Ma che cosa è poi un negro?"
si domandò Jean Genet nell'accingersi a soddisfare la richiesta di "scrivere
una commedia per un gruppo di negri". "E per prima cosa, di che colore
sono i negri?". Il testo de I Negri, che avrebbe dovuto essere rigorosamente
interpretato da attori neri per un pubblico di bianchi, è un complesso
gioco di specchi che, anziché risolvere la domanda sull'identità
e il concetto di negritudine, costruisce e riflette fantasmi prodotti da cupi
risentimenti e desideri segreti. Cosicché al pubblico dei bianchi è
offerta la doppia rappresentazione di una compagnia di neri che incarna lo stereotipo
della negritudine (selvaggia ed erotica) di fronte a una corte di bianchi (ossia
neri mascherati) raffigurata nell'immagine grottesca attribuita loro dai neri
(le figure dei dominatori stranieri in una società coloniale). Alla corte
il gruppo di attori offre la rappresentazione rituale di un delitto per il quale
chiede di essere giudicato e condannato: l'omicidio con stupro di una donna bianca.
Il delitto si ripete ogni sera, sulla base di un testo stabilito, e ogni volta
è necessaria una vittima sacrificale ("una salma fresca") per
la quale è già allestito il catafalco coperto di fiori, sul proscenio.
Genet ha raccontato di essere stato definito ladro all'età di dieci anni
e di avere deciso di conseguenza di diventarlo, per "essere quello che gli
altri volevano". Archibald, il cerimoniere del dramma, dice: "siamo
su questo palcoscenico come dei colpevoli che recitassero in prigione la parte
dei colpevoli". L'immagine di colpevolezza loro attribuita dalla corte dei
bianchi è confermata dal rituale drammatico che colloca gli attori neri
nel "mondo della riprovazione": sufficientemente separati dagli spettatori
per tranquillizzarli rispetto al "dubbio che un simile dramma possa penetrare
nelle loro preziose vite", ma anche sufficientemente esperti dell'illusione
teatrale per alimentare odio, stuzzicare desiderio e "lavorare alla tristezza"
di chi osserva (poiché "per loro la tristezza è ancora un ornamento").

I Negri sono loro
La domanda su chi siano i negri, e quale sia il loro "colore" se
la sono posti, dopo Genet, tutti i registi che si sono avventurati nel labirinto
di specchi dei Negri. Roger Blin, il primo a mettere in scena il testo,
nel 1959 al Théâtre de Lutèce a Parigi, con la compagnia nera
"Les Griots", ne fece una cerimonia crudele e grottesca nella quale
la Francia di De Gaulle, alle prese con il processo di indipendenza delle Colonie,
si vide riflessa con non pochi traumi (suscitati, significativamente, negli spettatori
bianchi come in quelli neri). Peter Stein, che ha diretto il lavoro nel 1983 per
la Schaubühne di Berlino con una compagnia di attori bianchi, ha lavorato
piuttosto sul paragone tracciato da Genet fra il negro e l'attore, con tutte le
conseguenze che ne derivano rispetto alla definizione di una realtà a partire
da "un gioco teatrale o un'esplosione metaforica". Pertanto, la cosa
più importante per lui non era tanto l'Africa o il colonialismo, ma il
teatro. Luogo dove si rappresentano e attribuiscono identità sulla base
di un accordo convenzionale ferreo quanto provvisorio, eppure in grado, come previsto
dal cerimoniere Archibald, di far comprendere "quello che si cela o si può
celare sotto questo vuoto gioco di parole".
Di recente la Compagnia della Fortezza di Armando Punzo ha trovato nel labirinto
di specchi dei Negri qualcosa di più di un importante testo di riferimento,
intraprendendo a mio avviso, a partire da questo incontro, una fase ben precisa
della sua esperienza teatrale. "I Negri sono loro", ossia i carcerati,
si è detto Armando Punzo, ed ha quindi affiancato Lombroso a Genet amplificando
l'effetto delle immagini prodotte e riflesse in un grottesco gioco di deformazioni
alle quali gli attori offrivano come specchi i propri volti, manipolandovi i tratti
lombrosiani. Dopo quello spettacolo, gli attori detenuti hanno continuato a rappresentare
i luoghi comuni e i pregiudizi più persistenti attorno al teatro in carcere
e a loro stessi, lavorando sulla riproduzione di "quello che gli altri volevano".
Nell'Orlando Furioso (costruito proprio sulla drammaturgia spaziale del
labirinto) gli attori si rivelavano infine come pupi, riconsegnandosi agli invisibili
fili del manovratore; in seguito hanno accolto il pubblico nel cortile del carcere
trasformato in una sorta di villaggio balneare (Insulti al pubblico) e
infine hanno costruito un Macbeth in forma di psicodramma, facendosi carico
dell'immagine del delitto e rappresentandola, al fine di replicare (esattamente
come nel rituale genettiano) colpe singole e collettive, e regalando al pubblico
un ben dosato "ornamento di tristezza".
