Sporco mondo ed Esplosioni
nucleari a Los Alamos
due dischi ecologici di Marco Ongaro
(e, come postilla, una lettera dell’autore su un’incresciosa
vicenda di censura)
Acqua da respirare, acqua in bocca.
E se non trovi qualcosa? “Acqua”, “acqua”,
“acqua”, si ripete… finché non l’hai
trovata, e allora si dice “fuoco”!
E di fuoco l’umanità ne ha trovato quanto ne ha
voluto! Dalle petroliere che inondano le coste (addio pesci,
addio gabbiani, addio vita), alla domenica del napalm che brucia
esseri umani in fiamma. Dall’eruzione del fuoco sporco
di Chernobyl, alle fiamme del minimo incendio di un bosco in
Liguria, penultima notizia, prima del meteo, del telegiornale
estivo. “Che tempo fa?”. Tempo di morte, mille alberi
che ci avevano messo tre volte la tua intera vita a diventare
quello che erano, se ne sono andati per sempre, senza nemmeno
farti andare di traverso il caffè.
Di fiamme si riempie l’universo, l’acqua scarseggia.
L’acqua si spreca, a tonnellate, a fiumi. Goccia a goccia…
Un miraggio
L’acqua è sorella della sete
Nel gelo ha il candore della neve
Nel ghiaccio cristallizza le ferite
Nel deserto non c’è però si vede
Un miraggio a forma di fontana
Un miraggio a forma di cascata
Che conceda alla persona che mi ama
L’illusione di sentirsi dissetata
L’acqua è madre della sete
Sulla pelle scivola e ristora
Ora le cisterne sono vuote
Ne vorrei una goccia ancora
Col suo tintinnare che una volta
Mi causava un fastidio così acuto
Sul lavabo quando l’acqua era molta
E la goccia un tormento non voluto
Quanto manca al mondo quella goccia
Nell’arsura delle lacrime versate
Che vedo scorrere sulla tua faccia
Che non può più godere dell’estate
Che vedo scorrere sulle mie mani
Che bevo e sento così salate
Che bevo per avvelenarmi
Nel miraggio di un risveglio senza sete
Un miraggio a forma di fontana
Un miraggio a forma di cascata
Che conceda alla persona che mi ama
L’illusione di sentirsi dissetata
Questo è il testo di una canzone grandiosa, nel suo
affrontare il problema da un ottica incredibilmente quotidiana
e poetica al tempo stesso; la purezza cristallina delle immagini,
consuetissime (lo sgocciolio del rubinetto!) eppure palpitanti
d’eternità, la calma terribile dei versi, l’assoluta
chiarezza che pure ha un incedere misterioso, come se tutto
fosse in superficie e perfettamente visibile e restasse celato
comunque. Marchi di fabbrica, insomma, di uno dei grandi cantautori
italiani: Marco Ongaro, Veronese, nato nel 1956, autore di nove
dischi, parte cantati da lui, parte affidati a delle interpreti.
Marco ha pubblicato la sua prima opera discografica nel 1987,
vincendo la Targa Tenco. È un cultore della scrittura,
un personaggio stranamente in bilico fra un’estrema disponibilità
e una reale indecifrabilità; molto simpatico, ciarliero
e amicone all’apparenza, è però uno degli
artisti più schivi e sostanzialmente imprevedibili del
suo mestiere. Pieno di vita, animatore gaudente di serate conviviali
che diventano notti e poi mattini, è colui che ha coniato
per se stesso la definizione di “cantautore postumo”.

Marco Ongaro
Ha alternato periodi furiosi di scrittura, con centinaia di
canzoni edite, nascoste in registrazioni introvabili, presentate
in concerto e poi mai più, con lustri interi di astinenza.
Per nostra fortuna l’ultimo lustro è stato testimone
di uno dei più intensi momenti della carriera artistica
di questo poeta. In particolare questa rubrica parlerà
di due dischi tematici, guarda caso entrambi contenenti la canzone
di cui avete appena letto il testo.
Usciti senza alcun battage pubblicitario fra il 2003 e il 2004,
caduti immediatamente nel calderone dei tesori sepolti, i due
dischi di cui ci occupiamo sono cantati, uno da Grazia De Marchi
(Sporco mondo), l’altro (Esplosioni nucleari
a Los Alamos) dall’autore stesso. Il tema dei due
dischi è il medesimo: il disastro ecologico del pianeta
Terra.
