Negli anni venti e trenta del Novecento numerosi anarchici
italiani in esilio, individualmente o collettivamente, concepirono
piani per attentare alla vita di Benito Mussolini, nella
convinzione che la sua uccisione potesse produrre la crisi
del regime fascista, dato lo stretto legame esistente tra
il fascismo e la personalità carismatica del suo
capo. Si trattava da un lato di scelte che implicavano una
dose di coraggio inusitato in chi si assumeva personalmente
il compito di sopprimere il tiranno, dal momento che tali
missioni erano pressoché suicide, dall'altro di azioni
molto rischiose sotto il profilo politico: mancare il bersaglio
poteva significare come avvenne poi effettivamente
contribuire inintenzionalmente ad accrescere il consenso
per lo Stato totalitario.
Dei progetti anarchici di sopprimere Mussolini solamente
uno fu materialmente portato a termine, quello di Gino Lucetti,
sebbene la bomba che il libertario carrarino scagliò
contro la macchina del duce l'11 settembre 1926 nei pressi
di Porta Pia a Roma esplose quando l'auto si era già
portata a distanza di sicurezza, non provocando a Mussolini
se non un bello spavento. In altri due casi gli attentatori,
Michele Schirru e Angelo Pellegrino Sbardellotto, furono
arrestati prima di compiere l'attentato: il Tribunale Speciale,
servendosi delle leggi eccezionali introdotte dallo Stato
fascista nel novembre del 1926 dopo "l'attentato Zamboni"
(1), che reintroducevano in Italia la pena di morte abrogata
nel 1888, estendendola agli attentatori contro il capo del
governo, e che equiparavano l'intenzione di commettere il
reato al reato compiuto, li condannarono a morte mediante
fucilazione.
Il caso di Sbardellotto è, dei tre sopra citati,
quello meno indagato e più oscuro nel suo retroterra
sotto il profilo della ricostruzione storica, sebbene anche
per gli altri due rimangano ancor oggi dettagli non chiariti.
Enzo Magrì ha recentemente licenziato alle stampe
un libro nel quale sono ricostruite le vicende di quattro
tra i primi cinque individui, su un totale di 32, fatti
fucilare dal Tribunale Speciale per la difesa dello Stato
(Enzo Magrì, I fucilati di Mussolini, Baldini
& Castoldi, Milano 2000, pp. 305, £ 32.000): Michele
della Maggiora, Domenico Bovone che fu fucilato la
stessa mattina di Sbardellotto , Angelo Sbardellotto
e Ugo Traviglia. L'autore ha evitato di prendere in considerazione
Michele Schirru, del cui caso si era occupato, con esiti
in verità non del tutto felici, il giornalista Giuseppe
Fiori alcuni anni fa (Giuseppe Fiori, L'anarchico Schirru
condannato a morte per l'intenzione di uccidere Mussolini,
Mondadori, Milano 1983). Il merito precipuo del lavoro di
Magrì consiste indubbiamente nell'aver riportato
alla luce alcuni importanti episodi della lotta antifascista
di cui ormai quasi nessuno si era più occupato negli
ultimi decenni. Occorre però subito precisare che,
almeno per quanto riguarda la parte dedicata a Sbardellotto
(pp. 59-106), la ricerca, pur arricchendo di particolari
e di dettagli poco conosciuti la versione già nota
dei fatti e delle ipotesi, non sembra chiarire i punti oscuri
di questa vicenda. La ricostruzione di Magrì, insomma,
pare più che altro un aggiornamento di quelle di
Cesare Rossi e Giovanni Artieri, gli autori che nei primi
anni dopo la fine della guerra si erano soffermati più
di altri sul caso Sbardellotto rifacendosi ai medesimi documenti
di polizia consultati recentemente dal giornalista (2).
Nonostante il lavoro di Magrì sia discutibile anche
sotto altri aspetti, appare semplicistica, per esempio,
la ricostruzione psicologica di Sbardellotto, bollato come
fanatico e invasato, e quantomeno opinabile la qualifica
di terrorista che l'autore attribuisce all'anarchico veneto
- la parte debole di questa come delle precedenti versioni
del caso risiede nel fatto che, ancor più di Rossi
e Artieri, Magrì basa molta parte della sua ricerca,
considerandolo un documento storico attendibile, sulla confessione
scritta da Sbardellotto nel carcere romano di Regina Coeli
due giorni dopo l'arresto: in essa l'anarchico indicò
al giudice istruttore, al quale inviò il suo memoriale,
i complici del progetto, fornendo una minuziosa ricostruzione
della sua vicenda nei mesi precedenti l'arresto. Sia chiaro:
è possibile, anzi probabile, che questo memoriale
sia veritiero; tuttavia, esso è suffragato da elementi
troppo scarsi per poter attribuire un grado di certezza
quasi assoluta, come vedremo più avanti, a tutte
le cose raccontate dall'arrestato. Una storia del mancato
attentato di Angelo Sbardellotto deve distinguere a mio
avviso i fatti certi da quelli probabili, e questi ultimi
dalle congetture o dalle ipotesi, più o meno verosimili.
I
fatti certi
Alle ore 15.30 del 4 giugno 1932 a Roma, nei pressi di
Piazza Venezia, davanti al bar Mondiale, un individuo venne
fermato per accertamenti dall'agente di polizia Paolo Ciancolini,
affiancato subito dopo dal collega Anselmo Solfanelli. Il
passaporto che il fermato consegnò loro era intestato
ad Angelo Galvini, cittadinanza elvetica, residente a Bellinzona,
di professione commerciante. Poiché l'individuo in
questione risultò privo del documento di soggiorno,
venne portato dai militi nel vicino Palazzo Buonaparte dove
fu sottoposto ad una perquisizione, nella quale gli furono
trovate nascoste una pistola (Mab 6.35) e due bombe: una
fiaschetta d'acciaio con miccia contenente 80 grammi di
cheddite, con un raggio d'azione di cinquanta metri, e un
tubo di ferro piegato ad arco, anch'esso con miccia, contenente
400 grammi di dinamite, con un raggio d'azione di cento
metri. Nelle tasche gli vennero inoltre trovate 385 lire,
100 marchi e una scatola di fiammiferi svedesi. Smascherato,
l'individuo dichiarò le sue vere generalità
ed intenzioni: si chiamava Angelo Pellegrino Sbardellotto,
era italiano ed era giunto in Italia con l'intenzione di
uccidere Mussolini. Tradotto immediatamente in questura,
fu interrogato; due giorni più tardi scrisse il memoriale
già ricordato, nel quale accusava come suoi complici:
Vittorio Cantarelli, anarchico italiano residente a Bruxelles,
al quale per primo avrebbe parlato dei suoi propositi tirannicidi
e che avrebbe fatto da tramite per i successivi contatti;
Emidio Recchioni, anarchico italiano residente a Londra
- individuo che a Sbardellotto sarebbe stato presentato
sotto lo pseudonimo di "Nemo" e il cui riconoscimento
sarebbe avvenuto durante l'interrogatorio tramite foto -,
il quale gli avrebbe dato i soldi necessari alle spese di
viaggio e al suo mantenimento nei mesi precedenti l'arresto;
un altro individuo di cui non conosceva il nome - individuato
anch'egli più tardi tramite foto in Alberto Tarchiani,
uno dei responsabili del movimento Giustizia e Libertà
-, il quale lo avrebbe rifornito del passaporto falso e,
per così dire, del nècessaire da viaggio.
