Il “Veronese”
dal naso rotto
Di quel lontano episodio si era persa memoria. Di quando, dopo una notte di avvinazzati schiamazzi nel 1891, la statua eretta in una piazza di Verona al genio artistico del pittore Paolo Caliari, detto il “Veronese”, perse parte del naso. E delle pronte, e false, denunce dell’autorità di polizia contro un gruppo di anarchici e socialisti, costretti, tanto per cambiare, a un lungo periodo di detenzione preventiva prima di essere prosciolti con formula piena dall’accusa di essere i responsabili del vandalico gesto.
Oggi riporta all’onore delle cronache quel fatto curioso il giovane studioso Andrea Dilemmi, che nel suo lavoro di indubbio valore arricchito anche da preziose appendici (Andrea Dilemmi, Il naso rotto di Paolo Veronese. Anarchismo e conflittualità sociale a Verona 1867-1928, Pisa, BFS, 2006, € 20,00) ricostruisce con felice capacità espositiva accompagnata al rigore della ricerca scientifica, la storia e l’attività del movimento anarchico veronese. È un’altra tessera che in questi ultimi tempi va ad aggiungersi – grazie anche alla sensibilità di case editrici particolarmente attente – alle numerose altre che sempre più opportunamente stanno componendo il quadro dell’anarchismo di lingua italiana, indagato tanto nelle sue componenti locali quanto in quelle più generali di carattere nazionale. Una tessera esemplare per la serietà che ne contraddistingue i criteri metodologici e per la compiutezza dei risultati ottenuti. Del resto, conoscendo l’autore e avendone seguito, seppure marginalmente, il corso dei lavori, tali risultati non sono certo una sorpresa.
Quella che emerge è una realtà sostanzialmente poco conosciuta, la realtà di un movimento considerato fino ad oggi periferico e decentrato rispetto a quanto siamo abituati a pensare in base agli studi precedenti, che invece si conferma in tutta la sua importanza, anche per i frequenti e non occasionali contatti stretti organicamente dagli anarchici veronesi con compagni di località più “importanti”, quali, ad esempio, Milano e Bologna. Merito di Dilemmi, grazie alla mole dei documenti studiati e alle molte notizie riportate alla luce e felicemente ordinate nella loro scansione temporale, diventa pertanto quello di aver saputo dimostrare come anche in località scarsamente prese in considerazione, fino ad oggi, dagli studi storici sull’anarchismo italiano, fossero presenti gruppi anarchici attivi, bene integrati nella vita sociale cittadina (e qui si fa giustizia degli interessati stereotipi che ancora vorrebbero l’anarchismo estraneo ai processi sociali) e attenti ad apportare il loro contributo allo sviluppo del movimento anarchico su un piano più generale.
In una città come Verona, infatti, una delle rare isole né bianche né clericali nel clericalissimo Veneto, governata a più riprese da solide amministrazioni socialiste e sede di lotte operaie e contadine di indubbia importanza (Camere del lavoro e leghe contadine saranno fra le più forti e organizzate del nord Italia), i vari gruppi anarchici, nonostante la precarietà dovuta alle frequenti repressioni, parteciparono alle lotte sociali diventando parte integrante, e spesso nemmeno secondaria, del contesto sociale che contribuì a fare di questa città una delle più avanzate nelle conquiste sociali dei lavoratori.
In un percorso che parte dalle prime formazioni internazionaliste per giungere, pressoché senza soluzioni di continuità, all’avvento e al consolidarsi del fascismo, l’autore ricostruisce le tappe del movimento spiegando come l’anarchismo veronese, pur nella inevitabile frammentarietà della sua presenza, riuscì sempre a mantenere caratteristiche sociali e organizzative profondamente radicate nel contesto sociale cittadino, tanto che la locale Camera del lavoro aderente all’Usi, fortemente condizionata dalla presenza libertaria, venne ad essere la più forte del Veneto e una delle più importanti del paese, come numero di iscritti e influenza sul proletariato.
Altro merito di questo importante studio è l’aver messo in evidenza come, nei passaggi fondamentali del primo dopoguerra – occupazione delle fabbriche, rivoluzione russa, ascesa del fascismo, creazione degli arditi del popolo – il percorso politico e sociale dell’anarchismo veronese rifletta, in sostanza, quello più generale dell’anarchismo italiano. Le contraddizioni nella valutazione della rivoluzione russa, le pressanti istanze organizzative, l’entusiasmo nel movimento delle occupazioni, il contrasto sempre più marcato col socialismo riformista prima e con il comunismo autoritario poi, le incertezze, le debolezze e le incomprensioni, ma anche gli episodi luminosi nella lotta contro il fascismo, analizzati nella loro dimensione locale, contribuiscono a rendere più comprensibile e chiaro quanto si verificò, con le stesse dinamiche, sul piano nazionale. E infatti alcune delle conclusioni di Dilemmi, qui applicate alla realtà e alla consistenza dell’anarchismo veronese, possono ben essere applicate, credo, alla realtà e alla consistenza di gran parte, se non di tutto l’anarchismo italiano: “L’assalto alla Camera del lavoro sindacalista [dell’agosto del 1922] segna materialmente la fine del contributo di anarchici e sindacalisti rivoluzionari alla storia cittadina. Da una presenza costante ma marginale, le tensioni rivendicative e rivoluzionarie del dopoguerra li avevano portati, nel Biennio rosso, ad assumere un ruolo di primo piano. Significativo, a tale riguardo, il fatto che da un Elenco dei più pericolosi anarchici della provincia del 1901 contenente undici nomi, si passi nel 1925 ad uno che ne comprende 149, pur includendo vecchi militanti ormai inattivi e altri residenti all’estero. Il periodo di maggiore influenza e diffusione dell’anarchismo è quindi legato a doppio filo all’attività sindacale, al contatto che si sviluppa con le lotte dei lavoratori e, in particolare, alla storia della Camera del Lavoro aderente all’Usi”.
