Chissà se finalmente è
riuscito a riuscito a "riferirglieli tutti sbagliati"
i numeri del lotto a "quella candida vecchia contessa"
che Fabrizio ci fece conoscere sin dai tempi de "Il
testamento"? Sinceramente ci auguriamo di sì,
anche perché, se così è stato, ciò
significherebbe che qualche altro scherzo potrebbe averlo
fatto pure a qualcuno - speriamo almeno ai più spudorati
- tra i tanti che, dopo averlo considerato in vita un nemico,
un blasfemo, un sovversivo, nelle ore e nei giorni successivi
alla sua scomparsa, hanno avuto l'ignobile gusto di unire
il loro falso cordoglio alle innumerevoli manifestazioni
ed espressioni di dolore sincero che onoravano la memoria
dell'uomo, del poeta, del cantastorie.
Chi ha voglia e tempo, può andare a rileggersi i
giornali di quelle tristi giornate per scoprire quanto improbabili
fossero certe dichiarazioni, di stima verso il poeta e di
"adesione culturale" al suo pensiero, da parte
di esponenti politici della destra, anche di quella estrema,
così come quelle di molti rappresentanti delle gerarchie
ecclesiastiche, così incommensurabilmente lontane
dal sentire e dall'agire di Fabrizio De André.
Italo Svevo ebbe a scrivere ne La coscienza di Zeno:
"(...) era un imbecille quel buffone che in un cimitero
coperto di epigrafi laudatorie domandò dove si seppellissero
in quel paese i peccatori. I morti non sono mai stati peccatori."
È vero: soprattutto chi, in vita, è stata
una persona capace di mettere in evidenza le contraddizioni
del sistema o magari quel sistema stesso ha combattuto;
chi in vita è stato "scomodo", irriducibile
ai compromessi prezzolati con il potere e i potenti, paradossalmente,
molto spesso, da quello stesso sistema, da quello stesso
potere, da quegli stessi potenti viene improvvisamente beatificato,
ridotto a "santino buono per tutte le occasioni"
e per fare ciò, vengono smussate le contraddizioni
che quell'uomo o quella donna incarnavano, si cerca di disinnescare
la loro forza antagonista, si ridisegnano le loro vite in
modo tale da poterle poi colorare con le tonalità
rassicuranti dell'usuale, del "normale", della
tranquilla "pace terrificante" da Domenica delle
salme.
Il mandato è appunto : "I morti non sono mai
stati peccatori".
Con Fabrizio De André c'è chi ha cercato di
attuare lo stesso processo di rimozione: non dell'uomo-cantautore
- quello, anzi, viene ricordato e celebrato con solerte
assiduità - la rimozione ha a che fare con i contenuti
più dirompenti della sua poetica.
Con la rimozione c'è chi ha cercato, e cerca, di
smussare la critica feroce che il poeta rivolgeva verso
quel sistema di complicità che, con il saldissimo
collante dell'ignoranza e della malafede, ha sempre unito,
in epoche diverse ma con identiche finalità, oppressori,
prepotenti, sfruttatori nonché meschini di ogni risma,
tutti uniti in quel coacervo di squallidi interessi grazie
al quale ogni potere vive e, nel tempo, rigenera se stesso.
Certo, un discreto numero di quelle persone che potremmo
definire "anime belle", può darsi che abbia
potuto accontentarsi di questa versione edulcorata che la
stragrande maggioranza dei media ha voluto di Fabrizio De
André. Forse lo ha fatto chi non lo conosceva e se
ne è fatto un'idea solo attraverso i resoconti stampa
e gli special tv, o forse chi, pur avendolo conosciuto -
magari durante gli anni del proprio ribellismo adolescenziale
- di fronte alla rigorosa e pluridecennale coerenza di Fabrizio
De André, ha preferito accettare l'immagine "buona
per tutti" che l'establishment ha voluto dare del cantautore
genovese, e così evitare di fare i conti con la propria
giovinezza e quindi con le proprie sconfitte, i propri pentitismi,
le proprie abiure fatte negli anni della maturità
"seria e responsabile".