Un'esperienza teatrale altrettanto sorprendente ci è stata offerta di recente
da una giovanissima compagnia iraniana che ha presentato il suo lavoro al Teatro
Festival di Parma nell'ottobre scorso. In tempi in cui spettacoli di ambientazione
mediterranea, anche di pregio e sicuramente fondati sulle migliori intenzioni,
sono stati criticati (di sicuro altrettanto fondatamente) per un certo neo-orientalismo
di maniera (ossia per un'idea e un'immagine dell'oriente fondata sul compiacimento
di suggestioni e aspettative occidentali) è stato ancor più significativo
vedere questo gruppo di attori misurarsi con un testo (e con un tipo di lavoro
teatrale) che non solo non ha nulla a che fare con la tradizione o con un certo
immaginario "esotico", ma che contiene al proprio interno esattamente
questa riflessione (anche se riferita al rapporto fra Nord e Sud piuttosto che
fra Ovest ed Est del mondo). Un testo, I Negri, che si fa carico della
rappresentazione stereotipata del nero e la rilancia come da uno specchio grottescamente
distorto sul pubblico di bianchi che ne è idealmente l'ispiratore, rappresentato
da giovani iraniani che, attraverso Genet, incarnano con un'enfasi in questo caso
non grottesca ma assolutamente crudele il martirio e l'oppressione di un popolo,
infrangendo più che distorcendo il riflesso di immagini stereotipate.
Il riferimento al testo si perde eppure rivive nelle maschere facciali che riproducono
i tratti del potere militare, nel reiterato cerimoniale di condanne ed esecuzioni
comminate da un tribunale che si chiude la bocca e si arma la mano, a minacciare
donne che provvedono da sole a chiudersi bocca, occhi e orecchie con le dita atteggiate
a pistola. Nessun riferimento all'oppressione coloniale o razziale, ma piuttosto
al chiuso di un mondo (delimitato significativamente dal cerchio degli spettatori)
dove il martirio di una generazione si è già consumato, negli otto
anni di guerra che hanno prodotto un milione di morti, lasciando a questa giovane
società la responsabilità della rinascita: ossia una memoria da
ricostruire per colmare diciotto anni di oblio imposti dalla chiusura teocratica
della Repubblica islamica e dall'isolamento internazionale.

Una primavera del
teatro
La ricostruzione della memoria culturale e teatrale è fra gli elementi
più sorprendenti. La generazione dei ventenni (che rappresenta il 55% della
popolazione di Tehran e la metà dell'intero Iran) si sta affacciando con
forza al desiderio di un cambiamento di cui vuole essere protagonista. Il paese
conta sei milioni di studenti, la maggioranza ragazze che usano il chador
come una protezione, una sorta di lasciapassare per accedere al mondo dello studio
e del lavoro. Molti giovani conoscono a memoria i testi di Sartre, Camus e Genet
(e ne individuano le più piccole censure imposte sulle scene iraniane),
affollano i festival teatrali (un milione di presenze hanno registrato complessivamente
i dieci giorni del Festival di Tehran, fra spettacoli al chiuso e all'aperto),
frequentano le scuole di teatro, scrivono nuovi testi e danno voce, coi loro spettacoli,
ai temi più scottanti del momento: i rapporti fra la popolazione e la polizia,
la pena di morte, la libertà delle donne.
L'attuale primavera del teatro nasce in Iran da un inverno che non ha conservato
semi da trasmettere, in realtà. Il teatro pubblico ha taciuto per diciotto
anni e il dialogo con le forme della tradizione (le uniche sopravvissute) è
difficile per i giovani in cerca di un proprio linguaggio. Mohammad Taheri, il
regista venticinquenne dei Negri, afferma che per lui spettacoli come la
ta'zieh (l'antica forma tragica presentata pure al Festival di Parma) sono
solo rappresentazioni religiose, e lavora per un teatro sperimentale, in assenza
di aiuti economici e nella volontà di rompere vecchi legami per costruirne
di nuovi. In questo senso, la sua generazione di giovani attori e registi si va
inventando un universo di riferimenti che prescinde per forza di cose dalla trasmissione
diretta dell'esperienza. Mohammad Taheri parla del suo innamoramento per Grotowski
(che non può aver conosciuto se non negli scritti), ma nel suo teatro si
rintracciano sicuramente le esperienze del primo Barba e del Living. Eppure
e questa è la cosa più sorprendente il suo giovanissimo gruppo,
che nasce da un ventennio di buio teatrale, ha saputo trovare i maestri che non
ha avuto nelle esperienze fondatrici della ricerca internazionale, e ne applica
ora la lezione non affatto da epigono, ma restituendo a quei modelli la forza
e la necessità dell'invenzione in stato nascente.
