Di che cosa parla questo libro? Parla di un sistema
sociale basato sulla decisione di escludere il denaro come incentivo per il lavoro
e come indicatore del prestigio e del valore delle persone. Si mettono tutti i
soldi in un cappello e si utilizzano secondo le necessità.
Parla di un sistema sociale che ha stabilito che alcuni strumenti sono pericolosi
per la vita di relazione e quindi non devono essere accettati all'interno del
sistema stesso.
Parla di un sistema sociale in cui si è stabilito che certe categorie usate
per classificare le persone (per esempio la follia o il ritardo mentale) sono
deleterie per le relazioni sociali e che quindi vanno evitate. Altre categorie
considerate a rischio e quindi vietate sono, per esempio, quelle di direttore
o di capo. Chi vive all'interno del sistema è un residente o un collaboratore.
Ciò non significa che tutti sono uguali nel quotidiano: qualcuno ha più
autorità, ma si tratta di un'autorità che li riguarda per come sono
e per come si comportano in quanto persone, e non di un ruolo ufficiale sanzionato
dal sistema. I residenti abitano insieme nella stessa casa, vanno al lavoro nel
villaggio stesso e qui partecipano a comuni attività culturali.
Un sistema come questo può essere definito "istituzione totale",
anche se questo termine è molto screditato nella letteratura sull'argomento.
Ma voglio spingermi ancora più in là, definendo il sistema con un
termine che in genere ha un'accezione molto negativa: non ho niente in contrario
a chiamarlo "ghetto". E lo dico con le migliori intenzioni.
I ghetti si sono dimostrati luoghi fatali ai tempi del nazismo e del fascismo.
Ma questo non deve farci dimenticare la validità di certi aspetti della
vita che si svolgeva al loro interno. La gente vi era riunita sulla base di una
presunta identità razziale, ma in realtà per una comunanza di storia
e di cultura, ed era forse costretta a stringere straordinari legami di collaborazione
dalle minacce che provenivano dall'esterno o magari perché infiammata dalle
idee e dalle profezie di qualcuno. Potevano diventare luoghi tremendi per vivere,
se si violavano le norme fondamentali della convivenza. Ma erano anche e nello
stesso tempo luoghi in cui l'esistenza offriva in misura notevole certezze e relazioni
intense e vivaci che oggi non troviamo più nella nostra vita di ogni giorno.
Chi ha toccato con mano gli aspetti positivi della vita di un ghetto non si riadatterà
mai completamente a un'esistenza al di fuori di questo.
Il concetto di
sottosviluppo
La prima edizione di questo libro risale al 1989. Che cos'è successo
da allora? L'editor di Elèuthera mi ha chiesto di raccontarlo in questa
prefazione. Ho cercato di resistere, ma è tornato alla carica. E aveva
ragione. Ma non è facile se lo si vuol fare seriamente. Non è facile
perché la cosa più notevole che è successa da quando ho scritto
il libro è che non è successo proprio niente d'importante. È
stato un periodo di stabilità e non di cambiamenti.
Come mai una situazione in cui non cambia niente è più difficile
da descrivere di un cambiamento? Perché va contro lo spirito dei tempi
e quindi è facile che la si giudichi negativamente.
Un'idea dominante nella nostra cultura è quella che impone di adattare
tutte le forme sociali in modo da farle rientrare nel quadro dato. È così
per la modernità.
Correva l'anno 1949 quando Harry Truman lanciò la campagna contro il sottosviluppo
con la quale voleva cambiare il mondo e trasformarlo in un consesso di nazioni
tutte altamente industrializzate. Bisognava sottrarre i poveri del Terzo Mondo
al sottosviluppo e alla miseria. Dietro questo progetto c'era una ideologia aggressiva
che presumeva che l'unica esistenza valida fosse quella conforme ai criteri imposti
dalla razionalità economica.
C'era nello stesso tempo l'idea che tutti i Paesi dovessero svilupparsi secondo
il nostro modello e con le finalità schematiche da noi previste. Il concetto
di sottosviluppo oggi è caduto in discredito a vantaggio della definizione
più corretta di Paesi del Terzo Mondo, ma la realtà rimane la stessa:
si devono aiutare questi Paesi a raggiungere il nostro livello, bisogna ristrutturare
i loro vagoni di terza classe in modo che siano simili ai nostri di prima classe.
Per farlo, questi Paesi devono cambiare una delle loro principali caratteristiche
e da multi-istituzionali diventare mono-istituzionali.
