Luigi Tenco... Fabrizio De André...
Umberto Bindi... e ora Giorgio Gaber. La mia generazione ha
perso, è vero, ma soprattutto continua a perdere, come
unemorragia inarrestabile, i suoi cantori più significativi,
quelli che per talento innovativo e doppio salto mor-tale nellutopia
hanno scavalcato il dato anagrafico della loro nascita artistica
traghettando nei cambi generazionali successivi, indenni dalle
mode, eterni negli afflati tematici.
Essere testimoni di queste scomparse è come scomparire
un po anche noi e, al contempo, afferrare la fiaccola
del sogno proprio quando è la perdita del sogno a timbrare
il nostro tempo, per contrastare con una disperata resistenza
umanistica la cataratta cerebrale che chiudendosi come una palpebraghigliottina
rende cieca di acriticismo demenziale la maggioranza silenziosa.
Una fiaccola, quella del sogno, sempre più flebile e
tremante come un crisantemo epocale che sigla la fine della
poesia ma la sua ciclica risurrezione è sempre
in agguato in un passaggio di mano di tedofori smembrati
lungo la corsa verso lutopico. Poesia così necessaria
alla nostra sopravvivenza universale e minimale malgrado le
moltitudini talpesche, in questa era tecnogiurassica, che non
ne avvertono neanche la mancanza. Eppure i poeti in musica,
veri aedi contemporanei, hanno fertilizzato la nostra crescita
sia nel privato che nel sociale, dalladolescenza alla
maturità. Ci hanno allertato sugli eventi politici che
intorno a noi, via via, tessevano la loro bavosa tela di ragno,
hanno reso la nostra vista radiografica sulle trame
planetarie a discapito delle popolazioni povere e delle minoranze
in via di estinzione, sulle trappole della falsa democrazia
e della vera reazione, sulle dittature che insanguinavano e
insanguinano la terra depredata. Ci hanno indicato la via della
solidarietà, dellappartenenza alla controcultura
e alla controinformazione. Ci hanno parlato dei sentimenti slegati
dal concetto cattolico del possesso e delleternità
valutando listante, unico e irripetibile, allinsegna
dellemozione che come un falò può accendersi,
bruciare e spegnersi senza perdere la sua valenza selvatica,
il suo diritto di esistere al di fuori degli insegnamenti dottrinali
travasati nelle famiglie di stampo borghese. Insomma, da tempi
lontani, ci sono sempre stati vicini e anche ora, in modo parallelo,
sentiamo tutta la loro fraterna presenza.
Solipsismo manicomiale
È la poesia che da epoche remote non parlava più
alle folle e che, attraverso il mezzo emozionale della musica,
è tornata nelle strade sotto forma di linguaggio unificante,
una sorta di esperanto lirico. Per i poeti italiani odierni,
i poeti letterari, il ponte di comunicazione è crollato
nella pozza stagnante del sublime e dellastratto. Hanno
perso il dialogo con la piazza, hanno subito lo scippo della
poesiacronaca, della versificazione che affonda nella Storia,
hanno rifiutato il linguaggio diretto, la chiarezza optando
per obsoleti ermetismi sempre più criptici. Parlano a
se stessi in un solipsismo manicomiale e vittimistico che non
rivolge più lo sguardo allesterno ma a una zona
imperscrutabile lontana dal contesto reale e collettivo. Acrobati
in bilico su metafore cadenti e decadenti, chiusi in unaura
elitaria e aristocratica. Certo, lepoca della comunicazione
di massa privilegia il video, limmagine, il concertoevento,
la canzonetta, la TV, il DVD, il computer. Ma è proprio
con questi sbarramenti che i poeti dovrebbero erigere le loro
barricate e tornare al fuoco, alla granata verbale, sensibilizzandosi
a quelle tematiche che agitano il tes-suto sociale prima fra
tutte, appunto, la perdita del sogno e il suo possibile recupero.
Ma il mondo accademico così bolso, immobilista e cattolico,
non ha mai metabolizzato questo scacco disciplinare, arroccato
comè nella difesa euclidea della cultura primaria,
verticistica, oracolare. Luigi Tenco... Fabrizio De André...
Umberto Bindi... e ora Giorgio Gaber. Tenco, il pavesiano Tenco,
introverso e fragile, precursore della canzone impegnata e della
rivalutazione del patrimonio etnico, del folk popolare, in unepoca
sanremese e democristiana. Tenco isolato, incompreso, censurato,
e osteggiato dallindustria discografica dallora.
