Usciva, nellormai lontano
1966, un corposo volume intitolato Perché andammo
in Spagna. Scritti di militanti antifascisti 1936-1939,
edito dallAnppia (lassociazione che raccoglie i
perseguitati politici del ventennio) e curato da Adriano Dal
Pont e Lino Zocchi, due fra gli storici «ufficiali»
del resistenzialismo di osservanza ortodossa. In quel libro
erano raccolte le testimonianze di molti dei maggiori esponenti
della sinistra italiana accorsi in Spagna per combattere il
franchismo: da Togliatti a Nenni, da Rosselli a Garosci, da
Longo a Vidali, da Saragat a Valiani. E così via, un
tot di comunisti, un tot meno qualcosa di giellisti, una discreta
presenza di socialisti e socialdemocratici (ma senza esagerare
in quei primi anni di centrosinistra), un qualche «senza
partito» che non guasta mai, e il gioco era fatto. A stare
con gli estensori dellantologia, comunque, di anarchici
in Spagna non ce ne dovevano essere, ma se proprio ce ne fossero
stati, o erano là come turisti oppure i vari Berneri,
Tommasini, Marzocchi, Cieri, e le altre centinaia di nostri
compagni accorsi per primi a fianco dei rivoluzionari spagnoli,
non lasciarono scritto nulla di rimarchevole, motivando così
la decisione dei solerti Dal Pont e Zocchi di non prenderli
in considerazione.
In questi tempi si parla molto, e con ottime ragioni (lesempio
riportato, antico ma emblematico, è una di queste), della
esigenza di liberare la ricerca storica dalle scorie dellideologia;
quindi non può che essere salutato con favore lo sviluppo
di una storiografia capace di indagare scientificamente le cause
e le dinamiche degli avvenimenti senza essere debitrice, come
troppo spesso è successo, di tesi precostituite. Questo,
ovviamente, non significa negare agli storici il diritto di
«appartenenza», anzi, proprio questa appartenenza
può e deve trasformarsi in ulteriore stimolo per risultati
obiettivi. Per rimanere nel campo degli esempi, voglio ricordare
le fatiche dei due storici anarchici Pier Carlo Masini e Gino
Cerrito i quali, convinti della necessità di correggere
tanto la vulgata marxista quanto quella liberale, che con sospetta
sintonia negavano preconcettualmente la presenza dellanarchismo
anche là dove lanarchismo era stato fra i protagonisti,
iniziarono unoperazione che oggi si chiamerebbe «revisionista»,
e che ha permesso, fonti e documenti alla mano, la corretta
ricostruzione del ruolo che effettivamente il movimento anarchico
ebbe. Fonti e documenti alla mano, dicevo, ed è questo
che contraddistinse il loro lavoro.
Ripetizione speculare
Oggi, invece, essendo cambiati i rapporti di forza nella società
e quindi anche nelle accademie, ci troviamo di fronte a un «nuovo»
ceto intellettuale, espresso dalla destra, intenzionato a ripetere,
in maniera speculare anche se di segno opposto, le identiche
sbavature di cui fu colpevole quella che una volta era legemone
intellighenzia comunista. La quale, come in parte ho
illustrato, compilò per oltre quarantanni una storia
dellItalia contemporanea al centro della quale si ponevano,
con monotona insistenza, il partito comunista e i suoi illuminati
dirigenti. Operazione, tra laltro, tanto più gratuita
e strumentale in quanto limportante ruolo del comunismo
nazionale e internazionale nella recente storia dItalia
non aveva neppure bisogno di essere ingigantito dai megafoni
dei suoi corifei. Ma tantè.
