Rivista Anarchica Online



a cura di Marco Pandin

 

Nel tempo e oltre,
cantando

Un libro e un cd, pubblicati a distanza breve, per far volgere le nostre antenne verso i marchigiani Gang, un nome breve di sole quattro lettere che descrive niente di meno che una delle più importanti bande rock del nostro paese. Importanza che, nel caso dei Gang ma diversamente dalle indicazioni del governo, è parola strettamente intrecciata ad altre parole che iniziano per “i” come “identità” ed “irriducibilità”.
Nel raccontare dei Gang bisogna stare attenti a non farsi catturare il cuore. Bisogna stare attenti che le dita pigino i bottoni giusti della tastiera a comporre parole misurate, bisogna rincorrere le mani e tenerle al guinzaglio (sennò corrono a stringere la chitarra, e cominciano a mandare segnali pericolosi alla testa…).
I due fratelli Marino e Sandro Severini li ho conosciuti una ventina d’anni fa a uno dei primissimi (forse proprio il primo) meeting delle etichette discografiche indipendenti a Firenze. A quel tempo, era ancora cosa traballante il giro delle indie italiane, tenuto in piedi da volontariato, incoscienza, illusioni e rassegnazione, sovvenzionato da piccoli risparmi personali e da molti piccoli stipendi provenienti da quei “lavori veri” da otto ore che pesavano non poco sulle spalle di chi nascondeva un vulcano di idee ben dentro una tuta, un grembiule o una divisa.
Non c’erano telefonini, allora. Non c’erano personal computer né internet, né telecamere né MTV, né cd né masterizzatori. Quell’incontro fiorentino non era certo un mercato (di soldi dalle nostre parti ne giravano pochi: i demo erano cassette duplicate casalinghe e i “comunicati stampa” spesso fotocopie rubate) né tantomeno una vetrina: i piccoli indipendenti appena nati imparavano lì a scimmiottare le strategie e la disinvoltura delle sorelle maggiori, ma per noialtri cani sciolti di bello c’era la possibilità di incontrarsi di persona tra fanzinari e musicisti, stabilire collaborazioni e fare degli scambi. C’era la possibilità di sognare assieme, insomma, e praticamente gratis.
Li ricordo, quei due, a girare con un pacco di copie del loro primo album “Tribes’ union”, un disco dai forti sapori Clash e dall’altrettanto forte impatto “popular”. I Gang erano diversi da grande parte di noi fauna instabile del raduno, soprattutto diversi dai fighetti effervescenti new wave ben pettinati e dai punks ricchi e viziati con addosso gli straccetti firmati e le spillette import, occupati tutti a tagliarsi le radici da sotto i piedi. Loro, di quelle radici proletarie ed operaie andavano fieri e ce le sbattevano sonoramente in faccia (anche a quelli come me, condannati a non poter scegliere, che a Marghera o Torino o Bagnoli ci stavamo scomodi e stretti e senza il coraggio di scappare) suonando bene un rock da combattimento, esplicitamente rosso ed infuocato come la prima linea, duro in un modo come qui da noi a quel tempo (dopo gli “anni di piombo”) non si osava.
Me li ricordo, quei due: me li ricordo bene, inseguiti dalla muta di giornalisti e scribacchini alito di cane con la lingua che gli penzolava fuori. Gli stessi giornalisti che visitavano altezzosi e per dovere i nostri stand collettivi puzzolenti offrendoti un sorriso sottile e una stretta di mano molle. Gli stessi scribacchini che mendicavano dei promo da noi poveracci, e che ci ripagavano – forse, dipende – con due righe due.
Mi ricordo la loro faccia: per Marino e Sandro, consapevoli di aver autoprodotto un tesoro, lì in mezzo a quegli “indipendenti” non c’era posto. Se ne accorsero subito, loro. Altri invece, tra cui il sottoscritto, poco più tardi, sorpresi al largo dal temporale delle prime mazzate.
Tra quella mia vecchia fotografia di loro (che comunque tengo bella stretta come un ricordo caro) e questo cd “Nel tempo ed oltre, cantando” (realizzato in collaborazione con la Macina di Gastone Pietrucci, storico gruppo marchigiano di ricerca etnomusicale) ci stanno di mezzo vent’anni. È successo tutto e il contrario di tutto. È cambiato tutto, nel frattempo. Eppure, molte cose non sono affatto cambiate.

