Le Edizioni Spartaco hanno mandato in libreria a maggio l'antologia di Lev Tolstoj, Una rondine fa primavera. Scritti sulla società senza governo con i giudizi degli anarchici italiani (1894-1910), a cura di Piero Brunello (collana «il risveglio», n. 21, pp. 250, € 12,00). Pubblichiamo qui, alcuni brani, affiancando a Tolstoj i commenti di Errico Malatesta, Luigi Galleani e Luigi Fabbri.
Con questa antologia, Piero Brunello presenta la ricezione negli ambiente libertari italiani tra la fine dell'Ottocento e il primo decennio del Novecento del pensiero religioso, politico e sociale dell'ultimo Tolstoj. A un certo punto della vita, Tolstoj abbandonò la letteratura per scrivere lettere aperte, appelli, articoli e opuscoli polemici nei quali raccontava la sua conversione interiore, e denunciava l'esistenza degli eserciti e delle chiese, la proprietà della terra, il patriottismo, la pena di morte. Scriveva che i governi e gli stati erano la sciagura dell'umanità. Accusava re e imperatori d'ingannare i loro popoli con visite, parate militari e brindisi in nome del benessere e della pace mentre in realtà organizzavano i futuri massacri. Indicava nelle chiese cristiane la radice delle guerre e dell'abitudine all'obbedienza; i libri di storia continuava invece di chiamare le cose con il loro nome, giustificavano la menzogna; e concludeva con appelli come questo: «Soldati, disobbedite! Sottufficiali, dimettetevi! Contadini, rifiutatevi di lavorare per i padroni! Non più guerre; pace tra i popoli; la terra a chi la lavora!».
In Italia i redattori dei giornali anarchici seguivano le traduzioni francesi dei suoi opuscoli o le edizioni italiane che su quella base venivano fatte, ne davano notizia ai lettori e ne pubblicavano scelte di brani sotto titoli come La società senza governo, La parola di Leone Tolstoj, Il pensiero anarchico in Leone Tolstoj, Il governo è male, Carne da cannone. La figura di Tolstoj era così venerata che le sue parole servivano a rafforzare la propaganda. Dopo aver letto l'anticipazione dello scritto Il mio giornale intimo in una rivista francese, Luigi Fabbri ne segnalò l'uscita nel quindicinale Il Pensiero, che dirigeva assieme a Pietro Gori. Una frase soprattutto l'aveva colpito: «Si dice che una rondine non fa primavera; ma perché una rondine non fa primavera, dovrà essa, che la primavera presenta, non volare, dovrà essa aspettare? Allora ogni uccello e ogni filo d'erba dovrebbe aspettare, e così la primavera non verrebbe mai!». Fabbri commentava: «È la risposta a coloro che rimproverano ai rivoluzionari la loro audacia col pretesto che i tempi non sono maturi, che non è venuta la primavera, per volare» (Il Pensiero, Roma, 10 agosto 1903).
Brunello ricostruisce, in forma di antologia, un dibattito a distanza su temi cruciali per chiunque voglia riflettere sui meccanismi del potere e del dominio, e per chiunque abbia a cuore libertà, eguaglianza, giustizia. Raggruppando i testi per parole chiave («Cristianesimo», «Patriottismo», «Guerra e pace», «Società senza governo», «Agire moralmente» per quanto riguarda Tolstoj; «Polemista, educatore», «Asceta cristiano, proprietario coll'ideale del buon contadino», «Progresso, rivoluzione, perfezionamento individuale» nella sezione dedicata ai giudizi degli anarchici), si è proposto di mostrare attorno a quali parole, e viceversa attorno a quali silenzi, si sia formata una tradizione rivoluzionaria. Il nodo della questione stava, e sta tuttora, nel modo d'interpretare l'appello alla non resistenza al male. Mentre altrove per esempio nei Paesi Bassi e negli Stati Uniti darà vita alla disobbedienza civile e all'azione diretta nonviolenta, in Italia viene rifiutata in nome della rivoluzione; allo stesso modo vengono rifiutate l'obiezione di coscienza e la diserzione, in nome di un immaginario che prevede soldati in armi correre in appoggio ai proletari e agli oppressi in rivolta.
a cura delle Edizioni Spartaco |
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Lev Tolstoj |
«Il potere deve
essere distrutto.