Alla nascita (anche teatrale, ritengo) lo spettacolo allude fin dall'inizio, con
gli attori che entrano nel buio del cerchio-utero e affermano la loro esistenza
fra gli spasimi di una nascita che avviene sotto la minaccia costante di violenze
inferte e subite. Donne e uomini nuovi che nascono come divincolandosi da un costringimento,
con movimenti sconnessi e disarticolati, scossi da un disagio spastico, tra raffiche
di mitra ed esplosione di una fisicità scomposta e violenta. Sdraiata a
terra, come il corpo di Polinice nell'Antigone del Living e forse a rappresentare
la vittima sacrificale della cerimonia dei Negri, la donna che all'inizio
viene chiamata madre. Il tema del martirio è costantemente presente (d'altro
canto si sa quanto lo sia attualmente in Iran) assieme a quello del sacrificio,
che si lega da una parte alla cultura sciita e dall'altra a una precisa presa
di posizione teatrale: ispirandosi sicuramente all'attore sacrificale di Artaud
e quindi al Living e a Grotowski. Un martirio, quello del popolo iraniano, dal
quale si vuole esca il mondo nuovo. E mentre le raffiche e le esplosioni continuano,
così come le immagini di esecuzioni e di corpi giustiziati e appesi al
soffitto, la fantasia produce ribellione raffigurando forme tracciate a terra
coi gessetti. La ribellione di rappresentare, in un mondo che vorrebbe bandire
le immagini, ma soprattutto la ribellione di inventare una realtà. Un volto
sorridente, un bicchiere dal quale si finge di bere, una sigaretta da fumare,
una caramella, infine dei fiori: quelli offerti al catafalco della vittima sacrificale,
forse, o quelli di una difficile primavera sociale e teatrale, mentre altra polvere
di gesso scende come neve sulla rappresentazione dell'estremo strazio: della morte
e del compianto. E ritorna Genet, e la sua idea dei Negri come immagine di tutti
gli umiliati della terra. Figure piegate a terra, le mani legate dietro la schiena
a segnare una scia di sudore sul pavimento. Al centro, la lotta (forse fra la
regina bianca e la regina nera del testo): esatta esecuzione biomeccanica di cui
dimentichiamo persino il riferimento al Mejerchol'd reinventato dal Living, per
la forza che possiede di una nuova invenzione di primo grado.

Sogno di emancipazione
I Negri di Mohammad Taheri hanno abolito maschere e costumi e di conseguenza
la distinzione fra bianchi e neri, padroni e schiavi. La corte è rappresentata
da un solo attore vestito di bianco. Gli altri, uomini e donne, sono completamente
vestiti di nero. (Le donne con una cuffietta di lana in testa). La carneficina
finale non rappresenta nessun rituale di liberazione (la rivolta dei Negri contro
la corte impegnata nella spedizione punitiva nella Colonia). Lo straordinario
lavoro fisico (e vocale e acrobatico) di questi attori sembra sintetizzare nelle
stesse persone il plotone di esecuzione e il giustiziato, le vittime e i carnefici.
Come se ogni corpo si facesse popolo e il gioco di rispecchiamenti fra vittime
e carnefici si infrangesse nell'impossibilità di un popolo sottomesso di
essere se non vittima. Gli spettatori, alla fine dello spettacolo, devono scavalcare
i morti per uscire da questo ventre teatrale dove il rituale della nascita avviene
nel perimetro di un cimitero.
Il cerimoniere di questo spettacolo introduceva il pubblico con parole tratte
da un altro testo (non teatrale) di Genet: "Nelle città d'oggi, il
solo luogo in cui si potrebbe costruire un teatro è il cimitero. La scelta
sarà utile tanto al cimitero che al teatro. [
] Il pubblico (per venire
e andarsene) dovrà seguire dei sentieri che costeggeranno le tombe. Si
pensi a cosa sarebbe l'uscita degli spettatori [
] prima di rientrare nella
vita profana. Né le conversazioni né il silenzio sarebbero gli stessi
che all'uscita di un teatro parigino
".
Ecco, forse, chi sono i negri per Mohammad Taheri, e quale il loro colore. Le
vittime di una storia spietata, che ha prodotto morti e mutilazioni: questo è
lo specchio offerto al pubblico. Il cui desiderio sarebbe piuttosto, in questo
caso, quello di non vedere e non sapere, piuttosto che di essere stuzzicato dal
riflesso delle proprie fantasie.
Mentre il pubblico esce, oltrepassando i cadaveri, la musica martellante di percussioni
che ha accompagnato dal vivo tutto lo spettacolo tace per lasciare spazio a una
canzone lieta di donna nel buio. Genet concludeva I Negri con una scena
d'amore (di cui molto si è discussa l'efficacia teatrale) fra Villaggio
e Virtù. Era in realtà il momento in cui i Negri si ribellavano
alla loro immagine. Costretti a rappresentare l'odio e la selvatichezza, condannati
a odiare in particolare chi aveva suscitato in loro un impossibile sentimento
di amore, Villaggio e Virtù si parlano senza toccarsi immaginando che sia
possibile.
Nello stesso specchio in cui si sono mescolate e deformate le immagini delle vittime
e dei carnefici, si riflette anche un sogno di emancipazione e non sottomissione,
praticato coi mezzi dell'arte, della cultura, del teatro.
Cristina
Valenti
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