Comunque, se indubbiamente indebolito e praticamente costretto alla clandestinità come nel resto del paese, l’anarchismo veronese non mancò di operare sotterraneamente per minare le basi del fascismo, e ne è testimonianza, nel capitolo conclusivo, la drammatica vicenda del veronese Giovanni Domaschi, che dopo essere stato lungamente e ripetutamente incarcerato assieme ad altri compagni per attività antifascista, finì i suoi giorni nel campo di concentramento di Dachau. E il bel ritratto biografico che in appendice, assieme a quelli degli altri anarchici veronesi, ne ricostruisce la vita, non è solo un dovuto omaggio alla sua memoria, ma anche, nella sua esemplarità, un omaggio al desiderio di libertà ed emancipazione sociale che sempre mosse gli anarchici della città scaligera.
Massimo Ortalli
Dio, anarchia,
ebraismo
All’inizio è il rifiuto dell’autorità. Questa sorta di breviario per laici (Sono ebreo, anche. Riflessioni di un ateo anarchico, prefazione di Rav Giuseppe Laras, Garzanti, Milano 2007, 112 pagg., € 10,00) che Arturo Schwarz ha steso ha la sua prima figura in questa dimensione. Poi seguono altre stazioni riflessive su molti temi strutturali della nostra quotidianità: il rispetto nel rapporto uomo-donna; il diritto alla felicità; il tema della giustizia; il rapporto rispettoso con la natura; i margini di discrezionalità e di rispetto per le diversità. Quella di Arturo Schwarz non è un bilancio per punti di un costrutto di etica che riguarda aspetti sia del privato che del pubblico.
Pur parlando a lungo di un sistema che ha il problema di Dio al suo centro, tuttavia, non è l’esposizione né di una fede di comodo, ritagliata su misura, né di un sistema di fede alternativo. Per molti aspetti non è neppure una questione di fede. È, invece, la descrizione di un rapporto inquieto con un’etica che ha Dio nei suoi parametri, che si esprime come parola di Dio, ma che poi proprio per quello strano e contorto – comunque singolare – confronto col principio di autorità con cui appunto si aprono queste considerazioni, ha l’effetto di rimettere in discussione gli ambiti e i contorni di questa parola. Comunque non fondata e sostenuta da un principio di autorità.
Così Arturo Schwarz si diverte a trasportare il suo lettore nei percorsi apparentemente bizzarri e contorti di una costruzione instabile. Un’architettura che si sostiene su molte cose lontane tra loro. Il rapporto con il fidarsi della legge, ma anche la conflittualità all’interno della legge. L’accettazione di alcuni principi biblici, ma anche la percezione che questi non definiscano un comportamento e un costrutto coerente.
Tuttavia, più che un vagare senza una meta, queste note hanno un’origine precisa e definita, e Schwarz dopo averne accennato più volte, alla fine del libro vi si sofferma specificamente. All’origine di questo libro sta l’omaggio inizialmente a una grande fedeltà: la fedeltà è Baruch Spinoza, il pensatore più radicale di ogni tempo. Il richiamo a Spinoza, tuttavia, non costituisce tanto l’omaggio a un impianto filosofico quanto, soprattutto, a un’esigenza. L’esigenza è quella della felicità, una condizione perseguibile a partire dall’intenzione di elaborare e trattenere il ricordo. Che cosa c’è all’origine del ricordo? Arturo Schwarz lo sostiene e lo afferma più volte la necessità di trovare un itinerario che in qualche modo faccia dimenticare la dimensione del dolore.
È una premessa a suo modo consolatoria. Ma non mi convince e alla fine non mi sembra che non sia nemmeno la cifra reale di queste note sulla vita inquieta. Perché il perseguimento della virtù sta nel sapere non solo il proprio limite, ma anche le condizioni da cui si diparte la propria infelicità.
È l’esperienza della persecuzione, la memoria dell’orrore e non la credenza nella ragione a costituire le radici forse più solide di un nucleo di convinzioni e impegni normativi che militano oggi a favore del riconoscimento universalistico dei diritti umani.