Intellettuale
critico
Ma De André, come ogni grande, non è circoscrivibile
in schemi di comodo o, peggio ancora, mistificanti.
Consapevole del fatto che, come diceva Jean-Paul Sartre,
in quanto "prodotto di società lacerate, l'intellettuale
è un loro testimone poiché ne ha interiorizzato
la lacerazione" , De André ha fatto delle espressioni
della sua intellettualità, grimaldelli talmente forti
da scardinare, nel sentire comune, molti degli elementi
di quella sovrastruttura che il potere addotta per negare,
occultandola, proprio quella lacerazione che segna il punto
di discrimine delle contraddizioni di classe.
"L'artista è un anticorpo che la società
si dà contro il potere" diceva De André,
facendo riecheggiare così, probabilmente in maniera
inconsapevole, Pier Paolo Pasolini quando dichiarava: "un
artista è (...) una specie di contestazione vivente"
.
L'accostamento di De André a Pasolini non è
casuale. Indipendentemente dalle innumerevoli differenze:
generazionali, prima di tutto (Pasolini era del '22 e De
André del '40) e poi, naturalmente, differenze di
formazione (Pasolini si definisce "marxista" mentre
De André si riferisce alla tradizione anarco-libertaria),
tra i due poeti esistono affinità la cui analisi
può essere illuminante al fine di comprendere meglio
l'intera produzione artistica del cantautore.
Innanzitutto, De André, come Pasolini, lo si può
definire "intellettuale critico" ossia in crisi,
la figura di intellettuale che si evidenzia soprattutto
nella seconda metà dell'Ottocento ma che si afferma
nella sua interezza nel Novecento e, in particolar modo,
nella seconda metà del secolo.
L'intellettuale critico è il figlio "degenere"
della borghesia. Educato, coccolato e impiegato dalla borghesia
fintanto che questa gli riconosce una qualche utilità
sociale per il funzionamento dei meccanismi del sistema,
l'intellettuale viene poi a trovarsi nella spiacevolissima
condizione di "reietto", di "traditore",
nel momento in cui, invece di contribuire all'affermazione
della classe dominante, egli si presenti - o presenti il
suo pensiero - come alternativa possibile ad essa.
Ed è per questo motivo che gran parte del ceto intellettuale,
posta di fronte al rischio di perdere i privilegi connessi
al ruolo, preferisce la condizione di aedo del potere.
Quando invece la contraddizione si fa insanabile, ovverosia
quando avverte la propria posizione come eccentrica rispetto
al sistema, tanto da impedire qualsiasi forma di complicità
con esso, ecco che l'intellettuale, come già sostenne
Nietzsche, vede impossibile il proprio lavoro se non nei
termini di un permanente smantellamento critico di ogni
dato acquisito, primo tra tutti proprio di quel ruolo che
la divisione borghese del lavoro gli vorrebbe affidare.
In fondo a questo percorso, l'intellettuale critico ha due
chance: o fuoriesce dalla propria classe di appartenenza,
la borghesia, per aderire alla classe ad essa storicamente
antagonista, il proletariato, in una logica di impegno totale
che può anche porre in secondo piano il lavoro intellettuale
stesso in nome dell'imperativo della modificazione dello
stato di cose presente; oppure, se questo passaggio "di
classe" non avviene, l'intellettuale si trova nella
condizione, per certi aspetti paradossale, di essere eccentrico
rispetto ad entrambe le classi e di avere, quindi, occhi
scevri da appartenenze definitive nell'osservare la realtà.
Come un figlio ribelle ai propri genitori, alla loro cultura
e al sistemi di valori da essi rappresentato, l'intellettuale
critico attacca principalmente la borghesia pur non diventando
organico al proletariato (a questo proposito Pasolini ebbe
a dire: "il mio odio per la borghesia ... era un odio
traumatico, per cui io ho considerato la borghesia non un
male ma il male ... la mia dunque è stata una specie
di rabbia naturale, quasi infantile contro la borghesia"
).