Oggi, dicevo, in nome di una quanto mai sospetta ed equivoca
obiettività della ricerca, si è data mano a una
riscrittura giustificazionista, se non addirittura «negazionista»,
della storia del fascismo, e questa operazione vede massicciamente
impegnati individui di varia provenienza, pronti, pur di rifarsi
dei passati ostracismi accademici, ad assecondare i desideri
dei nuovi padroni nascondendo od esaltando la natura intrinseca
di quel regime. Si riciclano così, ribaltandoli, i medesimi
criteri di valutazione imputati al «nemico», e tutta
la storia dei conflitti sociali e delle questioni internazionali
che hanno segnato il secolo scorso viene letta, con desolante
piattezza, solamente in chiave anticomunista, esaltando di conseguenza
linnegabile ruolo di avversario del comunismo che ebbe
il regime fascista. Lo stesso stereotipo, quindi, usato in precedenza,
allorché le innumerevoli deviazioni dallideale
socialista e dalla «retta via» dei partiti della
sinistra trovavano limmancabile scusante delle incombenze
della lotta al fascismo. Sia quel che sia, pur tralasciando,
per carità di patria, le colpe del passato, anche se
queste potrebbero motivare le colpe del presente, diventa comunque
inaccettabile questa volontà di offrire la falsa immagine
di un regime che, avrebbe saputo conservare, anche tra innegabili
momenti di duro autoritarismo (del resto nessuno è perfetto!),
un fondo di umanità bonaria e paterna. E, a esemplare
testimonianza di questo trend, stanno le ricorrenti stupidaggini
con le quali Berlusconi traduce in vulgata, da par suo, gli
articolati arzigogoli mentali degli intellettuali iscritti sul
suo libro paga.
Larroganza dei repressi
Del resto questa operazione, che alcuni pretenderebbero di
definire culturale, non si propone tanto di convincere delle
sue tesi coloro che per anni le hanno considerate come le pericolose
paturnie dei nostalgici di una storia criminale, quanto, piuttosto,
e con ben altra determinazione, di confermare, nelle sue opinioni,
quel piccolo popolo che ha sempre creduto, ma solo nel chiuso
del suo cuore, che un po di fascismo, in fin dei conti
sarebbe anche sopportabile. Un vero e proprio invito allouting,
dunque, la liberatoria offerta, per chi è stato «costretto»
per anni a rimuginare nellombra e a celare, più
per vergogna che per viltà, il suo inconscio attaccamento
al fascismo, di uscire allo scoperto e acquistare una nuova
consapevolezza priva dellimbarazzo dato dal vivere nella
repubblica nata dalla Resistenza. Ecco riemergere il borghese
piccolo piccolo che negli anni sessanta leggeva di nascosto
«Il Borghese» e che protestava, ma fra le mura domestiche,
perché i baristi del Cantagallo si rifiutavano di fare
il caffè allonorevole Almirante, eccolo, armato
di nuovo coraggio e dellarroganza dei repressi, pronto
a rivendicare il suo fascismo latente e a inneggiare, ancora
una volta, allUomo forte che gli insegna, giorno per giorno,
come pensare e come comportarsi.
Ed è davvero copiosa la pesca di questa strategia revisionista
nel mare magnum del qualunquismo nostalgico, là
dove vegeta chi, dopo più di cinquantanni di democrazia
e di libertà formali infinitamente maggiori delle poche
che concedeva il fascismo, ancora esprime un irrazionale, ma
insopprimibile bisogno di autorità, di ordine e di «treni
che arrivano in orario». Queste sono le certezze
che vuole, e reclama a gran voce, leterno reazionario,
smarritosi di fronte al «permissivismo» della società
aperta e desideroso della spavalda gaglioffaggine del regime
forte, e queste sono le certezze che gli offrono quei
signori che governano il paese. La rivalutazione del fascismo
e la riscrittura della storia dItalia non preludono, come
da più parti si denuncia con equivoca faciloneria, al
ritorno degli squadristi e dei loro funerei gagliardetti, quanto,
ben più pericolosamente, alla progressiva chiusura di
tutti quegli spazi di libertà che siamo riusciti faticosamente
a conquistare. Il disegno del potere, portato avanti anche da
questi nuovi «intellettuali» organici, è
più complesso e raffinato e si propone di creare forme
di controllo sempre più coercitive, che poggiano non
solo sui soliti strumenti repressivi, ma anche, e con buona
sostanza, sulla cosciente strumentalizzazione delle piccole
meschinità che affliggono così gran parte dei
nostri connazionali. Se abbiamo chiaro questo stato di cose,
magari potremmo mettere anche il nostro granello di sabbia nellingranaggio.
Massimo Ortalli
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