Ma come?»
di Lev Tolstoj
Il potere è divenuto inscuotibile, ma esso non si appoggia più sull'unzione, l'elezione, la rappresentazione o altri principi spirituali, ma sulla forza, e nello stesso tempo il popolo cessa di credere al potere e di rispettarlo e non si sottomette a esso se non perché non può fare altrimenti.
Ora, dopo la metà del secolo ultimo, dopo che il potere è divenuto inscuotibile e nello stesso tempo ha perduto nel popolo la sua giustificazione e il suo prestigio, una dottrina ha cominciato a manifestarsi fra gli uomini [
]. Secondo questa dottrina il potere non è, come lo si pensava in altri tempi, qualche cosa di divino, di augusto, non è nemmeno la condizione necessaria della vita sociale, ma semplicemente la conseguenza della violenza grossolana degli uni verso gli altri. Che il potere sia fra le mani di Luigi XVI o del Comitato di salute pubblica, del Direttorio o del Consolato, di Napoleone o di Luigi XVIII, del sultano, del presidente, del mikado o dei primi ministri, dovunque vi sarà il potere degli uni sugli altri, non vi sarà libertà, ma oppressione degli uni sugli altri. È per questo che il potere deve essere distrutto.
Ma come distruggerlo? E come, distruggendo il potere, fare in modo che li uomini non ritornino allo stato selvaggio della violenza grossolana esercitata dagli uni sugli altri?
Tutti gli anarchici come si chiamano i propagatori di questa dottrina sono affatto d'accordo fra loro sulla risposta alla prima questione e dicono che il potere per essere distrutto efficacemente, deve essere distrutto non con la forza, ma con la coscienza che avranno gli uomini del suo danno e della sua inutilità. Ma alla seconda questione: come deve essere stabilita la società senza il potere? essi rispondono in modi differenti.
L'inglese Godwin che viveva alla fine del secolo XVIII e il francese Proudhon, che ha scritto verso la metà del secolo ultimo, rispondevano alla prima questione che basta, per distruggere il potere, che gli uomini abbiano coscienza che il bene generale (Godwin) e la giustizia (Proudhon) siano violati dal potere e che se si spanda nel popolo la convinzione che il bene generale e la giustizia possono essere realizzati, ma solo con l'assenza del potere, questo si distruggerà da sé.
Alla seconda questione: come sarà garantito senza il potere il benessere della società? Godwin e Proudhon rispondevano che gli uomini guidati dalla coscienza del bene generale (Godwin) e dalla giustizia (Proudhon) troverebbero necessariamente le forme della vita le più ragionevoli, le più giuste e le più vantaggiose per tutti. Altri anarchici, come Bakunin e Kropotkin, riconoscono pure come mezzi di distruzione del potere la coscienza nelle masse del pregiudizio che esso causa e delle sue anomalie con i progressi dell'umanità, ma credono intanto possibile e anche necessaria la rivoluzione, a cui consigliano di preparare gli uomini. Alla seconda questione rispondono che appena lo Stato e la proprietà saranno distrutti, gli uomini si accomoderanno naturalmente alle condizioni ragionevoli, libere e vantaggiose della vita.
Alla questione dei mezzi di distruggere il potere, il tedesco Max Stirner e lo scrittore americano Tucker rispondono quasi come i precedenti.
Entrambi stimano che se si comprendesse che l'interesse personale di ciascuno è una guida affatto sufficiente e legale per gli atti umani e che il potere non fa che impedire le manifestazioni di questi principi dirigenti della vita umana, il potere si distruggerebbe da se stesso, grazie alla non obbedienza e principalmente, come dice Tucker, alla non partecipazione all'autorità. La loro risposta alla seconda questione è che gli uomini, sbarazzati dalla credenza superstiziosa nella necessità del potere, non seguiranno che il loro interesse personale, si aggrupperanno essi stessi secondo le forme sociali della vita le più regolari le più vantaggiose per ciascuno.
Tutte queste dottrine hanno affatto ragione su questo punto, che se il potere deve essere distrutto, non lo può essere con la forza; poiché il potere resterà il potere; ma non si può raggiungere questo risultato se non illuminando la coscienza che il potere è inutile e nocivo, e che gli uomini non debbono obbedirgli né parteciparvi. Questa verità è indiscutibile. Il potere non può essere distrutto che con la coscienza ragionevole degli uomini. Ma in che deve consistere questa coscienza? Gli anarchici suppongono che essa può essere basata su delle considerazioni relative al bene generale, alla giustizia, al progresso, all'interesse personale degli uomini.
