Si può definire la cittadinanza come lo status attribuito a chi appartiene a pieno titolo ad una comunità politica nazionale. Tale status determina uguaglianza di diritti e di doveri
Comunemente si distinguono tre forme o fasi della cittadinanza: civile, politica e sociale.
La prima può farsi risalire alla cultura illuministica del '700 e alla rivoluzione francese per effetto delle quali si è riconosciuto ad ogni cittadino in quanto persona e non perché appartenente a determinate classi gruppi o etnie, una serie di diritti quali la libertà fisica, di religione, di proprietà e la libertà contrattuale.
La cittadinanza politica si sviluppa a partire dal XIX secolo e attribuisce ai cittadini il diritto di partecipare all'esercizio del potere politico (elettorato attivo, passivo, partecipazione alle istituzioni parlamentari ecc.).
La cittadinanza sociale, espressione del più moderno concetto di cittadinanza, si sviluppa nel XX secolo e consiste nel diritto ad un grado di benessere, di educazione, di sicurezza sociale, commisurato agli standard prevalenti entro la comunità politica.
Il concetto di cittadinanza moderna che comprende le tre fasi della cittadinanza, è stato ampiamente descritto da T. Marshall (Cittadinanza e classi sociali) il quale analizzandole anche storicamente, ha posto in rilievo come la cittadinanza in tutti suoi aspetti mostri la sua tensione verso l'uguaglianza. Marshall esamina soprattutto il rapporto tra cittadinanza sociale e sistema di classi capitalistico, poiché in esso si annodano i limiti e le potenzialità di sviluppo di cittadinanza. Marshall riconosce che la cittadinanza sociale non è in grado di sovvertire la logica antiegualitaria del mercato, ma ritiene che essa consenta un arricchimento generale della concreta qualità della vita civile e quindi la riduzione dei rischi e dell'insicurezza per i cittadini meno fortunati. Per cui si può sostenere che se la cittadinanza sociale non è in grado di sopprimere le disuguaglianze ha tuttavia l'effetto di modificare la struttura della disuguaglianza sociale. Ciò che sopravvive non è più una disuguaglianza di status ma una semplice disuguaglianza di reddito, più sopportabile e più facilmente modificabile se le condizioni economiche lo consentono.
Questa concezione culturale della moderna cittadinanza ha trovato nel XX secolo riscontri istituzionali attraverso le moderne costituzioni che, dopo quella di Weimar hanno inserito tra i diritti fondamentali della persona oltre ai diritti civili e politici, anche i diritti sociali ( lavoro, sanità, istruzione, assistenza sociale).
Le tesi di Marshall sulla cittadinanza sociale sono state criticate da quanti (Barbalet, Giddens, Held) non solo hanno negato ai diritti sociali l'appartenenza alla cittadinanza ma hanno anche negato agli stessi la natura di diritti. Secondo questi studiosi, i diritti civili e politici sono compiuti nel senso che se riconosciuti ad ogni cittadino, comportano l'obbligo dello stato di astenersi da qualsiasi azione che impedisca l'esercizio di quei diritti. Al contrario i cosiddetti diritti sociali non hanno tale natura in quanto per la loro realizzazione è necessaria una condotta positiva dello stato (costruire una scuola, un ospedale, creare lavoro ecc.). Inoltre i diritti sociali non sono giustiziabili, non possono cioè essere azionati davanti ad un giudice al pari dei diritti civili e politici. Da queste considerazioni è si è desunto che i cosiddetti diritti sociali altro non sono che conditional opportunities, legate all'andamento dell'economia e quindi all'efficienza dei servizi sociali.
È innegabile comunque la funzione rilevante che il concetto di cittadinanza ha avuto nella formazione dello stato moderno, soprattutto in virtù del rovesciamento di prospettiva nella rappresentazione del rapporto tra governanti e governati. Non si parte più da un punto di vista del sovrano ma da quello del cittadino, non più dall'alto verso il basso ma dal basso verso l'alto. E il basso non è costituito dal popolo come ente collettivo, bensì dai cittadini che si aggregano tra loro formando una volontà generale.
