Dialogare coi fascisti di Hezbollah?
Salve.
Nel numero di A n. 320, Antonio Cardella ha sostenuto alcune tesi che intendo qui discutere criticamente.
Anzitutto: egli reputa una «considerazione ovvia» il fatto che la causa del recente conflitto israelo-libanese sia dovuta alla mancata formazione di un vero Stato palestinese. A dire il vero, questa considerazione appare tutt'altro che ovvia, dal momento che il programma politico di Hezbollah non è affatto quello di contribuire pacificamente e costruttivamente all'edificazione di uno Stato palestinese fondato sulla convivenza pacifica e il riconoscimento consensuale di confini certi con Israele, bensì come tutti i suoi leaders non si stancano di ripetere quello di distruggere l'entità sionista, cioè di cancellare lo Stato ebraico. La verità è che agli Hezbollah non interessa affatto la causa palestinese, se non nel senso a cui è sempre interessata a tutti i movimenti fanatici e agli Stati autoritari confinanti con Israele: per bassi fini di politica interna ed internazionale, che hanno sinora nuociuto, piuttosto che giovato, alla causa palestinese. Quanto alla «soluzione del problema dei profughi palestinesi», che Cardella sembra porre come conditio sine qua non della pace tra palestinesi e israeliani, la considerazione più ovvia da fare è che finché verrà agitata questa bandiera non sarà mai possibile far nascere lo Stato palestinese, in quanto il ritorno dei profughi comporterebbe la fine dello Stato di Israele.
Si tratta, cioè, di una condizione inaccettabile da parte israeliana, come del resto i dirigenti palestinesi hanno sempre saputo e della quale si sono serviti come strumento di prosecuzione della guerra per la cancellazione di Israele con altri mezzi. Ciò è precisamente accaduto quando, posti di fronte a vantaggiosi e onorevoli compromessi che avrebbero sancito la nascita del loro Stato, come è accaduto a Camp David nell'estate del 2000, al fine di respingere le proposte di pace senza al contempo perdere la credibilità internazionale, hanno appunto addotto a motivo del loro rifiuto proprio la mancata accettazione israeliana di questa richiesta. Ed è significativo che tra le condizioni per la soluzione del problema palestinese Cardella ometta di ricordare il riconoscimento dell'esistenza dello Stato di Israele da parte dei palestinesi, che prima l'Olp, sino a tempi recenti, ed ora Hamas, hanno rifiutato e rifiutano con ostinazione di compiere.
In un altro punto, Cardella, per giustificare la sua opposizione all'invio di truppe italiane in Libano, scrive: «È storicamente consolidata la constatazione che l'intervento militare, comunque giustificato, non abbia mai composto controversie che non siano state risolte dalla politica». Anche questa affermazione pare tutt'altro che ovvia. Tra i tanti motivi che possono essere evocati contro gli interventi militari e contro le guerre, questo pare certo uno dei più deboli. Senza la guerra ad Hitler, ad esempio, i nazisti avrebbero conquistato e soggiogato il mondo intero: la politica, vergognosamente arrendevole, degli Stati europei memento Monaco! certo non aveva già risolto il problema nazista, prima del conflitto, mentre è stata propriamente la totale sconfitta militare dei nazisti a rendere possibile la convivenza pacifica dei popoli in Europa. Facciamo un esempio più recente: la guerra alla Serbia di Milosevic se non ha risolto, ha certo dato un grande contributo alla risoluzione della politica espansionista e genocida di questo Stato, e semmai la considerazione storicamente più ovvia da fare in questo caso è che forse si sarebbe potuto e dovuto intervenire prima.
Con ciò, ovviamente, non voglio certo farmi apologeta della guerra in quanto tale o degli interventi militari in quanto tali: ripeto, voglio solo dire che non è vero che non risolvono mai i problemi. Questo mi sembra storicamente falso e del tutto infondato.