Ma, senza rilevare che tutti questi principi non concordano fra loro, le definizioni stesso del bene generale, della giustizia, del progresso, dell'interesse personale sono infinitamente varie; ed è per questo che è difficile supporre che gli uomini in disaccordo e comprendendo diversamente i principi in nome dei quali essi lottano contro il potere, potrebbero distruggerlo quando esso è così fermamente stabilito e si difende con tanta abilità.
E la supposizione che le considerazioni del bene generale, della giustizia, della legge del progresso possano essere sufficienti perché gli uomini che non si sono liberati dal potere, ma che non hanno alcuna ragione di sacrificare il loro bene personale al bene generale, si aggruppino in condizioni eque che non urtino la libertà individuale, questa supposizione è ancora meno fondata. Quanto alla teoria utilitaria ed egoistica di Max Stirner e di Tucker, che afferma che i modi di agire di ciascuno secondo l'interesse personale stabiliranno degli equi rapporti fra tutti, essa non è solamente arbitraria, ma assolutamente contraria a ciò che è accaduto e in realtà accade.
Di modo che, riconoscendo con ragione l'arma spirituale come unico mezzo di distruzione del potere, la dottrina dell'anarchismo, attenendosi a una concezione non religiosa e materialista del mondo, non ha quest'arma spirituale, e si limita a delle supposizioni, a dei sogni che danno la possibilità ai difensori del violenza grazie alla falsità dei mezzi di realizzazione della dottrina che si propone di negare le sue vere basi.
E quest'arma spirituale è quella che gli uomini conoscono da lungo tempo, che sempre distrusse il potere e diede a quelli che ne usavano, la libertà completa che non si può togliere. Quest'arma e non ve n'è altra è la concezione religiosa della vita nella quale l'uomo considera la sua esistenza terrestre come una manifestazione parziale della sua vita, legando questa alla vita infinita, nello stesso tempo che, ponendo il suo bene supremo nel compimento delle leggi di questa vita infinita, giudica che la sottomissione a queste leggi è più importante per lui dell'obbedienza a non importa quali leggi umane. [
].
Lev Tolstoj
(da L. Tolstoj, Agli uomini politici, in Id., Agli uomini politici. La guerra russo giapponese,
trad. di M. Salvi, Sonzogno, Milano s.d. [1905], pp. 10-14)
Errori e rimedi. Schiarimenti
di Errico Malatesta
D'altra parte un errore, opposto a quello in cui cadono i terroristi, minaccia il movimento anarchico. Un po' per reazione contro l'abuso che in questi ultimi anni si è fatto della violenza, un po' per la sopravvivenza delle idee cristiane, e soprattutto per l'influenza della predicazione mistica di Tolstoj, alla quale il genio e le alte qualità morali dell'autore danno voga e prestigio, incomincia ad acquistare una certa importanza fra gli anarchici il partito della resistenza passiva, il quale ha per principio che bisogna lasciare opprimere e vilipendere se stesso e gli altri piuttosto che far del male all'aggressore. È quello che è stato chiamato l'anarchia passiva.
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Errico Malatesta |
Poiché alcuni, impressionati dalla mia avversione contro la violenza inutile o dannosa, hanno voluto attribuirmi, non so troppo se per lodarmi o per denigrarmi, delle tendenze verso il tolstoismo, io profitto dell'occasione per dichiarare che, secondo me, questa dottrina, per quanto appaia sublimamente altruista, è in realtà la negazione dell'istinto e dei doveri sociali. Un uomo può, se è molto
cristiano, soffrire pazientemente ogni sorte di angherie senza difendersi con tutti i mezzi possibili, e restare forse un uomo morale. Ma non sarebbe egli, in pratica e qualunque senza volerlo, un terribile egoista, se lasciasse opprimere gli altri senza tentare di difenderli? se, per esempio, preferisse che una classe fosse ridotta alla miseria, che un popolo fosse calpestato dall'invasore, che un uomo fosse offeso nella vita e nella libertà, piuttosto che ammaccar la pelle dell'oppressore?
Vi possono essere dei caso in cui la resistenza passiva è un'arma efficace, e allora sarebbe certamente la migliore delle armi, poiché sarebbe la più economica di sofferenze umane. Ma, il più delle volte, professare la resistenza passiva significa rassicurare gli oppressori contro la paura della ribellione, e quindi tradire la causa degli oppressi.