“Bella novità” direte voi…
La novità qui sta non tanto nella tematica, non nuova
alla canzone d’autore (si pensi solo a Eppure soffia
di Bertoli, o Il vecchio e il bambino di Guccini),
quanto nella cifra stilistica con cui se ne parla: una specie
di grazia, un tono da lirico greco, una capacità di essere
partecipe ma non toccato, morale ma non sentenzioso.
Ecco che il vezzo di definirsi postumo già da
vivente (per quanto se ne sa), trova una precisa collocazione
nel modo lontano con cui Ongaro porge proprio i suoi testi più
impegnati. Il risvolto è che la siderale calma, la calma
dei millenni, da cui il poeta apre gli occhi sullo sfacelo,
fa apparire il suo canto come il respiro affannoso di una natura
che vorrebbe, ma non può proprio più ignorare
tanta malevola incuria.

I due elementi che occupano più spazio in queste canzoni
sono l’acqua, come abbiamo detto, e l’aria, gli
elementi più facili da compromettere, quelli più
intangibili e indifesi, i più invisibili e trasparenti,
ma, proprio per questo, i più vicini alla materia stessa
del pensiero, a quel qualunque instabile concetto con cui, chi
ci crede, identifica la parola “anima”.
In fondo queste canzoni di Ongaro, nella loro impalpabile sostanza,
con la loro architettura di significato e struttura che giocano
continuamente a rimpiattino fra loro, sono, nella forma come
nei contenuti, una battaglia in difesa di ciò che pur
non avendo materia c’è, che pur non avendo forma
è indispensabile alla vita, anzi è vita stessa.
Invase e compromesse dai fumi, dai liquami, dai rifiuti, dalle
polveri, dalle sostanze, e poi dai corpi, dalle esplosioni,
dagli incendi, dalle aggressioni dell’arroganza della
fisicità, l’aria e l’acqua sembrano sempre
costrette a fare un passo indietro. Noi avanziamo, le attraversiamo,
le dissipiamo, come se non ci fossero. Voliamo per i cieli coi
carichi di morte, facendo finta di ignorare che è l’aria
stessa a reggere gli aeroplani.
Solcano l’aria i jet ma dove vanno
Altra rotta non ce n’è ma non lo sanno
Su quei bottoni che hanno davanti
Solo illusioni dette comandi
Ed i piloti son sollevati
Soltanto quando sono atterrati
Ed i piloti sono contenti
Quando ritornano fra i quattro venti
Solcano l’aria i Jet, aria sul mare
Altra aria non ce n’è da respirare.
Solo un poeta profondamente spirituale come Ongaro poteva partire,
lancia in resta, a difendere questi beni immateriali.
Il suo modo di scrivere è sempre stato debitore più
del vuoto che del pieno, così solo lui possedeva il bagaglio
retorico perfetto per questa battaglia. È Ongaro che
è in grado di capire appieno l’insulto che il mulino
fa al fiume e al vento ingabbiandoli ai suoi scopi, senza tributargli
la giusta gratitudine; è lui il Don Chisciotte che con
la sua poesia vede ciò che gli altri non sanno.
Ongaro non è un pazzo o un isolato, Ongaro misura con
la sua poesia l’intercapedine che circonda i corpi, l’assimila
al suo pensiero, ne fa la sua poetica. Siamo noi, quelli che
non capiscono l’aria, che l’ignorano, che considerano
vuoto, o peggio, in vendita, lo spazio libero, i veri pazzi.
In una delle sue canzoni più belle rilegge il miracolo
di Bernadette in chiave totalmente anticristiana, ma non antireligiosa:
Sgorgò dal suolo all’improvviso
Donando verità alla visione
E nuova linfa a vecchie piante
Il pianto diventò sorriso
Il sorriso diventò passione
Per Bernadette, la rabdomante
Credette finalmente a sé
Guardò le facce dei fratelli
E dei preti tutti attorno
Era apparso quello che non c’è
La purezza fresca dei ruscelli
E non era ancora giorno.
Non è un caso che in un’altra canzone riprenda
il tema della strega che confessa al suo inquisitore di non
possedere altra magia che il talento di guardare meglio la natura
Non si riesce ad indovinare
Come qualcuno riesca a guarire
Senza ricorrere ad un dottore
Senza ricorrere alle preghiere
Guardando tra le pieghe
Scrutando tra le pieghe
È solo un’erba officinale
Che cresce ai bordi di ogni paese
Chi l’ha usata non sta più male
Però è un rimedio senza pretese
Guardando tra le pieghe
Cercando tra le pieghe
Quello che hai visto
Nella mia pupilla
Non era niente di speciale
Quello che hai visto
Quella scintilla
Era un fenomeno naturale.