Tuttavia non può negarsi che l'affermazione del concetto moderno di cittadinanza non è riuscita a superare l'antinomia tra la logica egualitaria dei diritti e la logica antiegualitaria del mercato. Ciò è soprattutto evidente nella odierna fase della cosiddetta globalizzazione economica che incide pesantemente sui modelli sociali, economici e istituzionali delle democrazie del Novecento.
Il concetto di cittadinanza, tanto importante nello sviluppo democrazie occidentali degli ultimi due secoli va oggi rimeditato sotto due aspetti: A) come deve intendersi la cittadinanza all'interno di un organismo sopranazionale come l'Unione europea; B) Come incidono sulla cittadinanza che conosciamo l'attuale modello di neoliberismo economico e la globalizzazione.
Cittadinanza e Unione Europea
Anche la forma più compiuta di cittadinanza comprensiva dei diritti civili, politici e sociali, come si è sviluppata dalla fine del '700 ad oggi, è strettamente connessa all'idea di stato nazione. Si intende dire cioè che nelle moderne democrazie i diritti di cittadinanza vengono riconosciuti a tutti i cittadini di uno stato indipendentemente da fattori differenziali quali economia, sesso, età ecc.
Il rapporto tra cittadinanza e stato nazionale da un lato assume carattere inclusivo in quanto l'attribuzione dei diritti è riservata a tutti i cittadini dello stato senza alcuna distinzione, ma dall'altro ha innegabili caratteri di esclusione in quanto i diritti di cittadinanza non vengono riconosciuti in eguale misura a coloro che pur vivendo in un determinato stato non sono cittadini dello stesso (immigrati, nomadi, apolidi ecc.).
Ciò avviene anche nelle più evolute democrazie che ai non cittadini accordano soltanto la tutela dei fondamentali diritti umani, ma non la compiutezza dei diritti accordati ai cittadini.
Questo aspetto assume particolare rilevanza nel momento in cui si sta edificando il soggetto politico Unione Europea e si sta per approvare una costituzione per l'Unione.
Nel Trattato per la costituzione europea la cittadinanza è una cittadinanza di secondo livello, nel senso che sono cittadini europei soltanto coloro che sono già cittadini di uno degli stati membri.
La cittadinanza europea non può essere riconosciuta a quanti pur vivendo in Europa stabilmente non sono cittadini di uno degli stati europei.
La questione non è di poco momento perché riguarda una massa enorme di immigrati (18 milioni circa) che vivono stabilmente in Europa da svariati anni.
In una società come quella europea che inevitabilmente sarà attraversata da massicci fenomeni migratori, un concetto di cittadinanza ancorato all'appartenenza ad uno stato membro rischia di diventare uno strumento di esclusione invece che di allargamento dei diritti. Ciò deriva dalla originaria ambivalenza del concetto di cittadinanza. Questo come abbiamo detto è finora radicato nello stato-nazione, nel senso che lo stato nazionale moderno ad orientamento sociale (stato sociale) è il luogo istituzionale che tutela riconosce e garantisce i diritti di cittadinanza. Da ciò consegue che il fondamento della cittadinanza è strettamente legato alla nazionalità e quindi ad un rapporto tra individuo e un determinato stato. Se manca questo non si è titolari di tutti i diritti di cittadinanza. È evidente pertanto l'antinomia tra l'universalismo implicito dei diritti costitutivi della cittadinanza e il loro radicamento nello stato nazione.
Una cittadinanza riservata ai cittadini degli stati membri rischia di introdurre in Europa un doppio livello di diritti; uno per i cittadini europei, l'altro per chi vive in Europa ma non è cittadino.
Questi problemi relativi al rapporto tra cittadinanza e fenomeno migratorio non sono risolti alla luce del progetto di Costituzione europea.