Cantare
i dannati
E di "rabbia naturale contro la borghesia" (classe
che d'altra parte conosce molto bene avendone respirato
l'aria sin dall'infanzia), Fabrizio De André se ne
nutre non appena comprende che le oscillazioni emotive della
sua classe di appartenenza hanno come fulcro "cuori
a forma di salvadanai".
E se Pasolini traduce la contraddizione del proprio ruolo
scegliendo comunque, come interlocutore dialettico, il partito
della classe operaia, De André conferma l'irrisolvibile
sua collocazione di classe determinata, appunto,
come si diceva, dal suo essere intellettuale critico
scegliendosi anarchico ed eretico: ossia una condizione
che a priori rifugge le appartenenze consolatorie e gli
altrettanto consolatori dogmatismi.
E non a caso, e in ciò una volta di più simile
a Pasolini, De André elegge a proprio mondo di ispirazione
quel presepio sociale che si compone di tutti coloro la
cui esistenza ha come cifra la marginalità.
Prostitute, suicidi, tossicomani, alcolisti, delinquenti,
transessuali, zingari: in poche parole tutti "i servi
disobbedienti alle leggi del branco" che, per costrizione
o vocazione, si trovino a vivere ai margini del quieto modus
vivendi dei benpensanti, dalla poetica di De André,
ottengono quel riscatto, fatto del riconoscimento della
loro storia e della loro dignità, che né la
Chiesa né lo stato e nemmeno l'ideologia hanno voluto
mai dare loro.
La scelta di cantare la marginalità e insieme ad
essa, naturalmente, molte delle figure che animano il cosiddetto
"sottoproletariato", determina così, per
De André, un posizionamento ben preciso nella dialettica
delle classi.
Da un lato, infatti, cantare i "dannati della terra"
dando loro molto più di "una goccia di splendore",
significa condannare senza appello il sistema economico,
politico e culturale borghese che la marginalità
la genera proprio per confermarsi "centro" dell'orizzonte
esistenziale e quindi nominarsi e autorappresentarsi "potere";
dall'altra, significa, oltre che irridere le figure che
si contrappongono ai "dannati della terra" incarnando
quel potere che formula a propria immagine e somiglianza
"il diritto" (a partire dal diritto di vita o
di morte) e che, sulla base di quel diritto, stabilisce
i codici della normalità e dell'anormalità,
della moralità e dell'immoralità, del vero
e del falso, del giusto e dell'ingiusto, ecco: oltre a irridere
tutto ciò, la scelta di cantare quelli che anche
"se non sono gigli, son pur sempre figli/ vittime di
questo mondo", se da una parte afferma una distanza
incolmabile del Poeta dagli imperativi del marxismo classico
(che ha sempre guardato al sottoproletariato come "massa
di manovra" in chiave controrivoluzionaria nelle mani
della borghesia), dall'altra, al contrario, stabilisce una
linea di continuità con un pensiero che affonda sì
le sue radici in un passato in cui si staglia la figura
di François Villon, non a caso definito da De André
"poeta della carità" , ma che poi, per
i tortuosi sentieri della suggestione emozionale, giunge
a Franz Fanon, a George Jackson per approdare, infine, alla
teorica anarchica.
Come quelli di Pier Paolo Pasolini, molti dei personaggi
cantati da De André appartengono "a un sottoproletariato
(...) stoico, che spinge in qualche modo all'azione, a lottare,
se non altro per mangiare, contro il mondo della cultura
superiore [e da cui - ndr] nasce la durezza, la delinquenza,
la coscienza anche confusa di certi diritti" .
A questa umanità Fabrizio De André presta
la sua voce perché il loro mondo possa sopravvivere,
almeno come identità, di fronte al "genocidio
culturale" che l'omologazione indotta dai modelli di
sviluppo capitalistici ha determinato e sta determinando
anche occultando nell'invisibilità mediatica, o al
contrario, mostrando con ipocrita commozione all'ora dei
TG, gli "scarti umani" che questo sistema produce.