Cardella poi si dichiara contrario all'intervento militare dell'Italia in Libano anche per un altro motivo. «L'ottica con la quale parte questa missione» scrive sarebbe viziata da un «pregiudizio» verso gli Hezbollah, con i quali, invece, occorrerebbe a suo parere dialogare. La malcelata ammirazione di Cardella per queste formazioni fascistoidi e teocratiche («che così validamente si sono opposte all'invasione dell'esercito con la stella di Davide», afferma compiaciuto) risulta abbastanza inspiegabile: noto en passant che le stesse parole sono usate in Italia da Oliviero Diliberto, uno che fa motivo di vanto quello di dialogare con tutti i dittatori e i movimenti totalitari del mondo purché, ovviamente, antiamericani da Fidel Castro a Kim Jong Il, passando, appunto, per gli Hezbollah.
Tre sono i motivi addotti da Cardella per sfatare il «pregiudizio» contro gli Hezbollah: 1) hanno vinto regolarmente le elezioni; 2) sono fortemente radicati sul territorio; 3) interpretano «le più autentiche esigenze del popolo». Il fatto che un movimento vinca le elezioni non lo rende, di per sé, un interlocutore credibile o desiderabile. Anche Hitler, se è per questo, ha vinto le elezioni, nel 1933, e risulta strano questo peana in favore della democrazia proprio quando a vincere le elezioni è un movimento fascistoide e teocratico. Il fatto che gli Hezbollah abbiano vinto le elezioni dovrebbe far riflettere in primo luogo gli americani, principali responsabili di questa confusione concettuale, che ha disastrose applicazioni pratiche sul fatto che la democrazia, senza istituzioni e cultura liberale consolidate, non sono certo una garanzia di vivere civile e libero, ma solo uno strumento di selezione delle élites, quali che siano. Che significa poi dire che gli Hezbollah sono radicati sul territorio? Anche la mafia è radicata sul territorio, ma non pare un motivo valido per aprire un dialogo con essa. Infine, il fatto che Hezbollah interpreti le più autentiche esigenze del popolo non pare certo una ragione persuasiva per instaurare una proficua collaborazione. Il popolo non è una divinità da adorare in ogni modo, le sue esigenze non sono di per sé condivisibili: Hitler, Stalin, Mussolini, Pol Pot interpretavano, a loro modo, le esigenze più autentiche dei loro popoli, o di una parte, più o meno consistente, di essi, potendo contare su un consenso di massa. Sarebbe stato opportuno dialogare anche con loro?
Secondo Cardella, l'ottica dell'intervento militare in Libano sarebbe altresì falsata dal fatto che i politici europei, «sostenuti da una stampa schierata a senso unico» pro Israele (par vero piuttosto il contrario, qui in Europa), mentre chiedono ad Hezbollah di disarmare cosa non vera: è stato detto e ripetuto che Hezbollah deve essere disarmato dall'esercito libanese; il che equivale a dire che esso non deve essere disarmato, poiché ovviamente l'inconsistente esercito libanese mai si sognerà di disarmare le milizie del partito di Dio , non chiedono agli israeliani di ritirarsi dai confini con Libano. E come potrebbero fare questa richiesta? Da quando in qua si invita uno Stato a ritirare l'esercito dai propri confini? Perché Israele dovrebbe farlo se, dopo che si è finalmente ritirato dal Libano, ha ricevuto in cambio una caterva di missili, causa unica della guerra?
Prima di chiudere, ed omettendo di commentare altre affermazioni di Cardella che lasciano perplessi, mi si permetta di soffermarmi su un altro concetto da lui espresso. Egli rimprovera la diplomazia internazionale di non aver coinvolto l'Iran e la Siria nel tentativo di «spegnere l'incendio mediorentale», con il «pretestuoso motivo che siano questi paesi ad armare la mano degli Hezbollah». Strano concetto, che per spegnere un fuoco bisogna consultare il piromane che l'ha appiccato! È o non è un fatto che Siria e Iran hanno riempito di armi gli Hezbollah? Se lo è, come tutti gli osservatori internazionali riconoscono, il motivo per cui queste dittature non sono state coinvolte nei negoziati pare tutto fuorché pretestuoso.
Piuttosto dunque che dialogare con gli Hezbollah, credo che bisognerebbe dialogare e aiutare tutte quelle formazioni non estremiste che pure in Libano ci sono, e che la guerra con Israele ha avuto la conseguenza di ricompattare contro Israele. Così come, piuttosto che dialogare con Iran e Siria, occorrerebbe aiutare tutti quei gruppi di opposizione interni a questi Stati che lottano per la libertà e la democrazia. Se non ricordo male, non sono passati molti anni dacché un movimento studentesco si è coraggiosamente battuto in Iran contro il regime teocratico ed oppressivo degli ayatollah.
