Qualche cifra sull'industria libraria italiana ci può
essere utile per fare alcune riflessioni. Sono dati che si riferiscono al nostro
paese, e nemmeno tanto aggiornati, ma sono cifre che esprimono più o meno
le tendenze a livello mondiale. Non a caso siamo nell'età della globalizzazione.
Dunque, il fatturato complessivo del settore editoriale era nel 1980 di 1.050
miliardi circa, nel 1990 era salito a 3.500 miliardi e nel 1999 era di poco inferiore
ai 4.500 miliardi. Negli stessi anni, le vendite in libreria ammontavano rispettivamente
a 350, 1.695 e 1.900 miliardi.
La produzione annua di titoli era di 19.680 nel 1980, di 37.780 nel 1990 e di
55.000 circa nel 1999. Ma, attenzione, la tiratura media per titolo, che era di
8.500 copie vent'anni fa, è andata gradualmente calando e oggi è
di poco superiore alle 5.000 copie. Il numero delle case editrici presenta invece
un a tendenza all'aumento: ufficialmente erano 2.500 dieci anni fa e oggi sono
circa 4.000. Per fatturato al primo posto c'è il gruppo Mondadori, seguito
dal gruppo RCS, e seguono una serie di case editrici cosiddette "di servizio"
o scolastiche: IPSOA, Zanichelli, Giuffré, mentre gli editori "puri",
come Longanesi o Adelphi hanno un fatturato pari al 10 per cento della Mondadori
o della RCS Libri.
Altri dati interessanti riguardano i lettori. Tradizionalmente le statistiche
li dividono in lettori deboli (almeno 1 libro all'anno), medi (da 1 a 3 libri,
forti (da 4 a 11) e fortissimi (più di 12 libri all'anno). Ebbene i lettori
"deboli" erano 18 milioni nel 1988 e 22 milioni nel 1997, i "medi"
8,7 e 10,5 milioni negli stessi anni, i "forti" sono passati da 7,6
a 9 milioni e i "fortissimi" da 1,8 a 2,9 milioni rispettivamente.

Far mostra di sé
Una cosa che salta immediatamente agli occhi è che gli anni ottanta
sono stati un periodo di grande crescita ed espansione. Sono anche gli stessi
anni in cui l'informatica e il computer si diffondono a livello capillare. Se
quindi da un lato sembra che le nuove tecnologie destinino al libro stampato un
ruolo sempre più marginale, certe cifre paiono contraddire questa tendenza.
L'altro fenomeno di tendenza è l'impressionante crescita dei titoli pubblicati
e la contemporanea riduzione delle tirature. Come lo si spiega? Non c'è
dubbio che questo andamento rispecchi sempre di più la trasformazione del
libro in un oggetto di largo consumo. Mentre una volta si pubblicavano molti libri
cosiddetti "di catalogo", destinati a restare in vendita sugli scaffali
delle librerie per anni e anche decenni, oggi gran parte dei libri, dal best-seller
al saggio critico, vive, nella migliore delle ipotesi, una breve stagione di splendore,
in genere di qualche mese e poi scompare del tutto, sostituita in vetrina e nelle
pagine dei supplementi letterari dalle ultimissime novità. Tutti ambiscono
a far mostra di sé nella stagione natalizia e stanno bene attenti a non
uscire con qualche titolo che ha forti possibilità commerciali in agosto.
Ma, se si pensa che molti dei quasi sessantamila titoli che escono oggi non venderà
nemmeno una copia, ci deve essere qualche altra spiegazione. E forse questa sta
nell'impiego delle nuove tecnologie, che ha reso molto più semplice ed
economico produrre certi libri.
Ma c'è di più. Scriveva Walter Benjamin in L'opera d'arte nell'epoca
della riproducibilità tecnica: "Con la continua diffusione della
stampa, che mette davanti al lettore sempre nuovi testi di politica, di religione,
scientifici, professionali, ci sono sempre più lettori che si trasformano
in scrittori... Oggi non c'è quasi nessun europeo che, in linea di principio,
non riesca a trovare un'occasione per pubblicare da qualche parte commenti sul
proprio lavoro, relazioni, critiche, ogni sorta di cosa. Così, la distinzione
tra autore e pubblico tende a perdere le sue caratteristiche di fondo". E
già un secolo e mezzo fa qualcuno aveva profetizzato questa tendenza: "Si
osservi anche come ogni macchina deve avere la sua forza motrice, in qualcuna
delle grandi correnti sociali: ogni minuscola setta tra di noi, gli Unitaristi,
gli Utilitaristi, gli Anabattisti, i Frenologisti, deve avere il proprio Periodico,
la sua rivista o il suo sacro testo, che si agita come un mulino a vento nella
popularis aura, per macinare il grano per la società." (Thomas
Carlyle, Sign of the Times, 1860). Oggi con un personal computer e la stampa
digitale i tempi di produzione si semplificano ed esistono addirittura certe macchine
digitali che "copiano" un esemplare di libro in pochi secondi, risolvendo
così il problema delle ristampe e delle basse tirature.
Il fatto è che, se da un lato il libro stampato tende a trasformarsi sempre
più in uno dei tanti oggetti di consumo, dall'altro non ha perso del tutto
la sua funzione sacrale. E forse qui, stranamente, si gioca ancora una partita
che ha visto da sempre contrapposte due concezioni; forse nel dibattito sulla
funzione del digitale, della difesa o meno del copyright, sul nuovo ruolo dell'editore
e della biblioteca, non sono tanto le questioni tecniche che stanno in primo piano.

