In una delle tante sue Carte, spesso preziose, Luigi Meneghello si sofferma sul rituale del calciatore che ha segnato un gol. Ricorda suo zio Dino, carismatico mezzodestro dell'U. S. Malo (Libera nos a Malo è il titolo del primo fortunato libro di Meneghello), che, negli anni Trenta, una volta realizzato il gol, si allontanava dall'area di rigore avversaria senza particolari segni di giubilo e, tutt'al più, se proprio l'esecuzione aveva comportato qualche difficoltà, scambiava con un compagno una vereconda stretta di mano. Oggidì, invece, nota Meneghello quel che notiamo tutti: chi fa il gol di rado gioisce davvero, ma si scatena, piuttosto, in una reazione violenta. Schizza via in una direzione o nell'altra, cerca qualcuno chissà dove con cui sembra giunta l'ora di fare i conti definitivi, impreca rabbiosamente, compie gesti più o meno osceni, mima isterie. Più che festa, è vendetta contro la divinità del campo di gioco, contro il mondo, contro l'avversario, a volte contro gli stessi compagni di squadra. Qualcosa del genere avviene nel ciclismo allorché qualcuno taglia solitario il traguardo: la faccia gli diventa irriconoscibile. Dice Meneghello che questa, che forse è la più imbarazzante tra le icone del trionfo sportivo, rivela l'ambiguità del nostro rapporto profondo col successo, il suo costrutto maligno. Credo che abbia ragione, ma che l'analisi sia ancora da approfondire.
Già nel Settecento, il marchese o il conte (fate voi) di Mirabeau assicurava che, per avere qualche successo in questo nostro mondo bisognava strozzare la propria coscienza. All'epoca globalizzazione, mass-media e televisione non erano ancora entrati in vigore (diciamo così), ma già c'erano le condizioni perché qualcuno si potesse accorgere che ad un successo, in una società nata dallo sfruttamento dell'uno sull'altro, corrispondeva un insuccesso. Se chi partecipa alla gara si gioca molto di più di quello che la gara nominalmente rappresenta la fuga dall'anonimato, il salto di classe sociale, il rispetto di sé e dei propri cari, il futuro , va da sé che l'attesa dell'esito diventi insopportabile, come stress individuale e come peso sociale.
Nell'attuale funzione ideologica svolta dallo sport, poi, neppure più si può parlare di ambiguità. Il rapporto, purtroppo, è chiarissimo: lo sportivo è nell'anticamera di quel sistema delle stelle che, a determinate condizioni vincere, a qualsiasi costo, con qualsiasi mezzo può aprirgli le porte del privilegio.
Pochi anni fa, alcuni psicologi fecero un'indagine sui livelli di soddisfazione degli atleti che avevano avuto l'onore di salire sul podio delle olimpiadi. Bene, si scoprì che il secondo arrivato era molto più frustrato del terzo. La malignità del meccanismo mentale innescato è evidente: mentre il secondo si confrontava al primo e si rodeva il fegato per aver mancato di così poco il trionfo , il terzo si confrontava alla gran massa dei battuti e si godeva il fatto di aver tanti alle proprie spalle. Il modello di società che ne consegue non può essere molto sano.
Nel Genesi, Caino ammazza Abele. Va detto che Dio ci ha messo del suo, ma va anche detto che, mentre Abele si accontentava di pascolare i suoi animali, Caino, dopo essersi liberato del fratello, fa l'imprenditore. Non farà il ponte sullo stretto di Messina e neppure la Tav, ma edifica Enoch, una città intera cui ha dato il nome del figlio. Caino, insomma, rappresenta già quel modello di successo che, per l'appunto ne sa qualcosa il povero Abele, che né ambiva a vittorie né, tantomeno, a speculazioni edilizie , ha bisogno di vittime.
Felice Accame
Note
È Pitigrilli che, scorrettamente, cita una frase di un Mirabeau nel suo Dizionario antiballistico (Sonzogno, Milano 1962), senza dirci se si tratta del padre (Victor Riqueti, morto nel 1789, con puntualità degna di miglior circostanza, il 13 luglio) o del figlio (Gabriel-Honoré, morto appena un paio d'anni dopo). La citazione di Meneghello è tratta da Il Domenicale del Sole 24 Ore del 26 marzo 2006. |