerra politica, applicando
i meccanismi della propaganda, che era riuscita così
bene, in guerra, a manipolare i pensieri della gente.
Questo è l'aspetto dottrinale, che coincide con la struttura
istituzionale. Rafforza l'ipotesi su come funzionerebbe il sistema.
E le conferme abbondano. Ma queste conclusioni, poi, non trovano
accesso al dibattimento pubblico. Il materiale che ho citato
appartiene alla letteratura ufficiale, ormai, ma è accessibile
solo a chi è all'interno del sistema. Nessuno, all'università,
ti fa leggere i classici su come si controlla l'opinione pubblica.
Così come nessuno ti farà leggere le parole che
James Madison pronunciò davanti l'assemblea costituente,
spiegando che il sistema nascente doveva avere come obbiettivo
principale "proteggere la minoranza opulenta dalla maggioranza,"
e andava progettato per quella funzione. È il fondamento
dell'assetto costitutivo della maggiore forza planetaria, per
questo non lo studia nessuno. Anche un ricercatore universitario
americano faticherebbe a rintracciarlo.
Questo è il disegno, a grandi linee, di quello che vedo
del sistema: le sue strutture istituzionali, le dottrine che
lo sostengono, e i risultati che ne conseguono. C'è un'altra
parte, diretta agli "ignoranti impiccioni." Consiste
nell'utilizzare la diversione, il divertimento (to divert:
sviare), in un modo o nell'altro. Da questo, penso, è
facile prevedere quello che ci si può attendere.
Noam Chomsky
(traduzione di Stefano Guizzi; titolo originale "What
Makes Mainstream Media Mainstream" da un colloquio allo
Z. Media Institute, giugno 1997)
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