Angelo Sbardellotto era già noto alla polizia fascista,
e anche questo è un fatto certo. Quintogenito di
undici figli, era nato il 1 agosto 1907 a Villa di Villa,
frazione di Mel (BL), piccolo paese costruito su una collina
posta sulla riva sinistra del Piave, tra Feltre e Belluno.
Nei primi mesi del 1924, ancora minorenne, aveva seguito
nell'emigrazione il padre, Luigi: prima in Francia, poi
in Lussemburgo, infine in Belgio, lavorando come minatore
e come operaio meccanico. È questo certamente il
periodo in cui il suo antifascismo maturò nel senso
di una entusiastica adesione all'ideale anarchico. Nel 1928
la madre, con l'ausilio della maestra, gli scrisse per convincerlo
a tornare in Italia, dato che era arrivata la cartolina
per la chiamata alle armi. Angelo rispose con una lettera
assai polemica nei confronti dell'esercito e del fascismo,
dichiarando la sua fede anarchica e affermando di volere
sottrarsi alla coercizione militare. La madre, Giovanna,
cattolica osservante e di mentalità tradizionalista,
trasalì quando la maestra le lesse la risposta del
figlio, e chiese consiglio al parroco del paese. Uno di
questi due il parroco o la maestra pensò
bene di segnalare alle autorità il contenuto della
lettera: così si ricava da una informativa del 1929
spedita a Roma al casellario politico centrale dal prefetto
di Belluno. Fu allora che Sbardellotto venne iscritto nel
registro dei renitenti alla leva e nella Rubrica di Frontiera,
schedato come anarchico (3), segnalato tra i 270 antifascisti
italiani più pericolosi del Belgio e sottoposto a
sorveglianza a Seraing, in provincia di Liegi (Belgio),
dove risiedeva (in una pensione sita in Rue de Marai 91)
e dove lavorava (nella miniera di carbone di Ougrer Marihai).
Gli ambienti degli antifascisti italiani in esilio all'estero,
dei "fuoriusciti", come venivano chiamati allora,
pullulavano di spie, di confidenti della polizia politica
fascista, di infiltrati: per gli anarchici, come per gli
altri gruppi antifascisti, era difficile sottrarsi ai tentacoli
dell'Ovra, come ha documentato recentemente lo storico Mimmo
Franzinelli in una sua poderosa ricerca (4).
Dopo la confessione o presunta tale si svolse una rapida
istruttoria di due soli giorni (11-13 giugno 1932), condotta
dal procuratore generale Vincenzo Balzamo. La mattina del
16 (dalle 9.00 alle 11.15) nella famosa aula della IV sezione
del palazzo di giustizia di Roma, Sbardellotto venne rapidamente
e sommariamente giudicato colpevole dei reati ascrittigli
dal Tribunale Speciale presieduto da Guido Cristini e condannato
a morte. Nelle ore successive alla lettura della sentenza
egli evitò di presentare la domanda di grazia. "Ma
che pentito e pentito, io rimpiango solo di non averlo ammazzato",
pare abbia detto all'avvocato d'ufficio che lo aveva invitato
ad elemosinare pietà al duce. All'alba del giorno
seguente, alle ore 5.45 del 17 giugno, dopo aver rifiutato
il prete, Sbardellotto fu fucilato a Forte Bretta da un
drappello di militi capitanati da Armando Giuia.
Angelo Sbardellotto
Testimonianze, ipotesi, ricordi
Il punto più intricato di tutta questa vicenda
è, come abbiamo già ricordato, la confessione
di Sbardellotto. Anzitutto, non è chiaro il motivo
che spinse l'anarchico veneto a rilasciarla. Magrì,
ad esempio, che riporta correttamente diverse ipotesi, ritiene
in ogni modo che tra di esse la più probabile sia
quella di un crollo psicologico causato dal fallimento della
missione (5). Di diverso avviso fu invece Aldo Garosci
la cui versione dei fatti è comunque intrisa di inesattezze
, che scrisse: "Sotto tortura, Sbardellotto raccontò,
in parte, la storia di alcuni suoi tentativi" (6).
Va rilevato che le due ipotesi non si escludono vicendevolmente;
né ci è dato di sapere se la polizia fascista
abbia fatto qualche promessa all'arrestato per indurlo a
"cantare". In ogni caso, il rifiuto della grazia
fu un atto di grande coraggio, tale da riscattare eventuali
- e comunque umani e comprensibili - precedenti cedimenti.
Per quanto riguarda la confessione, lo stato attuale delle
conoscenze non consente di esprimere un giudizio certo;
tuttavia, si possono fare alcune precisazioni e considerazioni.
Da una parte, si può notare ad esempio come la versione
di Sbardellotto sia molto particolareggiata, anche troppo
precisa nelle date degli incontri con i presunti complici
e di tutti gli spostamenti nei mesi precedenti l'arresto.
L'anarchico veneto raccontò che quello nel quale
era stato arrestato non era che l'ultimo di tre tentativi:
per ben tre volte egli aveva varcato la frontiera ed era
sceso sino a Roma nella speranza di sopprimere il tiranno.
Sostenne di aver confidato al compagno Vittorio Cantarelli
(7) i suoi propositi tirannicidi in una riunione anarchica
tenutasi a Bruxelles il 18 o il 19 marzo 1931 presso un
albergo della Gran Palace, nella quale si era discusso della
raccolta di fondi a favore di due anarchici italiani espulsi
dal Belgio e delle iniziative per ricordare l'eroico sacrificio
di Michele Schirru. Cantarelli, preso in parola il giovane,
avrebbe fatto da tramite per il primo incontro di Sbardellotto
con Emidio Recchioni (8), che l'anarchico veneto avrebbe
conosciuto con lo pseudonimo da questi usato, "Nemo":
l'incontro sarebbe avvenuto, sempre a Bruxelles, nel luglio
del 1931. Una volta accertatosi dell'affidabilità
della persona, "Nemo" avrebbe proposto a Sbardellotto,
come data ideale per compiere l'attentato a Mussolini, il
28 ottobre, nono anniversario della marcia su Roma.
Il secondo incontro tra Sbardellotto e "Nemo"
si sarebbe svolto invece a Parigi dal 21 al 24 ottobre.