Da homo
sapiens a homo miserabilis
Allora saranno in grado, in quanto Stati, di tirarsi fuori dalla loro condizione
di dipendenza internazionale. Nello stesso tempo però (e la ricetta del
cambiamento sociale trascura questo particolare) la nuova situazione farà
sì che un numero notevole di cittadini finisca in una situazione di dipendenza
individuale. La cosa si può prospettare in un altro modo: per aumentare
il prodotto nazionale i Paesi sottosviluppati dipendono da quelli altamente sviluppati,
ma al contempo nel loro sottosviluppo sono strutturati spesso in modo da garantire
spazio per tutti, perché c'è bisogno del lavoro di tutti. Uscendo
dalla condizione di sottosviluppo, la situazione si ribalta: la dipendenza nazionale
da altri Stati viene barattata con la dipendenza individuale di molti cittadini.
Questi Paesi entrano così nel novero degli Stati composti da produttori
e da consumatori e allora, secondo la logica che prevale nell'era dell'automazione
e della razionalizzazione, molti dei loro abitanti precipitano rapidamente in
una situazione che nega loro una piena partecipazione alle uniche attività
considerate importanti, quelle della produzione e del consumo.
Dice Ivan Illich (1992, pp. 88-101):
In piena era industriale, per moltissime popolazioni che vivevano in una cultura
di sussistenza la vita era ancora fondata sul riconoscimento di limiti che non
si potevano travalicare e dell'impossibilità di uscire dai confini immutabili
della necessità. Il suolo dava sempre gli stessi prodotti, ci volevano
tre giorni per andare al mercato, il figlio sapeva già il proprio futuro
osservando la sorte del padre... si doveva affrontare il bisogno, le necessità...
In un'economia di pura sussistenza, l'esistenza di desideri è tanto scontata
quanto la certezza dell'impossibilità di soddisfarli.
Si accettava l'esistenza com'era. Si avevano desideri, ma più come speranze
che come esigenze basate su diritti. L'essere umano, nella prospettiva di Illich,
si trasforma da homo sapiens a homo miserabilis.
Vista così, l'idea di sviluppo è un'idea imperialista. Lo è
nell'arroganza delle nazioni più sviluppate: vi aiutiamo a diventare come
noi. Lo è per il fatto che l'aiuto consiste in un incoraggiamento o in
una costrizione che obbliga i Paesi più poveri a passare da una struttura
multi-istituzionale a una mono-istituzionale, facendo sì che le idee e
i valori di un'istituzione colonizzino e soffochino quelli delle altre.
Vidaråsen e gli altri "villaggi Camphill" di cui parla il libro
rappresentano un tipo di esistenza che non ha ceduto alle pressioni dello sviluppo.
Si è respinta la modernizzazione, si sono analizzati i valori delle società
di un tempo, se ne è presa coscienza e ci si è riorganizzati sulla
base di questi.
Ecco qual'è il problema se si vuol raccontare che cosa è successo
dopo.
Non è successo molto da quando il libro è uscito. Perché
mai avrebbe dovuto? L'esistenza nei villaggi ha un ritmo lento: si nasce, s'invecchia,
si muore; ogni tanto arriva qualcuno che rimane per un po' o per tutta la vita.
Si costruisce una nuova casa, si restaurano quelle vecchie, ma per lo più
la vita va avanti come sempre. Proprio come succedeva nei villaggi del passato.
Arriva, però, un'altra e più difficile domanda: com'è possibile?
Come si spiega un'assenza di sviluppo in un mondo dominato dalla fede nel progresso?
Io non ho risposte certe, solo qualche ipotesi. In primo luogo c'è il fatto
che per le attività che si svolgono nei villaggi il punto di riferimento
principale sono gli abitanti. Molti hanno problemi a camminare e questo pone già
dei limiti alla crescita in estensione degli insediamenti. Lo stesso effetto ha
la scarsa propensione ad accettare le gerarchie burocratiche, che invece sono
difficili da contrastare se le strutture sono troppo grandi. Un altro fattore
è l'assenza di incentivi monetari. Non c'è niente da guadagnare.
Così, se bisogna rapportarsi con più persone e si ha meno tempo
per le relazioni più strette, è facile vedere nello sviluppo una
minaccia per la qualità della vita.