Quanto all'intervento in Libano, devo dire che paradossalmente sono d'accordo con Cardella, anche se per motivi opposti: penso che sia un intervento sbagliato, in quanto i soldati lì inviati faranno parte degli utili idioti, rimanendo inerti di fronte al nuovo riarmarsi degli Hezbollah preludio assai probabile della prossima guerra.
Francesco Berti
(Bassano del Grappa)
Ricordando Murray Bookchin
Il Burlington Free Press è lo storico quotidiano di Burlington nel Vermont, uno degli Stati più selvaggi dell'Unione americana. Sdraiato proprio sulla strada tra New York e il Québec, fra i boschi che ricoprono le dolcissime Green Mountains, questo piccolo territorio ha solo mezzo milione di abitanti, forse più vacche che cittadini, e una tradizione democratica, municipalista e liberale proverbiali.
Il viaggio da Burlington a Portland, nel Maine, dura quasi quattro ore di highway e non ci metto molto ad arrivare alla pagina degli obituaries del BFP. Lo scopro così, ieri (il 30 luglio 2006, ndr) a Burlington è morto Murray Bookchin.
Non potrò andare ai suoi funerali, sto lasciando il Vermont e non so quando ci tornerò. Ma voglio comunque aggiungere un piccolo obituary ai tanti che verranno scritti per Bookchin: era nato a New York nel 1921, si era formato come marxista ma, giovanissimo, durante la guerra di Spagna si era avvicinato agli ideali libertari. Aveva poi dedicato gli ultimi cinquant'anni della sua vita a coniugare ecologismo e municipalismo, anarchia e lotta alla gerarchia in ogni sua forma. Il suo primo libro, Our synthetic environment, fu nel 1962 uno dei primissimi testi a porre l'attenzione sulla questione ecologica, pochi mesi prima del ben più noto Primavera silenziosa di Rachel Carson, la cui nuova edizione sfoggia la prestigiosa prefazione di Al Gore.
Murray Bookchin non ha mai avuto amici tanto potenti, e in Italia è stato sempre e solo ospite del movimento anarchico: lontana dall'ambientalismo «conservativo e conservatore» come dal primitivismo della deep ecology, la sua utopia ecologica era strettamente legata alla necessità di liberarsi dalle gerarchie sociali, economiche e di classe. Era ecologica nel senso più pieno del termine, integrata produttivamente e socialmente nell'ambiente che la ospita, in una feconda interdipendenza tra umani e non-umani, direbbe Murray. Appunto, si definiva un utopista. Anzi: riteneva che una giusta dose di utopia fosse indispensabile per immaginare un mondo migliore.
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Murray Bookchin |
Da trent'anni si era rifugiato nel Vermont, lì nel cuore delle contraddizioni della bestia chiamata Stati uniti d'America. Tra le foreste che circondano la highway aveva fondato e diretto l'Istituto per l'Ecologia Sociale, che continua a rilasciare crediti universitari con corsi sull'anarchia e il municipalismo. Ma il Vermont è anche una delle culle della controcultura degli anni sessanta, che oggi ha dato vita alla Onion River Coop, uno dei tanti supermercati community-driven che vendono soltanto prodotti locali rigorosamente organic, o alla Vermont Consumers' Energy Co-op che fornisce ai suoi membri energia a basso costo da fonti rinnovabili. In due occasioni diverse sono passato per Burlington, Brattleboro, Montpelier, e pochi posti al mondo più del Vermont mi hanno dato l'impressione di aver metabolizzato la lezione bioregionalista e municipalista di Bookchin.
Qualcosa però stona, in questa storia. Le librerie di Burlington sono stracolme del nuovo libro di Al Gore sul cambiamento climatico, An inconvenient truth, ma la società che Murray Bookchin ha immaginato in L'ecologia della libertà (Eleuthera, 548 pp, 18 euro), la summa del suo pensiero della maturità, è anzitutto una società non-gerarchica e assembleare. Da quel sogno il Vermont e Al Gore sono più che mai distanti.
Rip, Murray, ma i vermonters avrebbero ancora bisogno di te.
Alessandro Delfanti
(Piacenza)
I
nostri fondi neri
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