A questo appuntamento avrebbe presenziato anche un altro
individuo, di età compresa tra i trenta e i trentacinque
anni, stempiato, capelli brizzolati, miope, con occhiali
a stanghetta. Dalla conversazione Sbardellotto avrebbe capito
che l'individuo in questione aveva abitato a Roma, nei pressi
di Piazza Navona, e che aveva svolto un mestiere che aveva
a che vedere con la tipografia. Mentre "Nemo"
gli avrebbe dato oltre 2000 franchi, lo sconosciuto lo avrebbe
rifornito di passaporto falso, bombe, pistola e una valigetta.
Durante i giorni di detenzione precedenti al processo, Sbardellotto
riconobbe - o credette di riconoscere, o fu indotto a riconoscere
- nella foto di Alberto Tarchiani (9) l'enigmatico personaggio.
Per motivi di spazio e anche per il fatto che si tratterebbe
di ripetere cose già ricordate recentemente (10),
non ripercorreremo qui per esteso gli spostamenti e gli
incontri di Sbardellotto tra il 24 ottobre 1931 e il 4 giugno
1932 (giorno dell'arresto), così almeno come risulta
dal suo memoriale. Ci basterà dire che i due tentativi
precedenti a quello dell'arresto, sarebbero avvenuti a Roma
rispettivamente il 28 ottobre 1931, in occasione dei festeggiamenti
del nono anniversario della marcia su Roma, e il 1 aprile.
In entrambe queste due occasioni, come nella terza - Sbardellotto
aveva cercato di colpire anche il giorno precedente l'arresto
- l'anarchico di Mel sostenne di non essere riuscito ad
avvicinarsi al duce, a causa dell'imponente servizio di
sicurezza, nei luoghi in cui Mussolini presenziava a manifestazioni
e commemorazioni pubbliche; affermò, inoltre, che
erano stati vani anche gli appostamenti più o meno
casuali di fronte ai luoghi solitamente frequentati dal
dittatore. Nei mesi a cavallo tra un tentativo e l'altro,
disse di essersi frequentemente spostato tra diverse nazioni
europee (Belgio, Lussemburgo, Olanda, Germania, Francia),
per evitare di essere localizzato e sorvegliato dalla polizia.
Asserì di essere stato quasi sempre ospitato da compagni:
Enrico Zambonini e Hem Day a Bruxelles, Ernesto Bruna a
Dusseldorf. Gli incontri con Tarchiani e Recchioni sarebbero
avvenuti a Parigi nei giorni precedenti e seguenti ad ogni
tentativo.
Nei giorni e nei mesi successivi al processo, il regime
fascista cercò in ogni modo di infamare l'anziano
anarchico marchigiano e il militante di Giustizia e Libertà,
accusandoli di essere i mandanti di Sbardellotto, e, attraverso
questa operazione, tentò di screditare tutta l'opposizione
antifascista in esilio, accusandola di terrorismo. Entrambi
gli interessati respinsero con decisione le accuse. Tarchiani
inviò tra l'altro il 19 giugno del 1932 una lettera
alla "Libertà" di Parigi, che era l'organo
della Concentrazione antifascista (un raggruppamento che
comprendeva i partiti "aventiniani" e la L.I.D.U.,
la Lega Italiana per i Diritti dell'Uomo), nella quale asserì
che Sbardellotto era stato imboccato ad arte dai suoi inquisitori:
cosicché le "rivelazioni" dovevano essere
ritenute nulla più che vaneggiamenti della polizia
e delle magistratura fasciste (11). Tarchiani, nella missiva,
sostenne in particolare di essere in grado di documentare
ampiamente il fatto che nei giorni di uno dei supposti incontri
con Sbardellotto egli si trovava in Germania (12). Nel dopoguerra,
divenuto ambasciatore italiano negli Stati Uniti, l'ex membro
di G.L. si guardò bene dal ritornare su una vicenda
che certo non poteva giovare alla sua immagine: un passato
di cospiratore, per di più dinamitardo, non è
certo un curriculum ideale per un diplomatico. Recchioni,
dal canto suo, non solo negò il fatto ma pure vinse
una causa per diffamazione contro il "Daily Telegraph",
che aveva sostenuto senza prove la tesi della sua responsabilità,
ottenendo dal quotidiano inglese 1.177 sterline di risarcimento.
Le reticenze dei due erano in ogni caso obbligate: se innocenti,
perché ingiustamente coinvolti in una vicenda che
non li riguardava; se colpevoli, perché era loro
diritto difendersi e soprattutto evitare di compromettere
la lotta antifascista presente e futura.
In assenza di documenti che attestino con sicurezza le responsabilità
nel tentativo tirannicida di Sbardellotto da parte di Recchioni
e di Tarchiani, altro non si può fare se non capire,
quantomeno, la verosimiglianza o meno dell'accusa mossa
dall'anarchico veneto nel suo memoriale. Sotto questo profilo,
servendosi di alcuni dati storici e di alcune recenti ricerche,
si può senz'altro affermare che l'ipotesi di un coinvolgimento
dei due ha quantomeno un saldo fondamento logico, storico
e politico.
Emidio Recchioni, anarchico di vecchia data, già
amico e collaboratore di Malatesta, morì in un ospedale
di Neully, nei pressi di Parigi, nel 1934, in seguito all'ennesima
operazione alla gola per un male di cui soffriva da tempo.
Da sempre generoso finanziatore della stampa anarchica,
dopo l'avvento del fascismo mise a disposizione del movimento
libertario buona parte del discreto capitale che aveva accumulato
in anni di attività commerciale, per azioni, diciamo
così, più pratiche. In un suo necrologio apparso
su l'"Almanacco Libertario", che si pubblicava
a Ginevra, l'anonimo e commosso articolista scrisse: "Il
fascismo lo ebbe sino all'ultimo avversario acerrimo ed
attivo, tanto che all'occasione degli attentati di Schirru
e di Sbardellotto contro il 'duce', il suo nome fu citato
nella stampa ed al processo, ed il fascismo tentò
di valersene per rovinare la sua situazione finanziaria.
Chi scrive lo ricorda sempre ardente di fede e di passione
rivoluzionaria, pronto ad ogni momento a suscitare e secondare
le iniziative, specie sul terreno dell'azione ch'egli considerava
come la cosa più urgente e più importante,
nonostante le preoccupazioni non lievi che gli derivavano
dalla sua azienda e dal suo male, e le cure ch'ei doveva
alla sua famiglia che aveva particolarmente cara" (13).
Recchioni del resto, nei mesi successivi alle "rivelazioni"
di Sbardellotto che furono anche i suoi ultimi mesi
di vita si era preoccupato più di togliersi
di dosso la nomea costruitagli dalla stampa fascista del
mandante privo di scrupoli che aveva spedito allo sbaraglio
un giovane incosciente piuttosto che di respingere l'accusa
di aver aiutato l'anarchico di Mel. In un articolo firmato
Nemo comparso su "L'Adunata dei Refrattari", il
glorioso settimanale anarchico in lingua italiana di New
York che cessò le pubblicazioni solo nel 1971, egli
sottolineò giustamente che tra gli anarchici non
può instaurarsi un rapporto del tipo mandante-sicario.
