Non so se vi siate chiesti anche voi
cosa ci facessero Cofferati, DAlema e Fassino al funerale
di Giovanni Agnelli. È una domanda, lo ammetterete, che
merita di essere posta. Nessuno di loro, per quel che mi risulta,
era in rapporti di amicizia con il defunto, o aveva particolari
obblighi e relazioni con la sua famiglia, né si poteva
spiegare la loro presenza come un obbligo ex officio,
nei termini di una doverosa partecipazione alle esequie di una
pubblica personalità. Il presidente onorario della Fiat,
per quanto noto e ammirato nellintero paese, non era,
in senso stretto, una personalità pubblica, visto che
quella di senatore a vita è una carica essenzialmente
onoraria e onorifica, delle cui prerogative, oltretutto, lo
scomparso, a differenza di altri, non abusava. Né mi
sembra si possa o parlare, come pure si è fatto, di una
sorta di commosso riconoscimento della correttezza e della lealtà
dellavversario, perché, a parte il fatto che quella
dellossequio allavversario leale è una leggenda
che alligna più nei romanzi di cappa e spada che nel
mondo della politica, nessuno dei tre poteva avere dimenticato
(almeno mi auguro) la spregiudicatezza con cui, in tutti questi
anni, la dirigenza Fiat ha condotto la sua battaglia contro
le organizzazioni dei lavoratori e i partiti politici a esse
vicini. La lotta di classe (se mi permettete di continuare a
chiamarla così) non è un pranzo di gala, ma nei
paesi democratici le relazioni industriali dovrebbero essere
improntate a un certo numero di regole cui non sempre i signori
dellautomobile si sono attenuti.
Eppure erano lì, gli uomini che impersonano a
quanto si dice il passato, il presente e il futuro della
sinistra, insieme a buona parte del loro stato maggiore e a
quello dei partiti alleati e vicini, in compagnia delle più
alte autorità dello stato, dei vertici aziendali e di
una quantità di persone più o meno degne costrette
a fare atto di presenza perché nei riti di questo tipo
si estrinsecano dei rapporti sociali da cui non sempre si può
prescindere, ad ascoltare compunti le cortesi banalità
pronunciate dal cardinale arcivescovo e a manifestare un lutto
che non si capiva proprio perché dovessero sentire, al
di là del doveroso senso di perdita che ogni persona
civile prova (o dovrebbe provare) per la scomparsa di un altro,
perché nessun uomo è un isola, naturalmente, e
non bisogna mai chiedersi per chi suona la campana, non ci piove,
ma poi, per un motivo o per laltro, i funerali dei ricchi
e dei potenti sono sempre affollati e a quelli dei poveri ignoti
non ci va mai nessuno. E di fatto al funerale di Agnelli sono
andati in tantissimi, mossi ciascuno da chissà quali
motivi suoi, non tutti necessariamente deplorevoli, chi dalla
curiosità, chi dalla devozione, chi dallo snobismo sociale
chi dal semplice gusto di esserci, ma accomunati comunque tutti
da un senso dellossequio che si tingeva, nobilitandosi,
con i colori dellammirazione.
Del resto, lossequio e lammirazione hanno rappresentato
la cifra dominante, se non esclusiva, del giorno dei funerali
e dellabbuffata mediatica che li ha preceduti e seguiti.
Anzi, lo zelo degli incensatori è stato, a ben vedere,
tanto e tale, si è librato così manifestamente
sopra le righe, da far sì che molti si siano chiesti
perplessi se non fosse, per avventura, un po esagerato.
Avrete notato anche voi come a tanta abbondanza di lodi non
sempre corrispondesse una motivazione convincente: come leccellenza
dellAvvocato, sulla stampa e in televisione, sia stata
più spesso affermata che illustrata nei dettagli. E si
capisce anche: non era facile dipingere come un colosso intellettuale
e un pilastro della tradizione umanistica un uomo che, oltre
a dispensare battute piuttosto sciocche sulla propensione delle
cameriere a innamorarsi et similia, ben di rado si è
fatto sorprendere a un concerto o con un libro in mano (e se
collezionava quadri, non vale, perché quello può
essere considerato soprattutto un buon investimento), mentre
i suoi interessi più vivi vertevano, a quanto si è
appreso, sulle partite di calcio e sulle corse di formula uno,
due attività rispettabilissime e care a molte persone
dabbene, senza però che la cosa sia in sé garanzia
di una particolare affidabilità culturale.