Fabrizio De André, artista umile, colto, raffinato, rigoroso,
che non ha mai ceduto ai massmedia, alle mode musicali, allinquinamento
di sé stesso e che per via naturale ci è
stato derubato da quel tiranno biologico cui nessun anarchico
può opporsi. Bindi, grande musicista che scoprì
i concerti segreti dellanima e della solitudine, emarginato
per la sua omosessualità detta anche diversità
secondo un ipocrita vocabolo borghese e razzista. E Giorgio
Gaber. Luomo senza scudo, senza maschera, senza clan.
Come Fabrizio, non solo un cantore, non solo un poeta, ma un
vero e proprio maître à penser. Uno
spirito libero amato da molti e che a tutti dava fastidio. Un
veggente della sociologia in divenire come il Pasolini
profetico che dellItalia seppe anticipare il destino politico
e una visione più ampia in seno alla mondialità
degli eventi e delle mutazioni. Solitamente nel nostro paese
assistiamo alla nascita di un artista che da subito si presenta
con le credenziali di un genere preciso al quale
sarà fedele per tutta la sua carriera. Gaber, giovanissimo,
cominciò nel mondo canzonettistico ufficiale, ma bisogna
pur dire che allalba dei cantautori non esisteva un ambiente
di nicchia, uno spazio alternativo e quindi le personalità
diverse dovevano necessariamente inserirsi nei canali
discografici e televisivi. Gaber è lunico caso
di metamorfosi progressiva di un artista che pur operando, ai
suoi esordi, in ambiti tradizionali ha saputo evolversi lungo
il corso del tempo, in più profonde e originali dimensioni
creative. Ripensando al signor G. quando era il ragazzino G.
è da ricordare la scelta iniziale del rock, quel rock
che era considerato dalla Chiesa, la musica del diavolo. In
unItalia canora, melensa e melodrammatica, la valanga
americana travolse il pubblico piccolo borghese. Militò
alcuni anni in questo genere musicale, poi lentamente le sue
canzoni assunsero dei toni e dei caratteri intimisti, di grande
delicatezza, dove per delicatezza sintende il rispetto
delladolescenza, dei suoi umori, delle sue scoperte, delle
sue emozioni. Stati danimo biopoetici che neanche in famiglia
erano facilmente compresi, anzi!
Non sciacalli, ma cigni
Luniverso timido e tenero di Gaber si stabilizzò
per un certo tempo allinterno di questo clima, poi rientrò
in un ambiente più metropolitano, allo scoperto, privilegiando
la periferia, le storie minimali di quartiere, i personaggi
dellosteria e del popolo. Qualcosa in lui mutava, qualcosa
che lo avrebbe portato nel 1970 allinvenzione strepitosa
del teatro canzone, dove il brano cantato si prolungava nel
monologo e viceversa e soprattutto dove una coscienza critica
rispetto al proprio tempo, poteva esprimersi liberamente, con
spietatezza, senza vincoli commerciali. Una coscienza che via
via spiava le evoluzioni e le involuzioni degli italiani, dei
suoi governi, della sua morale pubblica, delluomo di potere,
della religione e della Chiesa come, ad esempio, in Io
se fossi Dio fino ad augurare ai ministri del culto, nellultimo
suo album, di sprofondare con tutti i giubilei.
Poiché gli anarchici non sono sciacalli metropolitani
ma cigni dellaltrove, non reclameremo necessariamente
Gaber nelle nostre file abbiamo troppo rispetto per lui. Ma
non possiamo neanche essere sordi al grido di Dario Fo sulla
stampa nazionale: Gaber non era un qualunquista, era un anarchico!
E anche Fernanda Pivano non ha esitato a definire Gaber un anarchico
pacifista.
Lanarchia è solare e mimetica, diretta e sotterranea,
consapevole e inconscia, acquisita e viscerale. Certo, Gaber
ha sempre rifiutato letichetta di una militanza dichiarata,
certo proveniva da una autentica matrice di sinistra, ma da
anni, secondo me, era approdato molto vicino alle nostre spiagge,
forse era un libertario super partes, oltre lanarchismo
stesso. Anche una figura leggendaria come Léo Ferré
scrisse: les drapeaux noirs sont encore des drapeaux! (le bandiere
nere sono ancora delle bandiere!) eppure la sua totale appartenenza
al movimento è inconfutabile a tal punto che ogni anno
dedicava un recital ai compagni francesi per devolvere
loro lincasso della serata.