Recchioni difese l'onore di Sbardellotto (e forse anche
il suo) scrivendo che "la mala pianta del sicario non
alligna in terreno anarchico"; Sbardellotto, "uomo
di fede purissima ha pagato colla vita un'intenzione tanto
più eroica in quanto poteva celarla" (14).
Recentemente, un articolo comparso sul settimanale "L'Espresso"
si è occupato della figura di Recchioni, fornendo
particolari inediti che confermerebbero la complicità
nella vicenda Sbardellotto dell'anarchico romagnolo, naturalizzato
inglese nel 1929 dopo l'avvento al potere del partito laburista.
Nell'articolo in questione, si cita tra l'altro un rapporto
dell'Home Office su Recchioni, stilato in seguito ad una
indagine voluta dal ministro Sir Herbert Samuel, su pressione
del ministero degli Affari Esteri italiano che chiedeva
insistentemente l'estradizione dell'anarchico accusato da
Sbardellotto: indagine ordinata proprio allo scopo di verificare
se le date degli spostamenti a Parigi di Recchioni coincidessero
con quelle dichiarate da Sbardellotto. Nel rapporto menzionato
si può leggere il seguente passaggio: "Recchioni
era in Francia nelle date menzionate da Sbardellotto. Dalla
verifica delle date di viaggio sembra probabile che sia
la persona che ha consegnato le bombe" (15). Dai documenti
risulterebbe inoltre che il capo di Scotland Yard, Lord
Trenchard, e lo stesso ministro Samuel, una volta scoppiata
la causa tra Recchioni e il "Daily Telegraph",
abbiano ordinato al colonnello Philips Carrè Carter,
in servizio a Scotland Yard, l'agente che da anni sorvegliava
Recchioni e che era stato chiamato a testimoniare dal quotidiano
inglese, di non presentarsi in aula. Perché? È
possibile che Recchioni, come sostiene Bernabei nell'articolo
in base ad una esplicita lettera a riguardo dello stesso
Trenchard, godesse di influenti amicizie nel partito laburista,
forse di quella dello stesso primo ministro MacDonald. Se
anche così fosse, nulla di male. Anzi. È una
piccola consolazione, in questa storia di dolore, immaginare
la rabbia provata dai vertici del regime fascista e dall'agente
Carter, uno zelante funzionario che aveva tentato in tutti
i modi di opporsi alla naturalizzazione di Recchioni, uno
spione che probabilmente mandava all'Ovra rapporti confidenziali
su Recchioni e sugli antifascisti italiani (16).
C'è un filo rosso e nero che lega, alla fine degli
anni venti, Emidio Recchioni a Camillo Berneri e questi
agli esponenti di punta di Giustizia e Libertà. Non
è assurdo pensare che sia stato proprio Berneri il
tramite per la collaborazione tra Recchioni e i membri di
G.L.; una collaborazione che potrebbe benissimo essere proseguita
nei mesi seguenti al complotto ordito ai danni di Berneri
dall'infiltrato trentino Ermanno Menapace, a causa del quale
l'anarchico di Lodi fu costretto a defilarsi momentaneamente
dall'attività antifascista più militante ed
anche in conseguenza del quale egli allentò i contatti
con i membri di G.L. per qualche anno (17).
Nell'agosto del 1929, dopo una clamorosa fuga in motoscafo
dal confino di Lipari organizzata dallo stesso Tarchiani
la notte del 27 luglio, erano giunti a Parigi Carlo Rosselli
ed Emilio Lussu. Fu questo un fatto decisivo per i successivi
sviluppi della lotta antifascista degli esuli politici italiani.
Occorre ricordare che, eccettuati gli anarchici e alcuni
individui di area socialista, repubblicana e liberaldemocratica,
le forze antifasciste erano contrarie alle azioni individuali,
ai tentativi di uccidere Mussolini in Italia mediante missioni
"suicide". Soprattutto nei primi mesi dopo la
sua costituzione, invece, G.L., fondata quello stesso 1929
a Parigi, si caratterizzò, avvicinandosi in questo
agli anarchici, per una propensione a lottare contro il
fascismo anche tramite azioni "terroristiche",
individuali o di gruppo. Così Aldo Garosci, uno degli
attivisti del movimento, ricorda l'originale posizione del
gruppo di Rosselli a cavallo degli anni trenta: "Dal
'partito d'azione', dagli anarchici e dai repubblicani,
in forza della stessa posizione di rivolta, "G.L."
eredita una propensione che è stata qualificata da
altri come terroristica (e che forse gli stessi organizzatori
del movimento credevano tale all'origine)" (18).
Berneri è tra i primi a rendersi conto dell'importanza,
per la lotta antifascista, dell'arrivo a Parigi di Rosselli
e Lussu, come dimostra un passaggio di una lettera spedita
a Luigi Fabbri in Uruguay: "Tu sei troppo lontano per
vedere la situazione di qui. Questa è migliorata,
specie dopo la venuta di Rosselli e di Lussu" (19).
Berneri conosceva i Rosselli sin dai tempi della sua frequentazione
del Circolo di Studi Sociali, fondato a Firenze proprio
dai fratelli socialisti sull'impulso di Gaetano Salvemini,
loro comune maestro (era stato, tra l'altro, relatore di
tesi dell'anarchico lodigiano). A Parigi, Berneri riallacciò
i legami sia con Carlo Rosselli sia con Salvemini, che era
stato tra i fondatori di G.L., sia con gli altri uomini
di punta del movimento: per alcuni mesi essi progettarono
insieme diversi attentati. Un "promemoria della polizia
politica a sua eccellenza il capo del governo" del
6 dicembre 1929, frutto dell'azione spionistica di Menapace,
informava minuziosamente Mussolini dell'attività
antifascista di Berneri: in particolare, delle sue richieste
di finanziamento a Recchioni e del progetto di un attentato
alla Società delle Nazioni di Ginevra in collaborazione
con altri anarchici e con Rosselli, Cianca e Tarchiani di
G.L. (20).
Certo, l'uscita di scena momentanea di Berneri, nel gennaio
del 1930, fu un grave colpo per questo sodalizio. Ed è
pur vero che solo qualche mese più tardi, nell'autunno
del 1931, G.L. aderì alla Concentrazione antifascista,
fatto con il quale essa si allontanò da quegli anarchici
che, come Berneri, erano disposti ad un'alleanza pratica
e ad un confronto teorico con questo movimento; tuttavia
G.L. rimase ancora per molti mesi favorevole alle azioni
"terroristiche" e solo nell'estate del 1932, a
causa del fallimento di alcune azioni e della dura repressione
che aveva colpito i militanti del movimento in Italia, inizia
per G.L. "un declino dell'attività ardita"
(21).