È curioso osservare come i terroristi e i tolstoisti, appunto perché sono gli uni e gli altri dei mistici, arrivano a conseguenze pratiche presso che uguali. Quelli non esiterebbero a distruggere mezza umanità pur di far trionfare l'idea; questi lascerebbero che tutta l'umanità restasse sotto il peso delle più grandi sofferenze piuttosto che violare un principio.
Per me, io violerei tutti i principi del mondo pur di salvare un uomo: il che sarebbe poi infatti rispettare il principio, poiché, secondo me, tutti i principi morali e sociologici si riducono a questo solo: il bene degli uomini, di tutti gli uomini.
Errico Malatesta
(da L'Anarchia, Londra, agosto 1896, ripubblicato in Id., Scritti scelti, a cura di G. Berneri-C. Zaccaria,
Edizioni RL, Napoli 1954, pp. 21-25)
Leone Tolstoj
1828-1910
di Luigi Galleani
Abbiamo dato nel numero scorso l'annunzio della morte di Leone Nikolajewitch Tolstoj, avvenuta la mattina del 30 novembre u.s. ad Astapova.
Rileviamo in questo una circostanza che, comunque interpretata, non rimane meno vera: l'annunzio della sua morte ha corso il modo d'un brivido fugace. Sono dieci giorni che è morto, e nessuno parla più di lui.
Tra qualche anno nessuno, all'infuori del mondo puramente letterario in cui aveva fin dal 1863 conquistato il diritto di cittadinanza con Guerra e Pace e con Anna Karenina, parlerà più delle sue dottrine, delle sue opere filosofiche e morali.
E sarà giustizia.
Perché tutta la sua filosofia si riassume in uno sterile tentativo d'impossibile restaurazione cristiana, e tutta la sua morale si conchiude nel più scellerato insegnamento di rassegnazione e di rinunzia, nel dovere della non resistenza al male.
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] E per lui tutta l'essenza del cristianesimo si riassumeva nel discorso che, secondo la leggenda, Cristo aveva tenuto ai discepoli sul Monte degli Ulivi:
I. Resta in pace con tutti e se la pace è turbata sforzati a ristabilirla;
II. L'uomo non prenderà che una donna e nessuno dei due sotto alcun pretesto, abbandonerà mai l'altro;
III. Non fare giuramenti;
IV. Soffri l'ingiuria e non rendere male per male;
V. Non turbare la pace neanche per giovare alla tua nazione.
[
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Come nel nome dei cinque comandamenti del Signore aveva osato fulminare le chiese che «non soltanto hanno in ogni tempo misconosciuto la dottrina del Cristo e, per la forza stessa delle cose, le sono state sempre e acerbamente ostili» ma «come chiese, come congregazioni erette sulla propria infallibilità, sono istituzioni apertamente anticristiane» (1); così sempre in nome di cinque comandamenti del Signore aveva scagliato contro lo Stato, contro la legge, la polizia, la magistratura, l'esercito le sue folgori. Non in nome dell'umanità; non in nome della libertà; in nome del Cristo!
Cristo aveva detto: «Non giudicate se non volete essere a vostra volta giudicati» e in nome del Cristo ripudiava tribunali e giudici; Cristo aveva comandato: «non ammazzare!» e in nome di Cristo ripudiava il servizio militare che è scuola di omicidio; ripudiava lo Stato che su questi presidi si regge.
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Luigi Galleani |
Ripudiava lo Stato e la legge perché non esercitavano la loro severità che su di un insieme limitato e ristretto di azioni riprovate dalla morale e dalla pubblica opinione: «L'opinione pubblica riprova fin dai tempi di Mosè l'egoismo, la crudeltà, la lussuria; condanna l'egoismo in tutte le sue forme, non soltanto quando attenta violentemente ai beni del prossimo; condanna ogni specie di fornicazione colle cortigiane, colle mogli divorziate come colla moglie legittima; condanna tutte le crudeltà; i maltrattamenti, la fame, le stragi non soltanto degli uomini ma anche degli animali; mentre la legge non condanna che ALCUNE forme di egoismo, il furto e la frode; ALCUNE forme di lussuria e di crudeltà, l'adulterio, la mutilazione o l'assassinio, e autorizza così tutte le altre forme di lussuria, di egoismo e di crudeltà» (2).