È chiaro che il potere e le autorità ad esso
connesse, nelle canzoni di Fabrizio De André, traspaiono
in maniera più o meno diretta come i responsabili
di questo stato di cose; essi sono quindi i "nemici",
senza possibilità di appello, perché, con
Bakunin, De André ha imparato che "il potere
corrompe sia coloro che ne sono investiti che coloro i quali
devono soggiacervi. Sotto la sua nefasta influenza gli uni
si trasformano in despoti ambiziosi e avidi, in sfruttatori
della società in favore della propria persona o casta,
gli altri in schiavi" .
Contro questi nemici, l'indignazione della poesia di De
André è grande, immensa, ma non si fa mai
slogan, facile somma di parole capaci con la loro enfasi
e la rabbia che esprimono, di assolvere la coscienza di
chi le pronuncia o di chi le ascolta.
De André, lo abbiamo già detto, è lontano
dalla poetica consolatoria che ogni tipo di chiesa può
produrre; egli, al contrario, usa le parole come George
Grosz utilizzava la china o la matita, ossia con il preciso
intento di tracciare in maniera indelebile, quanto essenziale,
il disegno della faccia o delle facce del potere, intrise
come sono di arroganza, di volgarità, di violenza.
E lo fa, ora con i colori dell'indignazione ora con quelli
della derisione: sempre, comunque, non abbandonando mai
la consapevolezza dell'irriducibilità del conflitto
che oppone chi detiene il potere e chi il potere lo subisce.
Colto incontro di suggestioni diverse
La scelta "di campo" di De André, se così
si può dire, è univoca: senza incertezze la
sua passione è per il mondo dei respinti.
Ed è relazionandosi, idealmente, con questa realtà
che la "visione del mondo" del poeta arriva a
confrontarsi inevitabilmente con il "che fare?"
ossia, in ultima analisi, con la "politica", intesa,
propriamente, come momento centrale della socialità,
come "arte dell'essere cittadino" e come "scienza
della cosa pubblica": nulla a che vedere, quindi, con
le ignobili spartizioni di potere che fondano il senso della
politica del nostro passato come del nostro presente.
La lettura politica che De André fa della realtà
è un colto incontro di suggestioni diverse che, come
in una reazione chimica, una volta messe in contatto tra
loro, fanno scaturire un originale approccio all'anarchismo.
Il primo dato di cui si deve tener conto è la distanza
del poeta da visioni di palingenetiche rivoluzioni "di
là da venire".
De André, sempre con Bakunin, non ama i rivoluzionari
dottrinari "nemici dei poteri attuali solo perché
vogliono impadronirsene" né crede nel dato quantitativo
ossia nel valore numerico di masse sempre più sterminate
che dovrebbero dare l'assalto al cielo.
Vicino, per formazione, a Max Stirner e al suo Unico non
crede nel valore "a priori" delle masse: al noi
enfaticamente sottinteso dal concetto di "classe che
si ribella", De André preferisce l'io o, tutt'al
più, la somma di tanti io che si mettono insieme
per il raggiungimento di un obiettivo.
Se ci si fa caso, è il passaggio fondamentale della
Storia di un impiegato, un disco controverso e, per certi
aspetti contraddittorio, con il quale De André racconta
la storia del piccolo borghese che, nella frustrazione di
non venire accettato dall'alta borghesia alla quale la sua
stessa "costituzione economico-culturale" lo spingerebbe
ad assomigliare, e, nello stesso tempo, sentendosi osservato
con sospetto dal proletariato che lo percepisce altro da
sé , si ribella con il gesto individuale del "bombarolo",
gesto destinato a fallire e ad aprirgli le porte del carcere.