È pertanto possibile che, anche dopo l'allontanamento
di Berneri, deluso anche per le posizioni filoconcentrazioniste
che G.L. stava sempre più assumendo, e fino almeno
all'estate del 1932, membri del gruppo di Rosselli e alcuni
anarchici abbiano collaborato per portare a termine "azioni
ardite", tra cui il tentativo di Sbardellotto. In questo
caso, è plausibile che Alberto Tarchiani, che insieme
ad Emilio Lussu era tra i più convinti propugnatori
di attentati a Mussolini, sia stato della partita, così
come non è improbabile che lo stesso Lussu sia stato
in qualche modo coinvolto nel tentativo di Michele Schirru
(22). In una lettera scritta nel 1980, in un periodo in
cui era venuta meno l'opportunità politica di un
certo riserbo su questi fatti, lo stesso Aldo Garosci
che nella Vita di Carlo Rosselli, libro pubblicato
all'indomani della Liberazione, quando i membri di G.L.
si affacciavano sulla scena pubblica nazionale con grandi
speranze politiche, aveva decisamente negato il coinvolgimento
di Tarchiani nel tentativo di Sbardellotto sottolineò
un punto molto importante: "L'abbandono dei conati
terroristici si ebbe definitivamente dopo il processo Bovone...
meno, naturalmente, che per gli attentati a Mussolini, che
continuarono a venir studiati dal futuro ambasciatore
Tarchiani" (23).
Nell'opuscolo già ricordato fatto stampare da G.L.
alla fine del 1932, Il Tribunale Speciale fascista,
scritto da Gaetano Salvemini, pur prendendo le distanze
dalle azioni individuali di "terrorismo" e pur
negando responsabilità di G.L. nel caso Sbardellotto,
si difese l'azione e il contegno di questi e di Michele
Schirru, definendoli eroici (24).
Sul comportamento tenuto da Sbardellotto durante il processo
in parte si è già accennato. Egli rifiutò
di firmare la domanda di grazia, così come rifiutò
l'assistenza religiosa prima di essere fucilato. Morì
effettivamente eroicamente, come eroico e disperato fu il
suo tentativo di liberare l'Italia dalla dittatura. Sulle
ultime ore di Sbardellotto esiste anche una testimonianza
diretta, quella del secondino che aveva sorvegliato il giovane
anarchico nelle ore precedenti la fucilazione. La testimonianza
fu raccolta da un giornalista de "Il Momento"
e pubblicata nel quotidiano romano il 17 ottobre 1946. Ugo
Fedeli, importante militante libertario e storico del movimento
operaio, ne riportò ampi stralci in un suo studio
sull'antifascismo anarchico pubblicato in parte solo recentemente
nel "Bollettino Archivio Giuseppe Pinelli". Da
tale racconto si ricava che Sbardellotto trascorse le ultime
ore serenamente, rimpiangendo solo di non essere riuscito
nell'intento di sopprimere il tiranno. Secondo la testimonianza,
quando fu svegliato, alle quattro del mattino, per essere
condotto di fronte al plotone di esecuzione, accese una
sigaretta, si vestì lentamente, come se si preparasse
per avviarsi al lavoro, ed uscì dalla cella. Prima
di imboccare le ripide scalette, accese un'altra sigaretta,
si soffermò sul cancello che immette alla rotonda,
si volse indietro e con un largo gesto della mano abbracciò
tutti i compagni di carcere che non avrebbe mai più
visto: "Arrivederca tutti!" gridò. Ed uscì
tra le guardie a testa alta. E prima che la raffica troncasse
quella giovinezza offerta ad un ideale di libertà,
gettò in faccia al mondo il suo grido di fede: "Viva
l'anarchia" (25).
Nel ricordo del secondino c'è però ben di
più che la descrizione del fermo contegno tenuto
dall'anarchico di fronte alla morte. Sbardellotto avrebbe
infatti confidato un particolare che non risulta né
dagli atti processuali né dalle ricostruzioni della
vicenda in riferimento al terzo e ultimo viaggio in Italia
compiuto dall'anarchico di Mel per uccidere Mussolini. "Ero
a Piazza dell'Esedra, sotto i portici. Lui passò
a pochi metri da me", avrebbe detto Sbardellotto alla
guardia. "Stavo per lanciare la bomba, calcolai la
distanza, freddamente, ma all'ultimo momento un pensiero
mi trattenne: lui era circondato da migliaia di persone
e la bomba aveva un raggio d'azione di duecento metri, sarebbe
stata una carneficina. Centinaia di innocenti avrebbero
pagato per una colpa non loro. Lui doveva pagare, lui solo.
Non lanciai la bomba, ma ormai era tutto finito" (26).
Secondo la versione "ufficiale" Sbardellotto non
sarebbe riuscito ad avvicinarsi a Mussolini in nessuno dei
tre tentativi da lui compiuti per uccidere il dittatore.
Nella conversazione con il secondino l'anarchico di Mel
avrebbe invece sostenuto proprio il contrario, e cioè
di essere riuscito ad avvicinare il "duce" tanto
da averlo a portata di tiro, ma di aver scelto di non lanciare
le bombe per non causare una strage.
È possibile che il secondino abbia romanzato il suo
racconto, o che se lo sia addirittura inventato di sana
pianta? È possibile che a romanzare la storia sia
stato lo stesso Sbardellotto, per rendere più umana
la sua immagine agli occhi dei posteri, un'immagine che
il regime, attraverso i suoi esponenti e i suoi organi propagandistici,
presentava fin dal giorno successivo al suo arresto come
quella di un mostro? E perché, qualora questa testimonianza
sia veritiera, l'anarchico non decise di usare, al posto
delle bombe, la pistola che pure aveva con sé?
Improbabile che, a distanza di tanti anni, si possa sciogliere
questo ulteriore dubbio. Certo è che Sbardellotto
doveva essere ben cosciente del fatto che difficilmente,
per usare un eufemismo, avrebbe potuto incontrare Mussolini
a tu per tu, in una piazza e in una strada deserte. Tuttavia,
egli potrebbe anche essere stato assalito, proprio all'ultimo
momento, da un dubbio paralizzante di fronte alla possibilità
di causare una strage: pensiero che, pur con tutto l'amore
possibile nei confronti della libertà e con tutto
l'odio immaginabile nei confronti della tirannia, non ci
sentiremmo di biasimare. Le vittime innocenti sarebbero
state certe, la fine del regime liberticida molto meno,
e operare un male certo in virtù di un bene solo
probabile, è scelta etica - e politica - quantomeno
drammatica. Comunque sia, la parabola umana e politica di
Angelo Sbardellotto è destinata a rimanere per molti
aspetti non del tutto chiara. I testimoni dell'epoca sono
tutti morti, e nessuno ha più voglia di ricordare
un evento che sembra accaduto secoli fa. Se Magrì
non avesse rispolverato questa vicenda, nessuno, nemmeno
al suo paese, avrebbe più parlato della storia di
Sbardellotto.