In questi vent’anni i Gang hanno percorso una strada lunga, spesso tortuosa ed in salita nonostante le apparenze. Passati dopo appena qualche tempo a comporre i loro testi in italiano, negli anni Novanta i Gang hanno costruito un Canzoniere Popolare con le maiuscole, ispirato dalla nostra cronaca, storia e vita d’ogni giorno, fatto d’impegno, polemica (lo scorso anno sono stati addirittura accusati di vilipendio delle istituzioni per aver sfanculato i potenti tra una canzone e l’altra) e denuncia (il loro album “Storie d’Italia” è tuttora a rischio di sequestro per l’azione legale intrapresa da due politici siciliani citati in “Duecento giorni a Palermo”, una ballata dedicata alla memoria di Pio La Torre, il segretario regionale del PCI ammazzato dalla mafia).
E così come i nostri giornali raccontano le storie di qui appena a una pagina di distanza da quelle accadute lontano, i due fratelli accostano Nanni Balestrini e Chico Mendes, Renato Curcio e Che Guevara in un unico grande abbraccio (in “Le radici e le ali”, 1991), rinnovandolo e moltiplicandolo in una catena umana multicolore nell’album successivo, ricco di ragazzi palestinesi rimasti orfani del leone, di operai del mattone e della chitarra, di pendolari in tangenziale verso il primo turno (“Storie d’Italia”, 1993).
È un viaggio a piedi dalla montagna al mare raccontato attraverso istantanee acide che intrappolano in una posa sguaiata gli idioti e i piazzisti de “La corte dei miracoli” (“Una volta per sempre”, 1995), o nel ritmo pesante del respiro mentre ci si riposa al fianco della strada, quando le solitudini finiscono per assomigliarsi tutte: quella dell’antifascista Iside Viana, emarginata dalle compagne di cella perché aveva chiesto, malata, la grazia a Mussolini, e l’ultimo gesto appoggiato alle mani di Ilaria Alpi (“Fuori dal controllo”, 1997).
I Gang non hanno avuto vita facile, eppure sono riusciti a passare indenni – e con rinnovata rabbia – attraverso un itinerario accidentato e sofferto che li ha portati dall’autoproduzione ad un contratto discografico con una major finito male, e di nuovo all’autoproduzione: si potrebbe dire ad una nuova vita. Ecco dunque che il disco con la Macina, uscito da poco per Storiedinote, rappresenta un passaggio tra ieri ed oggi.
Il progetto è semplice come il pane: i Gang suonano e cantano a modo loro alcuni brani tradizionali studiati dalla Macina, quelli della Macina suonano e cantano a modo loro alcune canzoni scritte dai Gang. Quel che ne viene fuori, però, è qualche cosa di più di uno scambio di repertorio: questo cd è un intreccio di canzoni spogliate di ogni etichetta e rese bellissime come in un miracolo, perché davvero non si capisce fino a che punto “Eurialo e Niso”, “La pianura dei sette fratelli”, “Sesto San Giovanni” siano canzoni dei Gang oppure un pezzo di Storia nostra, canti di lotta o partigiani reinterpretati.
E alla fine si rimane lì, col fiato pesante a riposare all’angolo della strada, a riflettere sui nostri passi che calpestano chissà quante strade vecchie che somigliano a quelle calpestate dai nostri padri (con cui non abbiamo mai parlato abbastanza), con la speranza accesa dentro di riuscire a spingerci più in là, in un posto nostro tutto nuovo da condividere, terra nuova da mostrare ai vecchi e ai bambini.
Marino e Sandro si raccontano, senza accendersi candele davanti, dentro a un libro che di nome fa “Banditi senza tempo” (ed. Selene, la stessa che ha pubblicato il libro su Léo Ferré “L’arte della rivolta” e diffuso la traduzione italiana del dossier dell’FBI su John Lennon) perché a un certo punto lo spazio fatto dei tre-quattro minuti di una canzone non basta più. Perché dietro e dentro a quelle “Sesto San Giovanni”, “Colpevole di ghetto”, “Il paradiso non ha confini” e tutte le altre canzoni che conosciamo sui dischi ci sono delle persone, degli incontri, delle vite vere che vanno avanti. Il libro serve a ritornare su luoghi e storie, a raccontare meglio, a suggerire vicinanze e a scavare trincee, a spremere qualche lacrima e a stringere i pugni. Perché basta un po’ di vino, un po’ di pane, una chitarra e un ricordo che incendi il cuore per fare festa.
Ben ritrovati, compagni. Dateci presto altre canzoni per spegnere questa sete, e che le nostre strade e i nostri bicchieri si incontrino ancora.
Libro e cd sono entrambi edizioni indipendenti, ma che hanno una discreta distribuzione commerciale. Per saperne di più consiglio un viaggio in rete sul website ufficiale dei Gang www.the-gang.it e sui numerosi siti tenuti in piedi da altrettanto numerosi fans, nonché sul website di Selene all’indirizzo www.edizioniselene.it e su quello di Storiedinote www.storiedinote.com.