Ma è proprio lì, nel carcere, che il protagonista
scopre "gli altri vestiti uguali" e percepisce
l'importanza del momento di ribellione collettiva, quel
passaggio, cioè, dall'io al noi come momento di forza
da contrapporre alla forza (e alla violenza) del potere.
Abbiamo detto però disco "controverso e contraddittorio"
e non a caso.
Se da un lato, inserendolo in una dimensione come quella
carceraria, il riconoscimento dell'altro, per De André,
era legato al riconoscimento dell'identica condizione di
"detenuti del sistema" e quindi, non necessariamente
riconoscimento di una medesima condizione di classe
e dunque la comune ribellione non contraddiceva la dimensione
di "somma di egoismi" (egoismo, ovviamente nell'accezione
stirneriana), pronta a rifarsi "unicità"
una volta ottenuto ciò per cui si combatte , dall'altro
lato, l'esiguità della forma-canzone per un messaggio
così complesso, lascia il poeta insoddisfatto e,
non per nulla, dirà poi: "Nella Storia di
un impiegato si pretende racchiudere nella forma canzone
quello che nelle intenzioni era un saggio politico-sociale.
Ora, credo che si debba essere molto rigorosi: se uno vuole
scrivere un saggio scrive quello e non una serie di canzoni"
.
La dura autocritica cui si sottopone De André è
legata anche al fatto che ai suoi versi, composti insieme
a Giuseppe Bentivoglio, viene data dal suo pubblico una
lettura più marxista, ossia di annullamento dell'individualità
nel collettivo. L'anno, il 1973 italiano, favorisce questo
fraintendimento: però De André lo rifugge
da subito bollando il suo lavoro con l'epiteto di "bordellone"
.
Il perché è facilmente comprensibile: il marxismo
è difficilmente compatibile con la dimensione di
unicità, quasi aristocratica, che sottende l'intellettuale
critico così come questo lo abbiamo descritto nel
suo rifiutare le appartenenze ideologiche di comodo o di
maniera.
Religiosità laica
Ma non solo: De André non è un "rivoluzionario",
uno cioè, per dirla ancora con Pasolini, che: "nega
(il sistema) sul piano del reale e gli contrappone una sua
prospettiva utopistica" , o, quantomeno, non è
un rivoluzionario marxista. La sua prospettiva utopica ha
sicuramente più a che fare con un percorso capace
di inglobare sia ciò che abbiamo già visto,
ossia l'individualismo stirneriano, sia un anarco-cristianesimo
nel quale possono riconoscersi venature che rimandano direttamente
a Lev Tolstoj.
Anche se con Cecco Angiolieri cantò "Si fosse
foco arderei l'mondo", l'aspetto emotivo che più
ha caratterizzato la poetica di De André è,
in realtà, una sorta di religiosità laica
che si è concretizzata nell'aver fatto dell'umanità
vituperata, vilipesa e violentata dal potere e dai potenti,
l'oggetto di un amore infinito.
Anche in ciò simile a Pasolini, De André sembra
far riecheggiare nelle sue parole una sensibilità,
una religiosità laica appunto, che rinvia idealmente
al cristianesimo delle origini.
"Non ci sono chiese o preti per questo culto dell'uomo;
o meglio, ogni spazio, sia esso un bordello, un campo rom,
la cella di una prigione, possono diventare i luoghi dove
celebrare l'umanità dei perdenti; ogni prostituta,
ogni furfante, ogni suicida può diventarne l'officiante"
.
Date le molte strumentalizzazioni che, come dicevamo, sono
state fatte dopo la scomparsa del poeta, è bene specificare
che De André si riconosce nei valori sociali del
messaggio cristiano e non certo in quelli religiosi.
L'intera sua produzione poetico-musicale è testimonianza
del fatto che De André non riconosce alcuna valenza
alla dimensione divina del messaggio cristiano: Gesù
è "figlio dell'uomo" non figlio di Dio,
un figlio che, come il poeta ha amato dire in più
di una occasione, lui considerava "il primo rivoluzionario".