Sono andato a Mel, una calda mattina della scorsa estate,
per incontrare uno dei fratelli più giovani di Angelo,
che è ancora vivo e che abita nella casa di riposo
del paese. Ultraottantenne, convive con i problemi di salute
caratteristici dell'età avanzata. La sua memoria,
comprensibilmente, non è più quella di un
tempo: certi avvenimenti, però, non si cancellano
mai. È stato molto gentile e disponibile, nonostante
si capisca che non ha molta voglia di ritornare con la memoria
ad una vicenda che l'ha coinvolto e segnato così
profondamente suo malgrado. Mi ha raccontato più
o meno le stesse cose che ha detto a Magrì e che
sono riportate nel libro del giornalista.
Del fratello ha un ricordo legato all'infanzia: quando Angelo,
nel 1924, emigrò in Francia, lui era ancora un bambino.
"Dormivamo nella camera assieme. Ricordo che Angelo
era un ragazzo molto vivace. Con la mamma andava poco d'accordo
perché la mamma era bigotta". Gli chiedo se
Angelo avesse già una coscienza politica prima di
andare all'estero: "Aveva simpatie per il socialismo.
Rimase assai scosso quando il 1 maggio del 1922 il socialista
Edoardo Mattia fu ucciso nel paese dai fascisti a casa sua,
mentre mangiava". Pochi mesi dopo, non per ragioni
politiche, bensì, com'era più comune, per
sopravvivenza, Angelo emigrò in Francia. Olivo ricorda
il dolore della madre nel leggere la lettera che Angelo
le scrisse nel '28, per annunciarle il suo rifiuto di tornare
in Italia a svolgere il servizio militare. Ha scritto una
lettera piena di malegrazie, "non voglio avere nulla
a che fare con questa patria scalcinona", tutto un
lavoro così; ha scritto che lui aveva un'altra patria
e un altro dio da seguire, santi e preti, frati e monache
imboscati viva l'anarchia. La mamma è rimasta male,
è andata a confidarsi dal prete che le ha detto:
"Guardi di non distruggerla, la nasconda, la cucia
in qualche cuscino perché non si sa mai".
Proseguendo nei ricordi, la sua voce si incrina quando descrive
l'interrogatorio subìto dalla polizia poche ore dopo
l'arresto di Angelo a Roma. Olivo fu prelevato dalla sua
casa a Mel assieme ai genitori e interrogato su eventuali
complicità della famiglia. "Noi non sapevamo
niente. Mi hanno interrogato, me ne hanno fatte di tutti
i colori. Quella notte me ne hanno dato un pesto, per farmi
parlare". Mi mostra la cicatrice che porta ancora come
perenne ricordo di quelle mani gentili. "Mi hanno riempito
di ceffoni. Il giorno dopo lo stesso. Loro avevano sospettato
che io fossi in collegamento con la Francia e l'Inghilterra".
Arguzie poliziesche. Naturalmente, Olivo e la sua famiglia
furono subito liberati e scagionati, ma nel paese si creò
un vero e proprio cordone sanitario intorno alla famiglia
del "terrorista". Fortunatamente, i fascisti locali
non andarono oltre le minacce.
Qualche anno dopo, forse per lavarsi la coscienza, Mussolini
convocò a Roma proprio Olivo. Questi fu protagonista
di un "epico" incontro con il "duce",
che lo beneficiò di una sconcertante parabola contadina
fascisticamente corretta. Olivo ricorda con ironia l'episodio.
"Sono venuti a prendermi. Mi hanno detto che bisognava
fare un viaggio a Roma. 'Il Duce vuole conoscerlo', si è
limitato a dirmi il fascista che mi ha accompagnato in treno
nella capitale. Alla stazione c'era una macchina che aspettava
e che ci ha portati subito a Palazzo Venezia. 'Questo giovane
va vestito con la divisa da caposquadra dell'avanguardismo:
ordine del duce!', ha affermato il funzionario appena arrivati.
Una volta vestito, mi hanno accompagnato nel salone. 'Duce,
c'è il giovane Olivo Sbardellotto', ha esclamato
l'accompagnatore, che poi si è immediatamente ritirato.
Lui non ha neanche alzato la testa, continuava a scrivere.
Sono passati alcuni minuti di silenzio, poi si è
alzato. Incontrandolo nello sguardo, sa, mi è arrivato
un po' di batticuore. 'Come va?', mi ha chiesto. 'Bene,
Eccellenza'. 'Desideravo conoscerti perché voglio
che tu diventi un buon fascista. Quello che è successo
doveva succedere, perché anche nella pianta, quando
non dà frutto, potano il ramo, per farla produrre
di più: così siamo noi. E auguri di andare
sempre bene'. Ha battuto il maglio sul tavolo e mi hanno
portato via".
Olivo rammenta con amarezza che la benedizione del duce
non gli servì proprio a nulla negli anni del regime:
l'essere il fratello di quel disgraziato che aveva cercato
di ucciderlo continuò ad essergli di ostacolo nelle
relazioni sociali e soprattutto nella professione. Come
milioni di altri suoi concittadini, Olivo, durante la dittatura
di Mussolini, è stato obbligato ad essere fascista;
ma in cuor suo, mi dice, fascista non è mai stato.
"Non ho mai avuto nessun disprezzo del fratello",
sostiene, tant'è vero che dopo l'arresto e la fucilazione
di Angelo si è opposto all'idea di cambiare nome
come suggeritogli da uno zio con la camicia nera. Gli domando
cosa ne pensa delle idee del fratello. "A me è
dispiaciuto più che altro dello screzio tra Angelo
e la mamma. Non avrebbe dovuto scrivere lettere così
offensive. Per il resto, ognuno ha le sue idee. Angelo aveva
le sue, non me la sento di giudicarle. Ognuno va al mulino
con il suo sacco": espressione che, pronunciata da
un figlio di mugnaio, suona assai calzante. Olivo comunque,
non ha mai approfondito le idee del fratello; non è
mai stato anarchico e sottolinea che non vuole che questa
storia venga usata dagli anarchici a fini propagandistici:
"Non ci tengo a che gli anarchici sbandierino il nome".
A parte Olivo, di questa storia a Mel pare non sapere nulla
quasi nessuno. Il regime aveva fatto tutto quanto era in
suo potere per cancellare la memoria di questo ragazzo ribelle;
alla famiglia Sbardellotto fu sequestrato tutto ciò
che aveva a che fare con Angelo: le lettere, le foto. Tutto.