E anche Gaber, molti non lo sanno, versò un suo contributo
di sostegno alle casse della nostra stampa. Quando lo conobbi
nel suo camerino del teatro Politeama genovese, pochi anni fa,
gli diedi il mio libro su Ferré Il cantore dellimmaginario
pubblicato da Elèuthera e lui mi rispose: Ferré!
Il mio maestro!. Gaber fu solo contro tutti
un po come certi eroi della frontiera americana ma dalla
parte degli indiani e con il viso tatuato. Quegli indiani solitari
votati allestremo sacrificio quando, prima di un massacro
ad opera dei soldati bianchi americani, si schieravano con archi
e frecce a difendere la via di fuga delle donne, dei vecchi
e dei bambini, ben sapendo di avere davanti una potente e mostruosa
macchina da guerra. Il signor G. cioè Geronimo Gaber,
assediato da ogni parte ha, nel contempo, assediato tutti inchiodandoli
alle loro responsabilità etiche tradite, mistificate,
trapiantate negli orti avvelenati dallinseminazione transgenica
delle coscienze miste dove lidentità
ideologica si mischia con la controparte. Il bersaglio più
sofferto e odiato è stato senza dubbio quello della maggioranza
e delle sue scelte che attraverso lurna democratica (urna
funeraria) prescelgono la via reazionaria e della sudditanza
allautorità delegata, la maggioranza e lo scandalo
antropologico della sua facile manipolabilità tramite
i mezzi mediatici, clonatori e clonati dellimmobilismo,
del sottosviluppo mentale collettivo, la maggioranza abilmente
condotta per mano fin dentro limbuto sordomuto di una
indifferenza virtuale e contagiosa.
Disumanizzazione graduale
Gaber sfogliava in scena, con divertita disperazione, una corona
di spine dolenti germogliata dalla sua coscienza annichilita
che rifletteva nello specchio in frantumi di unintera
società allo sbando, senza più riferimenti etici,
un fallimento globale dalle proporzioni apocalittiche astutamente
mimetizzato dietro storie minimaliste, da fumetto grottesco,
dove un popolo di nani nascondeva o confessava le proprie oscure
manie, le nevrosi più pietose e le più impietose
meschinità, i livori dei frustrati, le piccole furbizie
delle virtù italiche, la mediocrità della sottocultura
nazional-popolare, i guasti nefandi del libero mercato, la catastrofe
incombente della globalizzazione, gli ideali evirati dal pragmatismo
partitico, la litania mortuaria degli appelli insurrezionali
del decennio 60-70, lindividuo sempre più
chiuso in un egoismo autistico, introflesso nei propri interessi
che escludono gli altri, che deridono il concetto stesso di
solidarietà, che determinano la nuova, anzi vecchia,
intolleranza. È a causa di questa disumanizzazione graduale
e incurabile giunta a un punto estremo di degrado che le aspettative
di Gaber, aspettative morali, ideologiche o puramente relazionali,
subiscono nella sua ottica ipercritica e totalizzante, continue
metamorfosi: dalla speranza generazionale di cambiamento a unincrespata
rabbia per la resa altrui, dalle invettive ironiche che non
risparmiavano nessuno alla malinconia crepuscolare per il senso
perduto di tutte le cose, fino a irrigidirsi nella mestizia
duna misantropia forzata e, come diceva Dario Fo, in un
pessimismo cosmico. Il traguardo esistenziale di Gaber è
un fantastico campo di rovine, dove tra i fumi della sera, dopo
una battaglia durata una vita, solo un canto possibile si leva,
quello dellamore. Un semplice richiamo che pare invece
così difficile! Ed è questa leredità
finale che ci lascia, eredità verificabile nella sua
opera postuma dal titolo Io non mi sento italiano
un titolo più che significativo, un titolo che pesa e
peserà sulle incoscienze di molti politici. Forse di
tutti.
Al suo funerale, organizzato come un set televisivo, la sinistra
era pressoché assente. Gli altri no. Gli altri erano
lì. Poteva essere una beffarda canzone di Gaber, invece
era realtà. Qualcuno voleva, mediaticamente, impossessarsi
della salma. Della sua coscienza no. La sua coscienza non ha
perso. E anchio non mi sento italiano.
Mauro Macario
Foto
di Reinhold "Deny" Kohl
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