Eppure molti di quelli che risiedono nei villaggi sono cresciuti nella società
cosiddetta "normale". La quale società li ha formati all'idea
di progresso come fine, li ha educati ad avere un lavoro, una famiglia, a farsi
strada tanto socialmente come economicamente, magari a creare una propria impresa:
tutti i consueti simboli del successo. Perché rimangono? Perché
non trasformano i villaggi in moderni ospizi di un tipo o dell'altro?
Credo che la ragione principale stia nel fatto che nei villaggi non mancano sfide
alternative. Se si vive accanto a un essere umano che non comunica col normale
linguaggio, è un enorme successo riuscire a comprendere quello che comunica
col linguaggio del corpo, e poi ampliare sempre più questa comprensione.
Se una persona che non è mai stata in grado di andare a piedi da sola da
una casa all'altra un bel giorno riesce a compiere questa impresa eroica, è
chiaro che quella è una festa per tutti. Oltre a ciò ci sono tutte
le gratificazioni sociali tipiche dell'esistenza in un ghetto: ci sono tanti elementi
di stabilità in un villaggio.
Eppure le cose avrebbero potuto andare per il verso sbagliato. I villaggi correvano
il rischio di finire schiacciati dalla situazione economica. Non per mancanza
di soldi, ma proprio per il contrario!
I rapporti con lo
Stato
Ho già detto che l'organizzazione sostanzialmente prevede di mettere
tutti i soldi insieme, "in un cappello", e più avanti nel testo
potrete leggere come il sistema funziona precisamente. Quello che tengo a dire
subito, qui nella prefazione, è che questo principio garantisce ai villaggi
la possibilità di essere strutture sociali relativamente ricche. I villaggi
ricevono meno finanziamenti dallo Stato norvegese di qualsiasi altra struttura
che si occupa di persone con gravi difficoltà. E questo anche se le persone
che vi risiedono non hanno entrate personali. Il villaggio è la loro casa
e la loro famiglia. Non devono comprarsi l'appartamento o l'automobile, non devono
pagare l'assicurazione. Per questo gran parte del denaro rimane nel cappello e
lo si preleva per risistemare i fabbricati, per comprare nuovi cavalli, per coltivare
più terreni, per costruire una nuova sala per le feste, per edificare le
abitazioni per i nuovi arrivati. Il rischio sta proprio qui: usare i soldi per
allargarsi troppo, o per dare una gratifica extra a qualcuno particolarmente meritevole
(cosa che metterebbe in discussione i criteri di egualitarismo all'interno del
villaggio), o per elevare lo standard di vita a un livello di molto superiore
rispetto a quello norvegese. Tutte cose che provocherebbero tanti grattacapi,
mettendo in pericolo la stabilità stessa del sistema, non per carenza ma
per eccesso di denaro.
La soluzione del problema è stata la generosità. Il fatto più
significativo accaduto dopo l'uscita del libro è stata l'enorme espansione
del movimento dei villaggi nell'Europa orientale. Ne sono stati fondati altri
quattro, uno in Russia, uno in Estonia, uno in Polonia e, più di recente,
uno in Lituania. Tutti e quattro hanno ricevuto dai villaggi norvegesi un importante
sostegno, costituito da sovvenzioni in denaro, costruzioni, attrezzature e personale.
Osservando questo sviluppo ho temuto, nei primi anni, che i villaggi norvegesi
avessero preteso un po' troppo dalle loro forze. Anche qui da noi c'era bisogno
di soldi e di manodopera, era pericoloso mandare tutto a est.
Mi sbagliavo. Avrei dovuto ricordarmi dell'istituzione del potlatch come degli
altri casi descritti dagli antropologi, casi in cui il surplus veniva distrutto,
ceduto o ridistribuito in modo che la struttura di fondo della tribù o
della comunità non cambiasse o non ne soffrisse. Aiutando a far nascere
i villaggi nell'Europa orientale, quelli norvegesi hanno saputo preservare la
propria identità. La spinta imprenditoriale ha trovato uno sfogo non devastante.
L'avanzo attivo è stato usato per uno scopo buono. È stato sì
uno sviluppo, ma nel senso di un sommarsi di nuovi villaggi, di esempi ulteriori
di una possibile esistenza alternativa. E in quei Paesi c'è un gran bisogno
di alternative che contrastino l'occidentalizzazione che sta diffondendosi, con
il suo messaggio sulle meraviglie prodotte dalla concorrenza economica e dallo
sviluppo.
Nils Christie

Nils Christie
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