Al resto hanno pensato, nel dopoguerra, il conformismo,
la paura, l'indifferenza. Il tempo un gran galantuomo? La
realtà è che Angelo Sbardellotto è
stato semplicemente cancellato, rimosso. "Prima che
uscisse il libro di Magrì non sapevamo quasi nulla",
mi dice Gianni Sbardellotto, un parente alla lontana di
Angelo, che gestisce una cartoleria. Mi indirizza da Giovanni
Sartori, che abita lì vicino. È la memoria
storica vivente del paese, un erudito cultore delle tradizioni
locali (ha scritto un bel libro sulla storia di Mel). Sartori
è un personaggio in vista nel paese, sia per le sue
ricerche sia per i suoi trascorsi politici (è stato
anche sindaco in una giunta democristiana negli anni '60).
"Su quel periodo bisognerebbe mettere una bella pietra
sopra e di questa vicenda in particolare sarebbe meglio
non occuparsi", sostiene, forse per scoraggiarmi. Troppi,
mi dice, sono stati gli odi e le vendette, da una parte
e dall'altra, negli anni del fascismo e in quelli della
resistenza. A che serve rivangare il passato? "Angelo
è andato via troppo giovane, per il Comune e per
la gente è come se non fosse mai esistito",
mi risponde quando gli dico che a mio modesto parere è
vergognoso che ad Angelo Sbardellotto non sia intitolata
nemmeno una via. Della vicenda l'ex sindaco ha una sua idea,
che probabilmente coincide con la spiegazione che in paese
si sono fatti della storia. Una versione a mio avviso semplicistica
che, sia detto senza nessuna volontà offensiva, mi
ricorda la storiella della mamma che raccomanda al figlio
di non accettare le caramelle dagli sconosciuti: la famiglia
di Angelo era molto cattolica; quando Angelo è emigrato
in Francia era un ragazzo ingenuo; lì ha cominciato
a frequentare cattive compagnie, che l'hanno mal indirizzato.
Chissà se a Mel gli abitanti, o almeno i discendenti
della famiglia Sbardellotto, vorranno recuperare la memoria
storica e ricordare questo loro avo che per ben tre volte,
sfidando le leggi di uno Stato totalitario, tornò
dal Belgio, dove era stato spinto dalla fame, per cercare
di restituire al popolo la libertà che aveva perduto:
quella libertà che gli italiani, in generale, non
si dimostravano allora tanto bramosi di riconquistare, come
oggi non appaiono, evitando di ricordare chi per essa ha
sacrificato la vita, così desiderosi di onorare.
Francesco Berti
Michele Schirru
1. In uno dei suoi ultimi studi, Pier Carlo
Masini, lo storico dell'anarchismo e del movimento operaio
recentemente scomparso, ha sostenuto in maniera convincente
la tesi che quello di cui fu oggetto Mussolini il 31 ottobre
del 1926 a Bologna non sia stato un vero attentato: si sarebbe
trattato in realtà di una macchinazione ordita dallo
stesso capo del governo al fine di introdurre più
velocemente le leggi speciali atte a perfezionare la costruzione
del regime dittatoriale. Cfr. Pier Carlo Masini, L'attentato
di Bologna, in "Rivista storica dell'anarchismo"
n. 2, 1998, pp. 15-32.
2. Cfr. Cesare Rossi, Il Tribunale Speciale, Casa
Editrice Ceschina, Milano 1952, pp. 321-31; Giovanni Artieri,
Tre ritratti politici e quattro attentati, Atlante,
Roma 1953, pp. 221-26.
3. Nella scheda relativa a Sbardellotto del Casellario Politico
Centrale, nello spazio dedicato al colore politico si può
notare che la qualifica di anarchico è stata stampata
quasi sovrapposta a quella di comunista: quest'ultima risulta
cancellata da due linee di penna orizzontali. È probabile
che Sbardellotto, come molti altri anarchici dopo la nascita
del PCd'I, sia stato inizialmente schedato come comunista,
e che solo successivamente si sia specificata con più
precisione la sua identità politica. Un ingrandimento
fotografico della prima pagina del CPC di Sbardellotto sta
in "Libertaria", n. 3, 2000, p. 74.
4. Cfr. Mimmo Franzinelli, I tentacoli dell'Ovra,
Bollati Borlinghieri, Torino 1999.
5. Magrì, I fucilati di Mussolini, cit., p.
100.
6. Aldo Garosci, La vita di Carlo Rosselli, Edizioni
U, Roma - Firenze - Milano, vol. I, p. 256.
7. Vittorio Cantarelli, nato a Castenuovo di Sotto il 10
ottobre 1882, fu fin dall'adolescenza attivo militante anarchico.
Nel 1905 figura tra i redattori de "Il Libertario"
di La Spezia. Emigrato in Francia nel 1910, dal 1928, dopo
il suo trasferimento a Bruxelles, assunse un ruolo di primo
piano nel C.I.D.A. (Comitato Internazionale di Difesa Anarchica).
Durante la guerra civile e la rivoluzione spagnola, svolse
un ruolo di fondamentale sostegno alla lotta libertaria
del popolo spagnolo in qualità di organizzatore del
Comitato Pro Spagna di Bruxelles, occupandosi in particolare
dell'arruolamento dei volontari e dell'invio clandestino
di armi. Durante la seconda guerra mondiale fu arrestato
in Polonia dai nazisti e consegnato al Brennero, il 9 febbraio
1941, dalla polizia tedesca a quella italiana. Processato
per il progetto di attentato di Sbardellotto, sulla base
della famosa confessione fu condannato il 28 maggio di quello
stesso anno a 30 anni di carcere dal Tribunale Speciale.
Su Cantarelli scarne notizie in Camillo Berneri, Epistolario
Inedito, vol. II, Archivio Famiglia Berneri, Pistoia
1984, p. 87n. Per una sintetica visione degli antifascisti
anarchici italiani in Belgio, tra cui Cantarelli, cfr. anche
Anne Morelli, Fascismo e antifascismo nell'emigrazione
italiana in Belgio (1922-1940), Bonacci, Roma 1987,
pp. 102-11.
8. Emidio Recchioni, nato a Russi (RA) nel 1864, morto a
Parigi nel 1934, divenne anarchico anche grazie all'influenza
che su di lui esercitò Cesare Agostinelli. Entrato
in amicizia con Errico Malatesta, ne divenne collaboratore
assiduo, pubblicando in Ancona "L'articolo 248"
nel 1894 e "L'agitazione di Ancona" nel 1898.
Pagò personalmente in numerose occasioni la dura
repressione governativa: tra l'altro, scontò 18 mesi
di carcere per l'attentato contro Crispi e cinque anni di
confino. Per sottrarsi alle persecuzioni poliziesche si
rifugiò nel 1900 a Londra, città nella quale
continuò a sostenere molte attività dell'anarchismo
internazionale e in cui costruì una discreta fortuna
economica fondando un'impresa di distribuzione di specialità
alimentari italiane. Il negozio di prodotti italiani da
lui gestito nella capitale inglese aveva un nome assai eloquente:
"King Bomba". A Londra, continuò tra l'altro
la collaborazione con Malatesta e i suoi giornali, ad esempio
"L'Agitazione". Qualche anno più tardi,
fu generoso sottoscrittore del quotidiano anarchico "Umanità
Nova", di cui fu anche corrispondente estero per l'Inghilterra.