Non dunque per eccesso, ma per difetto di severità e di autorità ha potuto Tolstoj conchiudere che «il rispetto di non importa quale legge è segno della più crassa ignoranza» (3).
Cotesto fiero atteggiamento di Tolstoj contro la chiesa, contro lo Stato e più contro la proprietà, giacché egli ha sempre considerato i ricchi «colpevoli per il solo fatto di esser ricchi» hanno ingenerato in molti il sospetto che Tolstoj fosse anarchico. Il sospetto era anche autorizzato dai giudizi che egli aveva espresso sull'esecuzione sommaria di Alessandro II e di Umberto I.
[
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Tolstoj non era anarchico soprattutto perché l'anarchismo considera la vita affrancata da ogni giogo d'autorità, dall'autorità divina prima che dall'umana, ed egli è un credente «lo schiavo di dio» come egli amava dichiararsi, perché l'anarchismo è avvenire, è progresso, è la più alta forma di progresso che ci sia dato concepire per una più civile società umana, ed egli vorrebbe portarci al cristianesimo primitivo che è la forma sociale superata da venti secoli d'esperienza; perché l'anarchismo tiene conto di tutti gli elementi storici scientifici economici e morali che sono il patrimonio della presente umanità e di questi elementi materia le sue concezioni della società nuova ed è così razionale e scientifico anche nelle sue ipotesi, mentre la teoria tolstoiana è metafisica teologica complicata di una moralità assurda e antiumana; perché dove Tolstoj dice umiltà, l'anarchismo dice fierezza, dove il cristianesimo dice rassegnazione, l'anarchismo dice rivolta, dove quello dice penitenza questo grida libertà, benessere, pienezza intensa e incoercibile di vita!
A Leone Tolstoj è capitato quello che prima già era avvenuto a Herbert Spencer. Nella sua lotta per l'individuo contro lo Stato Herbert Spencer non ha perduto mai un'occasione per investire gli anarchici dei suoi sarcasmi e delle sue invettive, e nessuno ha dato agli anarchici un materiale più interessante e più efficace di distruzione rivoluzionaria.
Il Tolstoj nella sua crociata contro ogni forma di violenza per affrettare colla rassegnazione e la resistenza passiva l'avvento del «reame di dio» sulla terra, ha infuso nelle vene della rivolta proletaria turbini di sangue indocile colle sue critiche inesorabili dei fondamentali istituti della società borghese.
Per questo tra i borghesi che credono più nell'efficacia della mitraglia regia che non nelle cristiane predicazioni degli apostoli
in ritardo di una ventina di secoli, Leone Tolstoj è stato frettolosamente dimenticato; per questo forse abbondano pietose e diffuse le necrologie sui giornali sovversivi anche su quelli che, come il nostro, non l'amarono mai e giunsero, irriverenti e iconoclasti, a dubitare anche della sincerità della sua fede e del suo apostolato.
Perché, francamente, sulla sincerità della sua propaganda noi abbiamo avuto e abbiamo anche oggi più che un sospetto, e non l'abbiamo amato mai.
Luigi Galleani
(da Cronaca sovversiva, Barre (Vermont, USA), 2 dicembre 1910, poi in Id., Medaglioni. Figure e Figuri, Biblioteca de L'Adunata dei Refrattari, Newark (New Jersey, USA) 1930, pp. 90-94).
Il pensiero
anarchico in
Leone Tolstoj
di Luigi Fabbri
Leone Tolstoj è morto. E con lui è scomparso uno dei grandi geni che hanno onorato la specie umana non solo con le opere dell'ingegno ma anche con un apostolato ideale di bontà.
In poco volgere di anni, quanti il mondo ha perduto di questi fari di luce! A essi tutti gli uomini di pensiero libero e tutti gli oppressori si volgevano fidenti, sicuri di poter trarne un ammaestramento e un incoraggiamento nella lotta faticosa contro il privilegio e per la libertà.
Sia che, come in Zola, Ibsen, Björson, la loro battaglia fosse combattuta nel campo letterario; o, come in Spencer e Bovio, nel campo filosofico; o, infine, come in Luisa Michel, Eliseo Reclus, Francisco Ferrer e Leone Tolstoj, la loro fosse una battaglia molteplice e sul terreno della sociologia e su quello dell'azione pratica, certo è che tutti questi grandi figli dell'umanità hanno lasciato dietro di sé un vuoto enorme, che ci inspira una inconsolata malinconia.