Marco Pandin

 

Musica a cui voler bene

Questa puntata forse potrà sembrare un po’ fuori tema, considerando che andrò a parlare di tre iniziative editoriali, ovvero libri e riviste. Eppure tutte sono correlate, in modo diverso, con il fare musica e, soprattutto, sono tutte contraddistinte da un alto tasso di creatività, intelligenza e indipendenza. Quindi, perdonate la piccola deviazione.
Principio con Inguine Mah!gazine, al numero 2. Pubblicato da Coniglio Editore ma gestito da un manipolo di grafici/disegnatori/cartoonist/scrittori validissimi tra cui il direttore Gianluca Costantini, Paper Resistance, Elettra Stamboulis per citarne solo alcuni. Inguine ospita su ogni numero (è un quadrimestrale) fumettisti italiani e non. Su questo numero una storia ambientata in Bosnia con cadavere di Tito in un frigo, opera dello svedese Max Anderrson e lo splendido tributo grafico a Rocco Scotellaro, poeta di Tricarico, opera di Giuseppe Palumbo. Una rivista che mette a contatto quindi underground recente e passato (vedi Chris Lanier su Crumb e affini) con una sensibilità verso la memoria poetica e sociale davvero notevoli.
La redazione di Inguine ha promosso e pubblicato qualche mese fa iPunk, numero unico: 12 autori, 12 creazioni grafiche per 12 testi di altrettanti gruppi punk (Crash Box, Raw Power, Sottopressione, Franti, Bruma, Nuvolablu, By All Means, Negazione, Concrete, Encore Fou, Kina e Panico). Introduzione di Andrea Pomini: «Ho conosciuto persone meravigliose, ho visto città meravigliose e in ognuna di esse sapevo di avere un fratello, ho ascoltato suoni meravigliosi e mi sono sentito parte di qualcosa di molto grande. E tutto attraverso e grazie a quello che io ho sempre chiamato punk». Si trovano in libreria e/o cercate su www.inguine.net.

Sembrano dei CD ma invece sono dei libri. Formato quadrato ma di «square» c’è solo questo. L’Editore Nomade Psichico infatti ha una visione a 360 gradi, in quanto a temi e contenuti, ma scegliendo come luogo geografico e umano di osservazione il proprio ambiente, la provincia di Mantova. A partire da una rete di appartenenza alla Pianura quindi ma che si lega a chi in quella terra ci ha vissuto molti o moltissimi anni fa fino ai contemporanei.
Il catalogo del Nomade è ampio, una quarantina di titoli. La cosa migliore è portare il topo sul loro sito www.nomadepsichico.it. Io sono stato felice lettore di «La cella di Eva» di Max Adler, autore prolifico e editor, un rompicapo alla Burroughs su erotismo e potere; «I briganti greci» di Ulisse Barbieri, figura libertaria dell’Ottocento lombardo; «Gli eretici sul Lago, storia dei Catari Bagnolesi» dello storico Vittorio Sabbadini e infine «Love Songs», un CD e libro del compositore Andrea Mannucci, opera di musica contemponea per arpa solista (Chiara Visentini), ispirato alla poesia d’amore.