Sembra proprio un autoritratto morale dello stesso Marco Ongaro,
autore che l’arroganza bombastica del nostro music businnes
brucia sul rogo dell’incomprensione, forse per la cantabilità
chiara delle sue melodie, forse per la purezza cristallina della
sua scrittura. Ma facciamoci l’abitudine: nel mondo delle
ombre la luce pare arcana.
Alessio
Lega
alessio.lega@fastwebnet.it
Una
lettera di Marco Ongaro ad Alessio Lega su La cena
della sposa commedia musicale in veronese, interpretata
da Grazia De Marchi (la stessa di Sporco mondo) e andata
in scena per la prima volta, per 5 sere nell’agosto
2004, al Castello di Montorio in Verona.
Caro
Ale,
ti avevo già annunciato che la Cena della
Sposa, la mia commedia musicale in vernacolo, tornerà
in scena a Verona, al Teatro Camploy, il 27 e 28 gennaio,
essendo un’opera in dialetto su musica finto popolare
(nel senso che ho scritto io sia testi che musiche quindi
se sono popolari sono un falso), la Lega (la Liga Veneta,
la Lega del Nord in generale, capito?) ha cercato di
accaparrarsene il merito subito, senza conoscerne il
contenuto, finanziando la produzione con una miseria,
all’inizio, nella figura dell’assessore
regionale alle tradizioni popolari, tal Serraiotto,
che, giunto in pompa magna alla serata di gala, se n’è
andato indignato prima della fine “perché
non si può presentare così l’uomo
del Nordest”. Risultato: la Lega osteggia più
o meno formalmente lo spettacolo e tenderebbe ad epurare
il mio nome da ogni cartellone provincial-regionale,
in quanto autore truffaldino che usando il linguaggio
a loro caro ha fatto passare concetti a loro invisi.
La commedia però è stata un vero successo
di pubblico (più di 1300 paganti) e promette
di diventarlo sempre più, ammesso che le sia
concesso di andare in scena. La gente ride sempre esattamente
negli stessi punti e l’applauso a scena aperta
arriva sempre alla stessa battuta, ciò significa
che il meccanismo funziona.
Ora, trovandomi rivoluzionario mio malgrado, e discriminato
per le mie idee, che non so quali siano, ma certo non
coincidono con quelle della Lega in fatto di umanità
e fratellanza, trovandomi ad aver scritto parole davvero
sovversive nell’inno desolato del povero padre
del Nordest che si ritrova 6 extracomunitari e un terrone
in famiglia, il suo vero momento di autocoscienza (ma
se parlemo de na nasiòn, mi no so gnanca quala
sia la mia, che son nato in un’ostaria e son cresudo
in un capanòn), reputo inutile lasciarmi
scannare in silenzio da chi esercita il potere in loco.
(Bragantini, condannato oggi, proprio oggi è
sul giornale di Verona, per razzismo, è assessore
alla cultura della Provincia e ha detto chiaramente
al regista che la commedia è “out”).
La commedia è già stata definita da qualcuno
una bomba travestita da caramella. Quando quest’estate
ho saputo che parte dei contributi erano dati dall’assessore
regionale, io stesso l’ho definita un cavallo
di Troia.
E lo è. La gente che viene a vederla è
gente del popolo, probabilmente molti di loro votano
Lega. Ridono a crepapelle ed escono con un’idea
lievemente meno razzista di quando erano entrati. Dico
lievemente perché non mi faccio grandi illusioni
sulla funzione educatrice dell’arte. Senz’altro
hanno modo di beccarsi un punto di vista diverso dal
loro, moderno e cosmopolita, contrabbandato nel loro
dialetto, con i loro tic e le loro frasi fatte, e questo
qualcosina potrebbe cambiare nel loro universo, per
quanto poco. Il fatto che assumano i concetti ridendo
è da sempre la cosa peggiore che si può
fare al potere, come ben sai. Si chiama satira. Ti scrivo
tutto questo poiché so che militante lo sei per
vocazione, non accidentalmente, mio malgrado, come me.
Ciao vecchio
Marco
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