Oh, certo, è la legge della vita questa che trascina nel nulla della morte anche coloro che meglio e più nobilmente hanno vissuto. Ma non ci sentiremmo troppo rattristati, se vedessimo il loro posto occupato di nuovo da altri valori intellettuali e morali, che promettano all'umanità la prosecuzione dell'opera dei primi. Ma, purtroppo, per ora non vediamo nei nuovi sopraggiunti che mediocrità superbe quanto inutili, spinte solo dall'egoismo e dall'utilitarismo più gretto cui le generazioni attuali sono state allevate da tutta una falsa educazione scaturita dall'arbitraria e unilaterale interpretazione dei progressi scientifici.
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Luigi Fabbri |
Quello che si chiama il «tolstoismo» non ci ha seguaci; tutt'altro! Se la filosofia tolstoiana della vita si diffondesse e trionfasse, assisteremmo certo a un regresso umano più che deleterio. Ma ciò non ci vietava di vedere in Leone Tolstoj la protesta vivente più bella in nome dell'ideale contro lo spirito gretto e basso che vince nell'ora presente. Il suo mistico altruismo, la sua devota abnegazione inconcepibile per noi occidentali e in realtà inadatto alla vera missione della vita che è azione di combattimento e non contemplazione hanno un grande valore di protesta e di reazione contro la mancanza di ideali che caratterizza le generazioni presenti.
Malgrado la mentalità diversa e le diverse tendenze, l'apostolo di Jasnaia Poliana è uno degli ultimi eroi di un tempo che è tramontato, del tempo così saturo dell'idealismo e di febbre novatrice che, cominciato coi primi rivolgimenti del 1848, è finito dopo la Comune, col tramonto dell'Internazionale. Lontano da questi avvenimenti, in antitesi coi loro programmi, Leone Tolstoj, si riallaccia a essi per il fervore religioso religioso nel più nobile e umano senso della parola che li animava. Poi vennero i pigmei della sesta giornata che, basandosi sopra un materialismo pseudoscientifico, hanno inaugurato l'era della degenerazione riformista.
Che importa se Leone Tolstoj dalle premesse giuste giungeva a conclusioni che non sono tutte le nostre? Che importa ch'egli, dalla critica aspra della società moderna, cui consentiamo, giungesse a consigliare il grave errore della non resistenza al male? Noi non misuriamo il genio, non misuriamo l'opera dei grandi alla stregua dei nostri programmi: e sappiamo intendere lo spirito che li anima, anche al di sopra dei particolari che non ci persuadono, al di là dei metodi e delle forme che non ci sembrano adatte al trionfo delle nostre idee.
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Ciò nonostante Leone Tolstoj fu più nostro che d'altri, poiché egli non vedeva la salute dell'umanità che nella scomparsa di tutti gli sfruttamenti e di tutte le autorità. Chi, non dico dei conservatori clericali, ma dei repubblicani e dei socialisti, farebbero proprie le idee di Tolstoj sulla proprietà, sul collettivismo, sul militarismo, sul patriottismo, sullo stato, sul parlamentarismo che sono così comuni con le idee degli anarchici?
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Chissà del resto che non ci sia pure per noi qualche altra cosa da imparare e da assimilarci, nell'apostolato tolstoiano. Ché pur noi anarchici siamo troppo imbevuti dello spirito utilitaristico e bassamente materiale dei nostri tempi; e sarebbe un vivificare e nobilitare il nostro movimento, se riuscissimo a trasfondervi quello spirito di sacrificio e di idealismo che da qualche tempo ci manca, e che Tolstoj, purtroppo unilateralmente ed esclusivamente, ha meglio di tutti impersonato nel mondo.
Edizioni Spartaco
(da Il Pensiero, Bologna, 16 dicembre 1910)
Note
1. Tolstoj, Il regno di Dio, pp. 96-97.
2. Ibid., p. 172.
3. Tolstoj, Fede, p. 110.
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Edizioni Spartaco
(collana «il risveglio», n. 21)
Lev Tolstoj
Una rondine fa primavera
Scritti sulla società senza governo con i giudizi degli anarchici italiani (1894-1910)
a cura di Piero Brunello
250 pagine - 12,00 euro |
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