Infine, fresco di stampa, il primo volume di un nuovo editore, NoReply, con sede in quel di Milano. I due promotori, Andrea Rossi e Leonardo Pelo, sono noti agitatori letterari, con alle spalle la rivista Addictions e iniziative milanesi quali readings, stages e incontri. La loro nuova avventura editoriale vuol andare ad accendere i fari su quell’incrocio difficile e spesso bistrattato tra Musica e Parola Scritta. Si tratta quindi di libri con incluso un CD. Già visto? Forse, ma qui il progetto è più avanti, più profondo in partenza: il testo e la parte sonora sono concepiti come una cellula poetica unica, illuminando gli aspetti contigui tra carta stampata e mezzo musicale come pure quelli dissonanti, scomodi. Che cosa sentono nei testi di Flavio Giurato, cantautore romano che torna dopo vent’anni di silenzio musicale, un gruppo di scrittori italiani? Fulvio Abbate, di cui la A/Rivista ha parlato nei mesi scorsi, Gianrico Carofiglio, Tiziano Scarpa, Gianluca Morozzi, Giuseppe Caliceti, Enzo Carabba, Giuseppe Casa, Guido Celli, Aldo Nove e altri.
Giurato è tornato a suonare dal vivo, in parte solleticato da questi racconti brevi ispirati ai personaggi delle sue canzoni. Tra il 1978 e 1984 Giurato pubblicò tre dischi veramente innovativi (di cui «Il Tuffatore» è quello più noto) proponendo testi taglienti e ballate dall’andamento inquieto e spiazzante, Townes Van Zandt, Roy Harper, Ciampi e Fortis. Libro curatissimo con brevi saggi di Enrico Deregibus, della rivista L’isola che non c’era, Ernesto De Pascale (Rai Tre) e prefazione del primo scopritore di Giurato, Carlo Massarini. Libro/CD da cercare in libreria o attraverso www.noreply.it.

Gusci di lumaca
Questa musica non ha padroni, esecutori, artisti o fruitori. Così recita una scritta del libretto di questo CD, “Gusci di lumaca”, pubblicato in questi giorni da Salterò Autoproduzioni. Si tratta di un lavoro instancabilmente scritto e realizzato da un gruppo aperto di musicisti e scrittori del Torinese, fra il 2001 e 2003. Su intrecci acustici e positivamente esili, molto ben costruiti e registrati, le voci ci riportano verso un mondo interiore che troppo spesso si rinnega, si ricaccia in un angolo del ripostiglio quotidiano. La stessa attitudine di Gusci Di Lumaca, come è composto, registrato, presentato, parla una lingua di assoluta distanza dall’intrattenimento. La gente, il pubblico vive nell’anestesia dell’Industria, a tutti i livelli, alti e bassi, di serie o di nicchia, perché non c’è ormai alcuna differenza: l’arte senza la Vita, che nasce dalla disperazione della solitudine e dalla spasmodica volontà di uscirne fuori, producendo, comprando, svendendo, drogandosi di riviste, mode, critichini. Se volete ritrovare quella radice emozionale primigenia, quella voglia di imparare tre accordi e mettersi di fronte un foglio bianco e una biro, in altre parole il luogo di libertà che solo riporta l’arte alla Vita, ascoltate questo CD: come attraversare Carlo Giuliani, metropoli notturne, ospedali, Oscar Wilde senza retorica, senza mediazioni ma con tutta la potenza di chi ricerca l’urgenza della Poesia. Contatti: gusci@email.it, '<'.preg_replace('/'.("franti").'/i','franti','a href="mailto:email.normanaffranti@libero.it"').'>'email.normanaffranti@libero.it.