Il profitto privato
Non è questo il luogo per fare una storia della parola scritta, ma basta
ripensare alle epoche in cui la scrittura non esisteva o ai luoghi dove ancora
non esiste. Il sapere era trasmesso oralmente, spesso in poesia o cantato, perché
così è più facile da tenere a mente, come facevano gli aedi
nell'antica Grecia o fanno ancora oggi i griot nell'Africa subsahariana. Tutti
ascoltavano il canto o la poesia, apprendevano così la storia degli antenati,
i grandi segreti della natura e del mondo invisibile, le gesta degli dei e degli
eroi. Poi la scrittura crea una prima discriminazione. Chi la sa usare cristallizza
il sapere, ne vuole fare un patrimonio esclusivo, uno strumento di potere. E cominciano
le polemiche. Socrate, si sa, era per il dialogo e non gli piacevano le affermazioni
apodittiche e quindi i libri. Platone (che però scriveva), gli fa dire:
"Che cos'è un libro? Sembra un essere vivente, ma se lo interroghiamo
non risponde e allora ci accorgiamo che è morto". E questo oggetto
morto in cui si annida il dogma diventa il Libro con la elle maiuscola, quello
che deve andare solo in mani sicure, secondo i Padri della Chiesa, che non deve
finire nelle mani dell'ignorante, per non trasformarsi in un'arma micidiale, quello
che contiene la Verità, quello su cui l'inquisitore passa la notte per
controllare se sia possibile che la terra giri intorno al sole.
Poi qualcosa cambia con la stampa a caratteri mobili e con la Riforma. Se spetta
a ogni credente leggerlo e interpretarlo, il libro sacro non deve essere più
relegato nel profondo dei conventi e affidato solo alle mani del sacerdote: deve
circolare il più possibile e trovare la compagnia di altri libri che aiutino
nell'interpretazione. Per questo è nei paesi della Riforma che nasce la
moderna editoria e la moderna stampa periodica, sorgono le Public Libraries,
ben diverse per concezione dalle biblioteche di conservazione che fino a poco
tempo fa prevalevano nei paesi di tradizione cattolica. Allora tutti i libri acquistano
sacralità. George Bernard Shaw, a chi gli chiedeva se credeva che la Bibbia
fosse opera dello Spirito Santo, rispose che secondo lui tutti i libri erano opera
dello Spirito Santo. Per tornare a noi, oggi, ecco quindi come si presenta la
situazione.
Il mercato globale, i poteri forti, tendono trasformare il libro in un oggetto
di largo consumo e di facile accesso, ma di forma e contenuti sempre più
scadenti. Per questo si parla dell'editore come chi fornisce "informazione"
e per informazione s'intende una serie indifferenziata di dati, e non più
il suo ruolo di "mediatore culturale". In questo ambito non interessa
tanto il diritto d'autore e si privilegia soprattutto la massima estensione del
mercato. Le forme e i contenuti che contano (stampati o digitali che siano), devono
restare in mano a pochi. In questi ambiti infuria la battaglia contro la libera
riproducibilità e s'innalzano barriere economiche e legali, a esclusiva
difesa di quanto c'è di più sacro nell'universo globalizzato: il
profitto privato.
Guido Lagomarsino

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