È l’umiliazione subita a fondare il ricordo e a determinare, per esempio, la decisione o il deliberato verso la presenza pubblica. Non è la macchina della giustizia a motivare l’impegno pubblico, spesso, alla rovescia, l’ingiustizia provata, il senso di frustrazione subito, la sensazione di confrontarsi con un apparato che non è superabile singolarmente o individualmente a spingere verso l’azione pubblica.
L’impegno pubblico in breve non si origina da una scelta razionale fondata sulla convinzione, o sull’entusiasmo o alla decisione di poter condividere con altri la propria fortuna. Quella decisione, al contrario, nasce da una condizione di precedente frustrazione, di umiliazione patita e lo scopo non è solo – comunque non è prevalentemente – ottenere giustizia, ma assumere il proprio caso come paradigma istruttivo, generalizzabile a cui si può riparare non cercando una propria soddisfazione, ma trasformando il torto subito in nuovo diritto non solo per sé e che, dunque, inaugura un diverso e rinnovato significato di “tutela”.
Io credo che sia per questo che nonostante la felicità interiore in queste note Arturo Schwarz continua a ritornare sulla condizione dell’incertezza del vivere, sul crinale stretto in cui facilmente il rifugio nella norma assume la fisionomia della fuga in un’epoca di pervasivo ritorno non dell’ortodossia, ma delle dottrine sulla vita quotidiana, della legge a dispetto dei percorsi inquieti comunque molto più complicati e antiautoritari cui talvolta si definiscono i rapporti tra persone, e tra queste e la natura e i sistemi-mondo. Ed è per questo, nonostante l’apparente tono leggero, scanzonato e ironico della sua scrittura che Sono ebreo, anche non è un libro solo per sé.
David Bidussa
Caro Paolo,
ho una grande stima per David Bidussa che, oltre ad essere un insigne storico e sociologo, è anche il direttore della biblioteca della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Non è elegante che un autore critichi una recensione del proprio libro, ma in questo caso, la mia non è una critica, anzi ringrazio l’amico Bidussa per essersi occupato del mio lavoro, e forse è mia la colpa se non sono riuscito a far passare il messaggio. Comunque ritengo necessario fare alcune precisazioni per esprimere il mio punto di vista su alcuni passi della recensione.
Bidussa afferma che io parto da “un sistema che ha il problema di dio al suo centro”, che il mio testo è "la descrizione di un rapporto inquieto con un’etica che ha dio nei suoi parametri” e che il mio sia uno "strano e contorto – comunque singolare – confronto col principio d’autorità". Alla base del mio pensiero c’è un’inequivocabile affermazione di ateismo, che non mi sembra “strano e contorto”, e che è sottolineato persino nel sottotitolo del mio libro: "riflessione di un ateo anarchico". Non è un caso se il primo capitolo è, appunto, dedicato a un rigetto categorico e ampiamente ragionato del principio d’autorità. Una lettura non frettolosa del mio testo dovrebbe far capire che al centro del mio sistema non è il problema di dio, ma quello dell’autoritarismo ed è la stessa progressione dei capitoli che dovrebbe dimostrarlo.
Parto dal rifiuto del principio d’autorità, ma non come rifiuto nichilista “per sé e in sé”, ma come “brama di conoscenza” (secondo capitolo) per arrivare al “rispetto del diverso” (3° capitolo) che implica “l’anelito di giustizia”, che comporta, a sua volta, il rispetto della natura. Fatta questa premessa, affermo “il diritto alla felicità” (6° capitolo) e sottolineo “la valenza salvifica e iniziatica della donna” (7° capitolo). Concludo con una riflessione sul pensiero olistico di Spinoza che ha ispirato la mia filosofia di vita e la cui frase “deus sive natura” (dio, cioè la natura) – dal quale deriva il Principio d’autorità – è di un importanza fondamentale. Infatti, con queste parole si afferma l’inesistenza di una dicotomia tra creatore e creatura in virtù del fatto che, per dirlo con le parole di Spinoza, esiste una sola sostanza, la natura, che, secondo i casi, è “naturante” (creatrice) o “naturata” (creatura). Lungi da me, quindi di mettere al centro del mio sistema “l’esigenza della felicità”. Tanto meno, le mie non sono “note sulla vita inquieta” così non mi pare né che io torni “continuamente su l’incertezza di vivere”, né che il mio scritto sia redatto “apparentemente in tono leggero, scanzonato e ironico”. Ironico e scanzonato? Ma! Se il mio testo dà questa impressione, me ne rammarico molto.
Come ogni rivoluzionario, devo essere e sono ottimista, DEVO credere nella natura umana e nella possibilità di un futuro diverso, ma, allo stesso tempo, affermo che questo futuro diverso bisogna conquistarlo, e per farlo la prima esigenza è il rifiuto del principio d’autorità (incarnato nella sua forma più totalitaria dal concetto di dio) che comporta, come affermato prima, la brama di conoscenza: non possiamo aspirare a cambiare il mondo, e la vita, se prima non conosciamo noi stessi.
Un caro saluto anarchico e ateo a tutti i lettori di “A”.
Arturo Schwarz |