E anche se ad una lettura superficiale potrebbe risultare
paradossale affermare che il messaggio sociale cristiano
sottenda l'indignazione anarchica che anima la poesia di
De André, l'analisi di alcuni elementi che la contraddistinguono
sin dalle sue prime espressioni non può che confermare
questa tesi.
Il principale di essi è, in assoluto, il sentimento
della pietas , della pietà per tutti gli umili, i
vinti, gli esclusi.
È, per dirla con il poeta Yeats la "pietà
ineffabile che si nasconde nel cuore dell'amore" ;
oppure ancora, per dirla in questo caso con Blaise Pascal,
quella che va a nutrire la poesia di De André, è
"una pietà della tenerezza" .
È pietà per gli assassini del Delitto di
paese, è pietà per chi "sulla croce
sbiancò come un giglio", "per chi non ha
sorriso", per i drogati, per le prostitute, per i bambini
che "dormono sul letto del Sand Creek", per il
bandito sardo "senza luna senza stelle senza fortuna",
per le "spose bambine" dei rom che vanno a "caritare"
e, ancora una volta, sinteticamente, è pietà
per chiunque viaggi "in direzione ostinata e contraria".
Nello studio Che cos'è l'arte l'anarchico
cristiano Tolstoj scriveva: "C'è sempre in ogni
epoca e in ogni società umana una coscienza religiosa
del bene e del male comune a tutti gli uomini di tale società,
ed è questa coscienza religiosa a determinare il
valore dei sentimenti espressi dall'arte".
È la stessa coscienza a far muovere a De André
le corde della pietà, ma con quali obiettivi?
"Ho sempre pensato disse una volta Fabrizio
De André di dover essere socialmente utile
per contare qualcosa. (...) In tutti i miei lavori mi sembra
che l'impegno sociale ci sia sempre [ed è] fatto
... con l'intento di rendermi utile alla collettività".
L'arte, dunque, per De André, è, come ancora
una volta scriveva Tolstoj, uno strumento "per l'avanzamento
dell'umanità verso la perfezione" ed è
una perfezione che in De André si è esplicata
da sempre nella semplicità espressiva dei suoi versi,
come se volesse rispondere all'indicazione dello scrittore
russo quando nel 1897 scriveva: "L'artista del futuro
capirà che inventare una favola, una canzone commovente,
una filastrocca [...] e disegnare un'immagine capace di
allietare decine di generazioni o milioni di bambini e di
adulti è immensamente più importante e fecondo
che non scrivere un romanzo o una sinfonia, o dipingere
un quadro in grado di distrarre per un po' di tempo qualche
persona delle classi ricche per poi essere dimenticato per
sempre"
È sempre Tolstoj che contrappone l'arte vera all'arte
falsa "che nasce dalla divisione della società
in classi opposte e dalla irreligiosità delle classi
dominanti" .
Come Pasolini
Ed è quella stessa irreligiosità che De André
sottolinea più spesso per evidenziare la grettezza
e la volgarità degli intenti della piccola e grande
borghesia e che trova il suo apice in La buona novella
dove, procedendo come il Pasolini di Il Vangelo secondo
Matteo, De André non solo disegna le figure della
narrazione spogliandole dell'aura della mistica tradizionale
e dando loro la dimensione umana di precarietà e
conflittualità esistenziale astorica ma evidenzia
anche i pregiudizi dei dogmi e la violenza del potere che
difende sé e i propri privilegi calpestando quella
stessa religiosità di cui si vorrebbe depositario.
Ecco, ovviamente accennato a grandi linee, il perché
gli "eretici" Pasolini e De André, al di
là delle già evidenziate enormi differenze
che li distinguono, possono essere accomunati: contro il
quieto vivere di chi maschera l'ipocrisia con la virtù,
entrambi hanno alzato la loro voce nella rivendicazione
di una radicale diversità dal mondo borghese e dalla
sua razionalità alienante e distruttiva.