Collaboratore di varie testate anarchiche internazionali
("La Protesta" di Buenos Aires, "L'Adunata
dei Refrattari" di New York, etc.), mise il suo capitale
a disposizione del movimento anarchico nella lotta contro
il fascismo, venendo implicato in vari attentati, tra cui
quelli di Schirru e di Sbardellotto. In questi ultimi anni
di vita, entrò in amicizia e in collaborazione con
Camillo Berneri: questo sodalizio fu il tramite per il legame
tra il figlio di Emidio, Vernon Richards (Vero Recchioni)
nato a Londra nel 1915, autore tra l'altro di un importante
studio sulla rivoluzione spagnola (Insegnamenti della
rivoluzione spagnola, Vallera, Pistoia 1974) e la figlia
primogenita di Camillo, Maria Luisa (Arezzo, 1.03.1918 -
Londra, 13.04.1949), brillante studiosa e autrice di una
ricerca sull'utopia che tutt'oggi risulta tra i più
acuti studi sull'argomento (Viaggio attraverso Utopia,
Mai, Carrara 1977). Un'unione, quest'ultima, che fu tragicamente
interrotta dalla precoce morte, a soli 31 anni, di Maria
Luisa: evento luttuoso per i suoi famigliari e perdita irreparabile
per il movimento anarchico internazionale. Su Emidio Recchioni
cfr. Berneri, Epistolario Inedito, vol. II, cit., p. 65;
Storie di anarchici e di anarchia, Biblioteca Panizzi;
Archivio Famiglia Berneri-Aurelio Chessa, Reggio Emilia
2000, pp. 45-8.
9. Alberto Tarchiani (Roma, 1.11. 1885 ñ1964)
giornalista, fu per qualche anno corrispondente di giornali
italiani da New York. Interventista nella prima guerra mondiale,
tornò in Italia nel 1918 per partecipare alle vicende
belliche come volontario in fanteria. Dal 1919 al 1925 fu
redattore capo del "Corriere della Sera". Nel
1925, quando il giornale passò completamente sotto
il controllo dei fascismo, espatriò a Parigi. Militante
antifascista, si legò al gruppo di esuli che si raccoglieva
intorno a Gaetano Salvemini. Fu lui il principale organizzatore
della fuga dal confino di Lipari, il 27 luglio 1929, di
Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Francesco Saverio Nitti.
Con Salvemini, Rosselli e altri fu tra i fondatori di G.L.
(Giustizia e Libertà) a Parigi lo stesso anno. Nei
primi mesi del 1930 fu coinvolto insieme a Rosselli, Berneri
e altri nel complotto ordito dalla spia Menapace. Nel 1934,
in seguito a divergenze ideologiche con Carlo Rosselli,
si allontanò da G.L.. Trasferitosi negli Stati Uniti
nel 1940, diede vita all'associazione antifascista "Mazzini
Society". Rientrò in Italia nell'agosto del
1943 e fu ministro dei LL.PP. nel governo di Salerno nel
1944. Nel secondo dopoguerra, dal 1945 al 1955, fu ambasciatore
italiano a Washington dal 1945 al 1955. Per l'attività
antifascista di Tarchiani in Francia cfr. Garosci, La vita
di Carlo Rosselli, cit., e Id., Storia dei fuoriusciti,
Laterza, Bari 1953.
10. Cfr. Magrì, I fucilati di Mussolini, cit.,
e Giuseppe Galzerano, Attentati anarchici a Mussolini,
in AaVv, L'antifascismo rivoluzionario tra passato e
presente, BFS, Pisa 1993, pp.3-8.
11. Lettera di Alberto Tarchiani al Direttore della Libertà,
Parigi, 19 giugno 1932, in Il Tribunale Speciale fascista
(reprint), a cura di Giuseppe Galzerano, Galzerano, Casalvelino
Scalo (SA) 1992, p. 83. Un'ampia bibliografia riguardante
testimonianze e studi sulle varie correnti del fuoriuscitismo
e dell'antifascismo sta in Emilio Gentile, Fascismo e
antifascismo. I partiti italiani fra le due guerre,
Le Monnier, Firenze 2000, pp. 516-36 (Giustizia e libertà,
pp. 534-5; anarchici, p. 536).
12. Ivi, pp. 83-4.
13. I nostri scomparsi, in "Almanacco Libertario",
anno VII, Ginevra 1936, p. 22. Corsivo mio.
14. "L'Adunata dei refrattari", 16 luglio 1932,
cit. in Galzerano, Attentati anarchici, cit., p.
96.
15. Cit. in Alfio Bernabei, Quelle due bombe venute da
Londra, "L'Espresso", 25 marzo 1999, p. 116.
16. Cfr. Franzinelli, I tentacoli dell'Ovra, cit.,
pp. 201-2.
17. Sul caso Menapace cfr. tra gli altri: Berneri, Epistolario
Inedito, vol. II, cit., pp. 52-3; Francisco Madrid Santos,
Camillo Berneri. Un anarchico italiano (1897-1937) tra
rivoluzione e controrivoluzione in Europa (1917-1937),
Archivio Famiglia Berneri, Pistoia 1985, pp. 205-18; Morelli,
Fascismo e antifascismo, cit., pp. 105-11; Franzinelli,
I tentacoli dell'Ovra, cit., pp. 205-9.
18. Garosci, La vita di Carlo Rosselli, vol. I, cit.,
p. 200.
19. Camillo Berneri a Luigi Fabbri, Parigi, novembre 1929,
ora in Berneri, Epistolario inedito, vol. II, cit.,
p. 46.
20. Promemoria della polizia politica a sua eccellenza
il capo del governo, Roma 6 dicembre 1929, ora in ivi,
pp. 256-8. Sui rapporti tra Berneri, e più in generale
gli anarchici, e G.L. cfr. Luigi Di Lembo, L'Europa tra
guerra di stato e guerra di classe (1919-1939), in AaVv,
L'antifascismo rivoluzionario, cit., pp. 19-21; Madrid
Santos, Camillo Berneri, cit., pp. 245-64.
21. Garosci, La vita di Carlo Rosselli, vol. I, cit.,
p. 259.
22. A questo proposito cfr. Fiori, L'anarchico Schirru,
cit., p. 172.
23. Aldo Garosci a Manlio Brigaglia, 30 aprile 1980, ora
in ivi, p. 173.
24. Il Tribunale Speciale, cit., pp. 75-6.
25. Ugo Fedeli, Una resistenza lunga vent'anni, in
"Bollettino Archivio Giuseppe Pinelli", n.5, Milano
1995, pp. 20-1.
26. Ivi, p. 20.