Numerosi studiosi e politologi, fra tutti E. Balibar, si interrogano sul tema della cittadinanza europea. Il politologo francese osserva come l'Europa politica non si confronti con le migrazioni contemporanee: non c'è traccia, infatti, di forme di tutela nei confronti del fenomeno migratorio nelle direttive della Commissione, negli articoli sulla cittadinanza europea apparsi sul Trattato costituzionale di recente approvato, né tanto meno nella conferenza intergovernativa di Bruxelles.
Ma intanto nel mondo si muovono masse immense di senza diritti che fuggono da paesi dove i diritti elementari (la vita, il cibo, il lavoro ecc.) sono loro negati e vanno speranzosi verso paesi dove vorrebbero ritrovarli.
L'immigrazione, dunque, più di ogni altro fenomeno della moderna globalizzazione, mette alla prova stati e governi. Potremmo definirlo un misuratore delle qualità della nostra democrazia. Oggi l'Europa, che si sta configurando sempre più come una fortezza egoisticamente chiusa verso l'esterno e ostile alle altre culture, non comprende come il riconoscimento dell'alterità possa essere un componente indispensabile della sua stessa identità. Il fenomeno migratorio è pertanto assunto come valvola di sfogo di malcontenti e di ancestrali paure nei confronti delle diversità che in realtà celano l'incapacità dei governi europei di dare risposte credibili ai veri grandi problemi che riguardano lo sviluppo economico, il modello di stato sociale, le politiche di distribuzione del reddito. Sul punto si registra l'assordante silenzio dei principali organismi europei.
La prospettiva deve essere quella di un concetto di cittadinanza europea sganciata dall'esclusivo riferimento allo stato membro. Nel senso cioè che deve essere considerato cittadino dell'Unione non solo chi abbia la nazionalità di uno stato membro, ma anche chi abbia la residenza nel territorio di uno stato membro.
Solo una cittadinanza fondata sulla residenza può respingere l'idea che possa esistere un doppio livello di diritti e solo questo tipo di cittadinanza può attribuire effettività a quei principi di inviolabilità di tutela della dignità umana.
Cittadinanza e globalizzazione economica
Il concetto di cittadinanza entra oggi in tensione anche con i caratteri della moderna globalizzazione economica e produttiva.
La cittadinanza sociale è strettamente connessa al modello economico del Novecento caratterizzato dal sistema di produzione di massa che trovava la sua massima espressione nella fabbrica fordista. In quel contesto gli interessi del capitale e quelli del mondo del lavoro erano convergenti. Ad una produzione di massa doveva corrispondere un consumo di massa per cui anche gli imprenditori avevano interesse che i lavoratori godessero di un adeguato salario e dei servizi sociali forniti dallo stato perché in tal modo potevano accedere al mercato e comprare le merci che essi producevano. Su questo compromesso si è in gran parte retto lo stato del benessere e si è, almeno parzialmente, realizzata la prospettiva del riconoscimento dei diritti sociali, conquistati grazie alle battaglie politiche dei lavoratori e delle loro organizzazioni.
Ma per effetto delle innovazioni tecnologiche e della globalizzazione quel modello produttivo è oggi in via di superamento.
Il nuovo modello produttivo si fonda su produzioni snelle, rifiuta la produzione di massa e si avvale di forme di lavoro flessibili e precarie. La piena occupazione, la garanzia del salario e i servizi sociali quindi, non sono più un valore ma un costo oneroso e da ridurre. Di conseguenza lo stato non è più in grado di garantire i servizi sociali che tende ad affidare ai privati e al mercato.
Istruzione, sanità, lavoro diventano quindi merci acquistabili nel mercato secondo le proprie possibilità economiche. Allo stato resta soltanto il compito di garantire la sicurezza attraverso strumenti di polizia per una società che si affida sempre più alle logiche del mercato.
Tutto ciò da un lato determina paura, perdita di senso, insicurezza in vasti strati di cittadini, non più protetti dallo stato sociale (anche sotto tale profilo U. Beck parla di società del rischio) dall'altro evidenzia il difetto genetico dello stato sociale e del moderno concetto di cittadinanza. Questi, infatti, sono legati indissolubilmente ai momenti di espansione economica, per cui i diritti sociali, pur se fondativi della cittadinanza, e pur se inclusi nelle costituzioni moderne, si vanificano nei momenti di crisi ed evidenziano la loro natura di elargizioni dall'alto che lo stato può revocare.