Come se fosse normale
Ritengo ci siano due approcci fondamentali nell’ascoltare e godere di un album musicale: l’uno sottintende una volontà di razionalità storico-critica, sistemica diciamo, l’altro si lascia coinvolgere a livello più emotivo, cogliendo empaticamente testi, grafica, ricordi, associazioni per quei 40 minuti di durata del disco. Le due cose non si escludono a vicenda e non tutta la musica si attraversa allo stesso modo, ma la differenza resta. Così due giornalisti che apprezzo, Elio Bussolino e Stefano Isidoro Bianchi, nello scrivere di “Mille papaveri rossi”, il doppio CD tributo a De Andrè assemblato dal Pandin, arrivano, in estrema sintesi, a dargli come voto l’uno 8 e l’altro 4. Come noto che la rivista inglese Mojo dà 8 all’ultimo lavoro di Patti Smith e BlowUp invece 4 (il mio voto personale, non richiesto, è 9). De gustibus si potrebbe dire. Io sento di dover ripetere un concetto più volte espresso: la musica, l’arte è morta, non rimanda, non riflette nulla, è pura merce come l’eroina se viaggia al di fuori di rapporti sociali ed emotivi, se incapace di creare un perimetro inclusivo. Fosse anche per segnare una rottura, un balzo avanti individuale. I rapporti sociali oggi sono poverissimi e soprattutto svuotati di sovversione, di sogno. Restano vicinanze di cuore, amicizie, incontri di percorso, per questo motivo “Musica a cui voler bene”. Non segnalo ciò che è di moda, alternativo, innovativo, cool, autoprodotto, commerciale, di tendenza. Io parlo dei miei amici, (quelli di 30 anni e quelli di 30 minuti ad un concerto comune, ad esempio), parlo di ciò che mi fa innamorare.
Esempio: dell’album “Come se fosse normale” di Edoardo Cerea conosco personalmente i tre responsabili. Edo cantante e compositore, Marco Peroni autore dei testi e Mario Congiu, arrangiatore e chitarrista. Ma se di questo CD non avessi saputo nulla, la sola foto interna in b/n, con Edo che indica un punto lontano della piana attorno a Piacenza (la sua città), con quei casolari e campi sotto il sole, che conosce bene chi vive in campagna ma anche chi viaggia in treno, chessò, da Torino a Verona, e quella sola foto “parla” a chi viene da altre pianure, il Salento, il Campidano, l’Oltrepo Pavese per far dei nomi, ecco la chimica difficile di un incontro avverarsi e quando metti su il cd, dopo un quarto d’ora ti vien voglia di cantare, di ascoltarlo fino in fondo, di rimetterlo su. Cantautore rock, senza dubbio contagiato da quell’amore-odio per l’America (Bruce Springsteen, Tom Petty, Dave Alvin e Dylan) che mi fece ammalare giovanissimo e che ancora mi possiede, Edo Cerea scrive canzoni belle come forma e con voce dolce e roca, racconta attraverso le liriche di Peroni sensazioni e immagini di vita (“faccio un mestiere come tanti, solo un po’ più sicuro e meno mio”, “c’è un uomo che parla diverso da me, giornata di lavoro, di lavoro e basta”), strofe che si piantano nel cuore subito, come un bicchiere fresco di cantina sotto la canicola. Ci sono alcune gemme vere in questo album, suonato con grande forza rock da Congiu e compagni, come “Sono anche un altro”, “Senza sicura” e “Rumore”. Mettere insieme la malinconia di Tenco e la blue-collar ballad di Woody Guthrie non è da tutti. Per contatti: www.ilmiogiocattolino.it.

Punk triste e pasta a colazione
Sempre a proposito di chi incontro e mi propone la sua musica e la sua fratellanza (è un po’ la stessa cosa, no?). Bob Corn, dal modenese e Zu, romani. Bob Corn, uomo solo con chitarra acustica, uomo con barba e camicia da boscaiolo, Jack Kerouac d’Emilia, con il suo CD “Sad punk and pasta for breakfast” mi insegna nuovamente l’antica lezione, solo l’amore per ciò che si fa, solo quel terribile desiderio di metterti di fronte a un microfono e suonare il blues dei tuoi demoni, dei tuoi amori, delle tue notti, ecco tutto questo è Fare Musica. Ballate sospese ed evocative, cantate in “Bob Corn English” (la parla solo lui, la capiscono tutti), con il contributo veramente perfetto di alcuni amici musicisti, GG e Elena dei Pertubazione, Giulio da One Dimensional Man. Cercate questa scheggia preziosa. Contatti: www.fooltribe.com.
Per Zu, da Roma, ci spostiamo su terreni assai diversi. Il gruppo è noto da noi e all’estero. Tre o quattro CD e tour continui (per ogni dove, di qua e di là dell’Atlantico) hanno contribuito a farne apprezzare le qualità non comuni. Sono in tre, basso elettrico, batteria e sax e suonano musica strumentale. Dire di più sarebbe contrario al loro spirito in quanto Zu è una macchina umana onnivora, Jazz Muscolare (John Zorn, Area) si combina con Rock Storto (Shellac, Ex, Helmet, Fugazi); bellissimi dal vivo (non è un refuso: la potenza e la tecnica assoluta si “ascoltano” con gli occhi, come in una danza africana), pubblicati dall’americana Atavistic e registrati dai noti Steve Albini o Bob Weston, li ho incrociati sullo stesso palco (…un sagrato per la verità!) il 25 aprile scorso. Mi sono portato via due CD: “Radiale”, uscito da poco e “Igneo” e vi consiglio di ascoltarli mentre leggete Vonnegut, Selby Jr (r.i.p.) o Calvino. Contatti: www.atavistic.com oppure www.zuism.com.

Stefano Giaccone

Musica per A/Rivista Anarchica

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