Non è un caso che il mondo da loro descritto veda
sempre, come protagonisti positivi, quei soggetti che la
società disprezza e marginalizza e non è un
caso, nemmeno, che in quel mondo entrambi collochino il
"loro" Cristo, uomo e ribelle sconfitto da ragioni
di Stato e "di bottega".
Sia Pasolini che De André circondano e fanno attraversare
quell'universo reietto dalla volgarità delle ricchezze
ostentate e dall'ignoranza elevata a valore.
Scomparsi questi due grandi intellettuali, possiamo solo
augurarci che altri abbiano preso e prendano in mano il
loro testimone per proseguire l'impegno a resistere e a
combattere, anche con le armi della parola e della poesia,
questo sistema che produce violenza, sfruttamento e infamità:
altrimenti non ci resterà che una lunga "domenica
delle salme" fatta appunto di ricchezze ostentate e
di ignoranza elevata a valore.
Romano Giuffrida
Questo saggio è stato presentato
come relazione al Convegno di studi "Per mari, per
cieli, per terre, con Fabrizio, alla ricerca dell'Uomo"
tenutosi a Garessio (Cn) gli scorsi 14 e 15 luglio. La pubblicazione
degli Atti è al vaglio degli organizzatori: se ci
saranno novità, ne daremo conto ai lettori di "A".
1. J. P. Sartre, Plaidoyer
pour les intellectuels, Édition Gallimard, Paris
1972; tr. it. Che cos'è un intellettuale? In Difesa
dell'intellettuale, Theoria, Roma - Napoli 1992, p.
67.
2. F. De André, Conversazione privata del .....
in Faber, videodocumentario di B. Bigoni e R. Giuffrida,
Minni Ferrara Produzioni, Prov. di Milano - sett. cultura,
Tele +, Milano 1999.
3. P. P. Pasolini in Pasolini l'enragé, intervista
filmata di J. A. Fieschi 1966. Sintesi in P. P. P., Interviste
corsare, Liberal Atlantide Editoriale, Roma 1995.
4. Ibid.
5. F. De André, prefazione a F. Villon, Poesie,
Feltrinelli, Milano 1996.
6. P. P. Pasolini, intervista a Paese Sera con titolo: C'è
un abisso tra Nehru e gli indiani, 25 - 26 febbraio
1961.
7. M. A. Bakunin, Stato e anarchia, Feltrinelli,
Milano 1996.
8. Ibid.
9. Max Stirner, L'Unico e la sua proprietà,
Edizioni Anarchismo, Catania 1993 - Max Striner è
lo pseudonimo che si scelse Johann Kaspar Schmidt (1806/1856),
filosofo della sinistra hegeliana che, in contrapposizione
all'universalismo hegeliano, contrappose il riconoscimento
dell'individuo come unica realtà e unico valore della
storia. Le sue posizioni influenzarono il dibattito filosofico
sull'anarchismo nella seconda metà dell'Ottocento.
10. Quella, per intenderci, cantata nei versi "Di respirare
la stessa aria/ dei secondini non ci va/ e abbiam deciso
di imprigionarli/ durante l'ora di libertà".
11. E ciò, appunto, determinato dalla dimensione
carceraria nella quale De André fa compiere al protagonista
di Storia di un impiegato il passaggio dall'io al
noi.
12. AA. VV. La dimensione libertaria del Sessantotto,
Volontà 3/88, Editrice A, Fabrizio De André:
Siamo per sempre coinvolti.
13. Ibid.
14. P. P. Pasolini, Il Giorno, intervista di Giorgio
Bocca dal titolo: "L'arrabbiato sono io", 19 luglio
1966.
15. R. Giuffrida - Bruno Bigoni, Canzoni corsare
in Accordi Eretici, Euresis Edizioni, Milano 1997.
16. W. B. Yeats, The Pity of Love.
17. B. Pascal, Pensieri.
18. D. Fasoli, Fabrizio De André, La cattiva strada,
Edizioni Associate, Roma 1995.
19. L. Tolstoj, Che cos'è l'arte?
20. Ibid.