E ancora più difficile, naturalmente, era presentare
come un mago del management un imprenditore che, avendo
a suo tempo ricevuto dalle mani dellingegner Valletta
unazienda sana, vitale e padrona assoluta del suo mercato
(si è parlato, se non ho capito male, del quinto gruppo
automobilistico al mondo) lha lasciata, se non proprio
al tracollo, come minimo ridotta al lumicino, in stato di sorveglianza
speciale da parte delle banche creditrici e alla mercé
delle più ambigue e impreviste cordate che
la fantasia dei nostri finanzieri riesca a immaginare.
Non sarà stata tutta colpa sua, figuriamoci. I tempi
cambiano, i mercati anche e la cultura industriale si evolve.
Ma questo è il punto, nel senso che di questa evoluzione
non sembra che lillustre defunto abbia saputo, come dire,
tenere completamente il passo. E il giudizio, ovviamente, va
formulato tenendo presente quanto, in termini di politiche e
di risorse, è costata alla comunità nazionale
leterna crisi della Fiat. Per cui, se oggi la Famiglia
(con la F maiuscola, mi raccomando) sembra mantenere potere
e ricchezza, ed è convinta di poterli mantenere ritirandosi,
guarda un po, dal settore dellautomobile, mentre
lAzienda che di quella ricchezza e di quel potere avrebbe
dovuto essere la fonte e lorigine se ne va allegramente
a rotoli, è difficile sfuggire allimpressione che
lAvvocato e i suoi, senza offesa, abbiano ricevuto molto
di più di quanto abbiano saputo concretamente dare. Questa,
daltronde, è la legge fondamentale del capitalismo,
un sistema per cui è normale che i pochi si arricchiscano
a spese dei molti, e non si vede perché il loro caso
avrebbe dovuto fare eccezione.
Migliore di Berlusconi?
A cambiare, si intende, non sono state solo la cultura industriale
e il mercato automobilistico. Nel rimescolamento degli ultimi
anni si sono trasformati, se non i valori di fondo del sistema
produttivo, almeno i modi con cui si era soliti percepirli.
Per cui è stato possibile che quello che, una volta,
incarnava limmagine del Padrone per eccellenza (con tutto
quanto di negativo questa connotazione comportava, perché
i padroni, nellimmaginario di allora, erano considerati,
proprio in quanto sottratti al bisogno, gente un po dissoluta,
o, come minimo, esente dagli obblighi di frugalità, laboriosità
e rettitudine morale che si esigevano, in forme diverse, dalle
classi lavoratrici e dalla borghesia produttiva) venisse visto
come una sorta di benevola divinità super partes,
come qualcuno che, pur facendo, come inevitabile, i propri interessi,
andava considerato, se non altro, migliore di un Berlusconi.
Un paragone in cui certe differenze di stile, come ha notato,
unico tra i commentatori, Adriano Sofri, sono state forzate
fino a sembrare vere e proprie differenze di qualità.
Ma per chi delle differenze di stile non si preoccupa, anche
perché sa quanto dipendano, in ultima analisi, dalle
tecniche di comunicazione, un paragone non aveva ragione di
essere. È probabile che i due personaggi non avessero
luno per laltro una gran simpatia, se non altro
per via del noto principio che non ammette la presenza di troppi
galli nello stesso, ridotto pollaio, ma questo non esclude la
loro appartenenza alla stessa classe e, in fondo, alla stessa
tipologia umana. Di fatto, quando è stato necessario,
hanno sempre saputo trovare un accordo profittevole per ambedue.
Cosa ci facevano, allora, gli esponenti della sinistra al funerale
di Agnelli? Be, è abbastanza ovvio: manifestavano
il proprio rifiuto (o, se preferite, la propria incapacità)
di concepire la dialettica sociale secondo quei vecchi modelli.
Erano lì a seppellire, non che lAvvocato, la contraddizione
tra capitale e lavoro o, più modestamente, la contrapposizione
tra quei lavoratori che formano ancora la maggior parte del
loro elettorato e i padroni. Avranno avuto, naturalmente, le
loro buone ragioni e non è la sede, questa, per metterle
in discussione. Ma visto che quel funerale è stato organizzato
come una sorta di trionfo postumo, a me, che volete che vi dica,
la loro presenza ha ricordato un po quella dei capi dei
popoli vinti ai trionfi dei generali antichi. E non obiettatemi
che, a differenza di Vercingetorige al trionfo di Cesare, nel
duomo di Torino Fassino, DAlema e Cofferati ci erano andati
di loro spontanea volontà, che nessuno li aveva costretti.
È questo, appunto, il problema.
Carlo Oliva
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