Se consideriamo le vicende storiche della cittadinanza e ci soffermiamo sui rapporti che oggi nel sistema della globalizzazione intercorrono tra i diritti dei cittadini e le forme della democrazia, dobbiamo convenire che ci stiamo immettendo in una nuova fase che Colin Crouch chiama postdemocrazia.
La crisi del welfare state, il declino della classe operaia e dell'egualitarismo, spinge lo stato a non intervenire più direttamente sulle condizioni di vita della gente comune che restano affidate, di fatto, alle potenzialità del mercato e della logica di impresa guidata soprattutto dalle multinazionali. Ne consegue una minore partecipazione attiva dei cittadini ai momenti decisionali circa l'organizzazione della vita sociale. Si afferma quindi un modello di democrazia in cui sopravvivono gli aspetti formali delle libertà e della partecipazione alle fasi elettorali. Aumenta la frustrazione e la disillusione dovuta all'incapacità dei cittadini di oggi di dare forme e vita ai loro interessi di fronte alla forza più evidente in campo che è la globalizzazione economica nella quale spesso le grandi multinazionali superano la capacità di amministrazione di singoli stati. Nella postdemocrazia la politica assume caratteristiche inedite legate al personaggio, conosciuto per le sue fortune o attraverso i mass-media che offre un programma di partito gestito come un prodotto. La persuasione diventa un mestiere specializzato e si accentua tra la gente il disincanto e l'indifferenza verso la politica.
Ciò che nel Novecento costituiva la base della tendenza all'eguaglianza che si affermava attraverso il riconoscimento dei diritti di cittadinanza è oggi affidato alla buona disposizione e alla iniziativa di soggetti privati. Nell'epoca del conservatorismo compassionevole ai diritti si sostituisce la solidarietà, la beneficenza, l'assistenza. Allo stato sociale si sostituisce il volontariato, le opere pie e caritatevoli e le elargizioni dei grandi potentati economici. In questo contesto l'egualitarismo non è più un valore assoluto. Le disuguaglianze e le smisurate ricchezze sono anzi accolte con favore man mano che si diffonde la convinzione che le risorse per i bisognosi possano derivare dalla generosità dei ricchi.
È evidente che di tutto ciò si dovrebbe tenere conto nel momento in cui si tenta di tracciare i contorni di una cittadinanza europea.
L'Unione europea dovrebbe avere piena consapevolezza che la natura ed il livello dei diritti di cittadinanza che affermerà dipenderanno soprattutto dal modello economico e sociale che l'unione intenderà realizzare.
Se l'Unione si lascia sedurre dalle sirene di una società ipertecnologizzata che si ispira ai principi del neoliberismo economico e della competitività come valori fondanti, il divario tra la cittadinanza proclamata e le reali condizioni di vita dei cittadini sarà sempre più stridente. Se sceglierà questa strada, inoltre, l'Europa gradualmente abbandonerà quei caratteri di società capace di valorizzare i rapporti sociali, i principi di solidarietà, di uguaglianza e di universalità dei diritti che ne costituivano il tratto distintivo nel Novecento. Attratta dalla globalizzazione neoliberista e dall'edonismo cognitivo, l'Europa perderà la coscienza di sé e delle sue tradizioni, diventando una propaggine del modello sociale individualistico e competitivo d'oltre oceano.
Al contrario se l'Unione riuscirà a preservare le sue specifiche tradizioni sul piano dei diritti sociali e delle relazioni umane e recupererà i valori fondanti della cultura mediterranea compresi quelli relativi ad un diverso approccio con la natura, la cittadinanza europea potrà costruirsi non su basi mercantili, ma su contenuti di apertura e di inclusione. E ciò sarebbe di notevole rilievo politico e sociale anche in rapporto al fenomeno migratorio che coinvolge milioni di persone provenienti dall'area islamica.